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Mafia come sistema

      

   

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 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di:

Antonello Mangano


Per un paradigma della complessità

 

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Gaspare Pisciotta


Messina provincia di mafia

Mafia come sistema

Per un paradigma della complessità

(Roma, Sep 19 2005 12:00AM)

Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Pasolini “La scomparsa delle lucciole”

Introduzione. Cuntrastamu. L’antropologo nordeuropeo Blok si recò in un agro-town del palermitano, nei pressi di Bisacquino. Di certo non padroneggiava il dialetto e rimase stupito nel sentire i contadini rispondergli in questo modo. Lui chiedeva ‘come sta?’ e si sentiva rispondere cuntrastamu. Che era la risposta più logica per chi la vita la viveva come una continua lotta per la sopravvivenza. Da un lato uno Stato assassino, dall’altro una mafia altrettanto assassina. La morte poteva giungere da ogni parte e di sicurezze non ce n’erano. Oggi, si dice, c’è qualche sicurezza in più e lo Stato è un po' meno delinquente. In compenso, in prospettiva, c’è il rischio di morire di Maastricht e di neoliberismo, in Sicilia come in Messico (naturalmente si può ancora morire anche di mafia: in Sicilia come in Colombia, come in Russia, come in Turchia). Senza troppe illusioni e senza ipocrisie. Ma i siciliani, oggi come allora, sono sempre costretti a cuntrastare, resistere. Il male è banale, quotidiano, normale. Il viaggio nel quartiere reggino di Archi e le guerre di mafia messinesi (che si sono trascinate per anni nell’indifferenza generale) sono alcuni tra gli elementi emersi dalla ricerca che mostrano una ferocia ed una crudeltà cui la comunità risponde con assuefazione. Nella creazione di una coscienza antimafia qualche passo in avanti è stato fatto. Ma non certo a Messina, che ha visto la propria Università sconvolta da una lunga serie di episodi di violenza, e non ha mosso un dito; che ha visto le proprie strade sporcarsi di sangue, e ha girato gli occhi da un’altra parte; che ha visto le imprese ed i negozi dei mafiosi aprire in ogni luogo della città, impossessarsi di fette dell’economia locale, entrare nel mondo dello sport; mentre contemporaneamente il racket spargeva il terrore ed imponeva il suo dominio sul territorio. Messina non ha saputo neanche ricordare le sue vittime. La memoria è patrimonio di un’infima minoranza. Morti innocenti come Graziella Campagna, che da più di 10 anni attende giustizia. Ed anche i morti che nessuno ricorderà, i ragazzi uccisi nelle guerre tra le bande, quelli che sono stati eliminati, uccisi dal boss per aver sottratto una dose o un po' di denaro. Ce ne sono di storie così, e sono agghiaccianti. Almeno un pensiero, per queste vittime di un gioco più grande di loro. Morti per la colpa di esser nati nel posto sbagliato, i ragazzi del Cep come quelli di Bogotà, i giovani di Giostra come quelli di Archi. Un pensiero va rivolto anche alla morte civile, al costante decadimento culturale, a tutto il carico di paure e sofferenze che una presenza mafiosa comporta. Più volte mi è capitato di sentire un lamento funebre per "le leggi di mercato" che qui non riescono ad imporsi. Ma pensiamo, ogni tanto, anche al dolore degli uomini e delle donne ! Pensiamo a ciò che è stato ed è il lavoro in Sicilia, sottoposto al duplice sfruttamento di una borghesia ottusa e parassitaria e di una mafia che storicamente ha avuto il compito di imporre la sottomissione di contadini e lavoratori. Chi si fa agnello, il lupo se lo mangia. E’ da anni che sento ripetere questa litanìa, recitata come fosse una legge divina tra le periferie e i settori popolari della città di Messina. Ci è voluto del tempo, e finalmente sono giunto alla conclusione che la colpevolizzazione delle vittime è la più terribile delle forme di dominio, quando viene introiettata dalla vittima stessa. Chi subisce l’estorsione si sente un debole perché non è riuscito a farsi rispettare. Denunciare il torto subito significherebbe riconoscere la propria inferiorità. E similmente, ogni forma di sopraffazione è spesso vista in questi termini: se ho subito, significa che sono debole. Lentamente, in Sicilia le vittime hanno preso coscienza della propria dignità, e insieme hanno provato ad affrancarsi dal dominio. Ma la strada è ancora lunga. A Messina, poi, è lunghissima. Questo lavoro vuole essere una tesi nel senso proprio del termine, ovvero una ipotesi teorica di fondo (la mafia come sistema, appunto) da verificare empiricamente lungo il corso della ricerca. Oggi le tesi di laurea, invece, sono sempre più spesso composte da una parte compilativa in cui si copiano brani dei ‘testi sacri’ obbligatori per quel dato argomento; e da una parte ‘di ricerca’ in cui si riportano i risultati di inutilissimi questionari. Negli ultimi decenni, si è ormai consumata una rigida spaccatura, nell’ambito della sociologia, tra sostenitori della quantità e tifosi della qualità, compilatori di questionari e collezionisti di interviste in profondità, studiosi di statistica e cultori di filosofia: da un lato c’è chi guarda agli Stati Uniti, dall’altro chi ha gli occhi puntati sulla Germania; da un lato ragionieri col complesso d’inferiorità rispetto alle Naturwissenschaften, dall’altro chi preferisce comprendere e spiegare senza ricorrere a correlazioni e variazioni concomitanti che, il più delle volte, sono campate in aria; e comunque hanno un significato ermeneutico limitatissimo. La scelta di campo di questo lavoro è netta: sono stati scelti strumenti diversi dalla raccolta ed elaborazione quantitativa dei dati per tre motivi semplicissimi: 1. Nessuna tecnica tra quelle generalmente utilizzate garantisce una rappresentatività accettabile di qualsiasi campione. 2. La raccolta dei dati, nella smania di semplificare e schematizzare per poi elaborare, cancella o deforma una serie di informazioni fondamentali. Tanto per fare un esempio, il tasso di disoccupazione (un dato assunto - nelle ricerche quantitative - come oggettivo) è una variabile dipendente delle opinioni del misuratore: è disoccupato solo chi ricerca attivamente un lavoro? O anche chi ne ha rifiutato uno ? Il lavoratore in nero è disoccupato o no ? Se sì, come si misura l’area del lavoro nero ? Come evitare che il doppio lavoro falsi i dati ? Una casalinga è disoccupata ? Chi lavora per pochi giorni la settimana è disoccupato ? A seconda delle risposte date a ciascuna di queste domande (ma se ne possono formulare molte altre simili) il tasso di disoccupazione varia in maniera considerevole: altro che dato oggettivo ! 3. Prendendo per buoni i dati, fingendo che i campioni siano realmente rappresentativi, si rimane ugualmente colpiti dalla povertà di informazioni che generalmente si ottengono dalle analisi quantitative. Un ottimo esempio è costituito dal libro "L’immaginario mafioso" [Autori vari 1986], frutto di una ricerca condotta dall’Istituto di Psicologia dell’Università di Palermo. L’indagine è stata realizzata su 117 giovani (divisi tra maschi e femmine, residenti a Trapani e Palermo e con alle spalle una realtà socio-economica medio-bassa, comunque omogenea): a ciascuno è stato chiesto di costruire una storia in seguito all’indicazione di alcuni personaggi stimolo (il boss, il poliziotto, il giornalista, la donna). Nel testo, ci viene detto che nel 36 % dei casi le storie si concludono con la sconfitta dei personaggi deboli, che nel 15 % delle storie è presente una richiesta di aiuto allo Stato, che è forte l’adesione tra i giovani adulti all’affermazione "i mafiosi sono tutti dentro determinati gruppi politici". Sono decine e decine le informazioni di questo tipo, ma neanche una delle storie inventate dai ragazzi e dalle ragazze viene riportata, né vengono accennate le trame né tantomeno i caratteri dei personaggi. Un materiale antropologico presumibilmente ricchissimo, fonte possibile di analisi infinite, è stato letteralmente sacrificato in nome della freddezza e della povertà dei numeri.

Antonello Mangano

 

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