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Il Paese delle Cupole

      

   

Editoriali

 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di:

C. SARCIA'


Potere & Cittadini

 

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2002-2024 Tutti i diritti riservati

S.Giovanni degli Eremiti (PA) 1142


Nuclei di regime stratificato

Il Paese delle Cupole

Potere & Cittadini

(Rieti, Jul 9 2006 12:00AM)

Quando si parla di cupole si pensa quasi sempre alle cupole mafiose, cioè ai gruppi dirigenti delle organizzazioni criminali facenti capo alla mafia siciliana, alla camorra napoletana, alla ‘ndrangheta calabrese ed alla sacra corona unita pugliese. C’è un posto singolare in Sicilia dove un connubio tra arte normanna, bizantina ed araba ha realizzato intorno al 1142-43 degli elementi architettonici suggestivi costituiti da cupole. Mai un’espressione monumentale fu più indicata per illustrare una terra che delle “cupole” è la patria. Si tratta della chiesa di San Giovanni degli Eremiti a Palermo e delle piccole chiese della Martorana e San Cataldo.

I distinguo però sono d’obbligo. L’immagine della cupola è quella di un monolite composto di pezzi ben incastrati tra loro, ognuno dei quali si regge in virtù dell’influenza che esercitano su di esso i pezzi vicini e nel quale tutti i pezzi insieme formano e reggono l’intera struttura. Un vero esempio di architettura edilizia che unisce la semplicità organizzativa alla complessità del progetto.

Una volta costruita, la cupola è destinata a durare; se anche e talvolta qualche tassello dovesse essere rimosso, difficilmente verrebbe meno la forza di coesione che tiene uniti tutti gli altri pezzi. Così, ogni cupola è una costruzione idonea a durare nel tempo, a sopportare qualsiasi genere di sollecitazioni e ad essere riparata in caso di danneggiamenti, tant’è che, eseguita l’eventuale riparazione, la cupola ritorna alla sua primitiva stabilità.

Ma l’argomento che ci occupa non riguarda le cupole progettate e costruite dagli architetti, ma quelle realizzate intorno agli interessi personali e privati facenti capo ad una casta o comunque ad un gruppo di potere.

La distinzione tra caste di professionisti e caste di boiardi è molto flebile, anche perché il “sistema casta” si realizza in modo sintomatico intorno ad ogni potere costituito ed in ogni settore organizzato e organizzabile dai quali, la classe che detiene il potere, non necessariamente anche classe dirigente, trae vantaggi per se stessa e per i suoi adepti. Gli Ordini professionali, ad esempio, sono arroccati sulle loro posizioni di potere e sostengono a spada tratta la loro contrarietà ad ogni forma di liberalizzazione delle professioni, ma anche di facilitazione delle procedure per l’abilitazione delle nuove leve all’esercizio della professione.

Basta spostarsi in Europa per scoprire tutto un altro mondo, nel quale viene assicurata a tutti i laureati la possibilità di esercitare la professione con maggiori garanzie che non da noi. La farsa dell’esame per essere abilitati all’esercizio della professione, così come viene condotta in Italia è il peggio del peggio. Solo a Roma, qualcosa come 7.200 candidati, che il prossimo anno lieviteranno a oltre 8.000!

In Italia i praticanti avvocati non hanno voce e posto nei Consigli dell’Ordine: sono degli “incapaci” e non godono neanche di rappresentanza. I militari eleggono i loro rappresentanti nei Cobar, i praticanti avvocati non eleggono nessuno. Le garanzie riguardo alla corretta conduzione della pratica forense sono teoriche e sono rimesse alla sensibilità deontologica del titolare dello Studio. Non voglio credere alla “diceria dell’untore” che correrebbe sul web secondo cui gli elenchi degli abilitati siano precostituiti. Si può scommettere però che coloro che svolgono la pratica negli Studi quotati, raramente sostengono l’esame più di una volta. Il manuale di deontologia è una specie di Bibbia che viene tirata fuori dal cassetto solo per redarguire quei pochi che vengono “scoperti” a commetterla grossa.

L’Ordine degli avvocati francese assicura le massime garanzie sia agli utenti dei servizi forniti dagli iscritti che allo Stato percettore dei tributi.

In Italia non si è neanche riusciti a realizzare un modello organizzativo uguale per tutti gli Ordini professionali. Tanto per fare qualche esempio: i laureati in medicina accedono tutti indistintamente alla professione, sostenendo un esame puramente formale che li abilita nel giro di qualche mese dopo la laurea. Si tratta di professionisti abilitati a “giocare” con la vita umana. Al contrario, per la maggioranza dei laureati in giurisprudenza, l’acquisizione del “crisma” di avvocato rimane una chimera e la concessione del patrocinio legale è soggetta a forti limitazioni territoriali e temporali, nonché di valore e di competenza.

L’Ordine dei giornalisti ha invece realizzato due elenchi, uno per i professionisti ed uno per i pubblicisti, concedendo ad entrambe le categorie la garanzia di esercitare la professione fino al limite pensionabile e con la possibilità anche per i pubblicisti di diventare direttore responsabile di giornali e periodici. I pubblicisti vengono anche convocati nelle assemblee ed eleggono i loro rappresentanti. con diritto di voto.

Non si può negare che il funzionamento degli Ordini formi in Italia in una vera e propria jungla di “cupole” che gestiscono, ciascuna, un potere formidabile, protette da un impianto legislativo che non consente intrusioni, adattamenti o modifiche.

I recenti provvedimenti governativi di liberalizzazione, paradossalmente adottati in questi giorni da un Governo di sinistra, appaiono un parziale tentativo populista, piuttosto che il preludio ad un riassetto generale ed organico di tutta la materia. Lo sciopero indetto dagli avvocati conferma il sospetto di un’azione condotta ad oltranza per difendere un potere smisurato e non negoziabile.

Tutti noi, addetti ai lavori, sappiano però che sulla cultura giuridica e sulla capacità degli iscritti si possono avanzare più di una riserva.

Si è assistito nelle aule e nelle camere di consiglio a figure barbine che gridano vendetta. Il praticante, vero autore degli atti in discussione e capace di illustrarne i contenuti e di concludere per le richieste, è relegato dalla norma in un angolo, senza voce, né potere perché bollato come “incapace”. Nella medesima stanza un collega avvocato, intronizzato al posto d’onore, darà prova della sua lieve ignoranza, supponendo che il “reclamo” al Collegio avverso un’ordinanza di rilascio sia la medesima cosa di un ricorso al Giudice dell’esecuzione. Un altro collega avvocato suppone invece che la chiamata in causa del terzo sia prerogativa dell’attore, in ogni stato e grado del processo ed assimila tale istituto alla declaratoria di “litis consortio necessario” di competenza del Giudice. Ma, tant’è… quelli citati, sono casi isolati da attribuire a legali abilitati ad esercitare la professione “con licenza di uccidere” perché appartengono ad una “casta” che, comunque, continuerà a gestire un potere smisurato, molto simile a quello gestito dalle cupole italiane di cui andrò trattando. L’anomalia più assordante consiste nel fatto che i praticanti avvocati sono per legge dotati di una capacità limitata che diminuisce di giorno in giorno, fino a sparire del tutto allo scoccare del quinto anno di patrocinio.

Spiace, però, osservare che i motivi di opposizione alle liberalizzazioni posti a sostegno della preclusione non si reggono davvero, specie quando si osserva che il titolare della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali debba ricordare agli avvocati le norme sul preavviso che deve precedere lo sciopero e sulla sua durata.

La diffusione delle cupole all’interno delle organizzazioni politiche ed amministrative pubbliche, il loro diffondersi a livello di sistema, con capacità di influenzare le scelte e di condurre il controllo sulla gestione, è talmente capillare e stabilizzata che c’è da domandarsi se non sia, il sistema “cupola”, la conseguenza naturale della gestione del potere pubblico, ossia una sorta di ineludibile sbocco che la stessa natura umana realizza ogni qualvolta l’individuo si trova per qualsiasi motivo a dover gestire un mandato popolare da cui possono trarsi benefici per tornaconto personale.

C’è anche una fervida letteratura che nasce dalla saggezza dei popoli, condensata in proverbi e detti popolari, che riassume il concetto dell’inevitabilità del coinvolgimento insito e presente nella gestione del potere: “Il mugnaio si sporca di farina; Cu’ avi mannira mancia ricotta.”

Gli esempi sarebbero innumerevoli, come innumerevoli sono le occasioni adatte e le organizzazioni soggette: il reclutamento nei corpi militari e paramilitari, le assunzioni nell’impiego pubblico, nelle aziende di Stato e negli enti locali in genere, la formazione delle graduatorie nei concorsi, l’assegnazione dei punteggi e l’attribuzione dei posti, il rilascio di permessi, licenze ed autorizzazioni, l’accesso a finanziamenti pubblici.

Tutto ciò che contiene o amministra una necessità, un bisogno, un diritto, entra inevitabilmente nella sfera di gestione di una sorta di cupola che pur non essendo riconducibile ipso facto a quelle di stampo mafioso, in effetti funziona in modo simile e tale da apparire come un circolo chiuso che si adopera per conseguire una utilizzazione del pubblico ufficio e delle norme che lo regolano per scopi di indirizzo degli effetti dell’esercizio del potere verso una direzione predeterminata, concordata tra una ristretta cerchia di addetti ai lavori, a beneficio di pochi legati da vincoli solidi ai pubblici amministratori costituenti appunto la cupola.

La cupola talvolta è fine a se stessa, cioè non si propone necessariamente il fine di ricavare un illecito beneficio dalla concessione del diritto dovuto, ma si libera come effetto della produzione contingente di una manifestazione di devianza che generalmente si coniuga nella formula: “funzione/potere” da una parte, “bisogno/sottomissione” dall’altra. In questi casi si realizzano effetti che derivano da una sorta di sadismo naturale che il funzionario statale manifesta nell’espletamento del suo incarico e che si proiettano nel rapporto tra “l’ intransigente detentore del potere” che esercita la funzione, ed il cittadino comune, qualificato nell’immaginario del funzionario come “suddito o questuante, sgradito ed inopportuno”. In questi casi il malcapitato cittadino è percepito come scocciatore, maleducato, prepotente, insolente, noioso e offensivo, e la sua ostinata ricerca di un contatto piano e favorevole, appare inaccettabile e non meritevole di tolleranza. Si tratta di situazioni che si verificano soprattutto quando i due personaggi sono separati da uno sportello o da una scrivania.

Si dirà che siamo di fronte ad una patologia del rapporto tra potere pubblico e interesse privato, ma si tratta di una patologia purtroppo  molto diffusa, che viene usualmente giustificata dai sindacati, e dagli stessi contravventori, con i bassi stipendi, il cumulo di lavoro, il personale scarso, le infrastrutture inadeguate, i mezzi sorpassati.

A monte di tutto c’è però il potere assoluto, a discendere invece, l’esposizione agli umori estemporanei e talvolta meteorici dei kapò dell’amministrazione pubblica, che si cerca di neutralizzare con i comportamenti utilitaristici, con i richiami alla malattia o alla famiglia, con la pantomima volta a far apparire il “questuante senza diritti” rispettoso del suo ruolo di essere inferiore, servile e adulatore, nella remota speranza di riuscire almeno a smuovere i meccanismi ancestrali della pietà, della solidarietà e della cooperazione che pare alberghino in ogni uomo.

La semplice funzione amministrativa si trasforma dunque in strapotere, anche attraverso gli spazi che vengono forniti dalla farraginosità e incompletezza delle leggi, quasi sempre – specie negli ultimi decenni – scritte da un legislatore bizzarro, ambiguo e incompetente. Quando, ad esempio, non si riesce a capire dalla norma se un certo atto da iscrivere a ruolo paga o no il contributo unificato e se lo paga, quale debba essere l’importo, chi decide è il Cancelliere. Si comprende bene quale possa essere la portata del potere esercitato in questi casi.

Quando, più in generale e senza riferimenti ad una specifica amministrazione, ad un simile potere si accompagnassero richieste illecite di doni o di altre prebende, in cambio di servizi dovuti, allora si entrerebbe direttamente nelle fattispecie delittuose previste e punite dal codice penale, quali la concussione e la conseguente corruzione, che finalmente dimostrerebbero che il sistema “cupola” si è ormai instaurato e radicato anche nei bassi livelli della pubblica amministrazione.

Ogni cupola ha un capo supremo riconosciuto e indiscusso, attorno al quale ruotano fidati fiancheggiatori, i quali a loro volta si avvalgono di tirapiedi, portaborse, ruffiani e procacciatori di affari. Il tutto forma una cupola solida, resistente alle sollecitazioni, che talvolta si può anche permettere di perdere pezzi, poi prontamente rimpiazzati per ripristinare la primitiva solidità e intoccabilità della cupola.

Attenzione, però, quando in un luogo, “privilegiato” dall’esistenza di una cupola, viene a mancare il leader, cioè il capo indiscusso in grado di gestire l’organizzazione per capacità soggettive e per maestria acquisita, si verifica spontaneamente la formazione di piccole cupole di settore, operanti in modo autonomo e dissociato, legate comunque da una sorta di solidarietà passiva di non invasione degli spazi di manovra delle cupole contigue, che solo talvolta entrano in conflitto tra loro provocando la crisi del sistema.

Osservando con distacco il fenomeno cupola, potrebbe sembrare, in apparenza, che l’operato delle cupole in fondo non provochi vittime, ma che si limiti a soddisfare la sete di potere e di ricchezza dei suoi appartenenti, senza ledere alcun interesse pubblico o privato. In realtà questo genere di cupole non è dissimile da quello mafioso ed i danni che esso provoca in capo agli esclusi ed ai vessati sono del tutto simili a quelli provocati dalle cupole mafiose vere e proprie.

Prendiamo ad esempio le mafie delle assunzioni per concorso o per chiamata diretta, cui va assimilata la selezione dei volontari per l’ammissione nei corpi militari e paramilitari, nelle accademie militari, nelle scuole di formazione professionale, nelle università a numero chiuso. Ebbene, chi viene assunto senza avere titoli, né meriti, né preparazione, né cultura, né capacità, non fa altro che partecipare alla realizzazione di un vero e proprio illecito che dà luogo ad un indebito arricchimento in danno di coloro che, pur possedendo titoli, meriti, cultura e capacità, sono stati scartati per favorire un incapace. Questo problema esiste e si verifica ogni qualvolta viene bandito un concorso, si dia corso a delle selezioni attitudinali o si debba stilare una graduatoria per titoli e/o esami, oppure quando ci siano da assegnare posti nel settore pubblico e nelle aziende pubbliche privatizzate.

In questi casi scatta una forte sinergia tra pubblici amministratori e rappresentanti sindacali e tra i rappresentanti sindacali di una estrazione politica e gli altri di colore diverso.

Nelle amministrazioni pubbliche privatizzate la progressione in carriera, i passaggi di ruolo, i trasferimenti e comunque la mobilità, nonché la collocazione nelle graduatorie mediante assegnazione di titoli, sono gestiti in conclave da tutte insieme le componenti predette, con una prevalenza decisionale del sindacato sul gestore pubblico, il quale appare supino, letteralmente adagiato sulle conclusioni dei sindacalisti. Non si giustifica tanto asservimento e, di fatto, gli accomodamenti illeciti che vengono operati per far lievitare i punteggi dei concorrenti privilegiati affiliati alla cupola, vengono realizzati mediante l’attribuzione di falsi titoli o mediante interpretazioni fumose e divaricate delle norme giuridiche e contrattuali. Il risultato è simile a quello che si osserva nelle cupole mafiose quando i detentori del potere impongono le scelte strategiche per ottenere illeciti profitti attraverso l’impoverimento degli strati sociali esclusi dai legami con la cupola.

Nel corso della cosiddetta Prima Repubblica, la politica nazionale aveva orientato le istituzioni pubbliche verso una sorta di protettorato, una specie di gestione clientelare che comunque dava la  facoltà a molti di avvicinare i vertici delle cupole, con possibilità di ottenere favori immeritati. Certe assunzioni clientelari seriali, eseguite cioè in gran numero traendo i neoassunti dal corpo dei residenti in un territorio determinato, fanno ormai parte della letteratura politica nazionale.

Ne sopravvive comunque un esempio a Ceppaloni, dove ogni domenica schiere di postulanti si recano alla Villa di Mastella per consegnare petizioni finalizzate alla concessione di un posto di lavoro statale.

Mi chiedo se è dalla durata del Governo Prodi, che dipenderanno le prossime assunzioni di secondini, cancellieri, ufficiali giudiziari e uscieri ministeriali che, guarda caso, potrebbero in gran parte risultare residenti a Ceppaloni e dintorni.

Per non parlare delle famose pensioni di invalidità distribuite a pioggia negli anni scorsi in un Meridione ripiegato su se stesso e privato delle iniziative di formazione e investimento che avrebbero potuto in tanti anni modificarne radicalmente il costume e l’economia. Non si può dire che non sia stata l’opera instancabile di più di una cupola a concretare uno sconcio di tale genere.

Il sistema cupolare nel passato della Prima Repubblica ha coinvolto tutto il cosiddetto Arco Costituzionale, quasi legittimando ogni costituente politico dell’Arco stesso, indipendentemente dalle prerogative ideologiche e dalle premesse storiche, a gestire il potere mediante l’abuso istituzionalizzato.

Quelli di sinistra ad esempio hanno sempre preteso dai loro seguaci una reale sudditanza ideologica ed una stretta militanza politica che andava necessariamente dimostrata con la partecipazione assidua alle attività di partito e con l’accettazione supina delle scelte dei capi locali.

I cosiddetti moderati, più superficialmente, hanno più che altro guardato alla provenienza della sollecitazione. Ma quasi sempre l’intermediario che segnalava alla cupola un caso da risolvere, coincideva con uno dei componenti della cupola stessa. Era un modo come un altro per dissimulare i ruoli di ciascun componente e per filtrare le sollecitazioni.

La sinistra, più accortamente, si accontenta di esercitare il suo potere ideologico direttamente, a partire dai bassi livelli, ed a tal fine si è dotata di un apparato periferico, tuttora funzionante, facente capo ad un’unica cupola rappresentata dal partito.

Mi piace qui riprendere una mia vecchia teoria secondo la quale il sistema “raccomandazione”, che ha avuto in Italia la sua massima espansione nei passati cinquant’anni di era repubblicana, derivasse dall’influenza diretta esercitata dalla Chiesa sul partito cristiano democratico. Il riferimento era alla pratica della preghiera cui sono stati abituati i cristiani dalla Chiesa per chiedere ai santi le grazie più varie; a Napoli, persino quella di ricevere ispirazione nella scelta dei numeri del lotto vincenti. Ebbene, proprio ieri, in una strada di Cittaducale, ho preso cognizione dell’esistenza di una chiesa del XV secolo dedicata proprio a “Santa Maria dei Raccomandati”.

Davvero una grandiosa rivelazione che conferma la mia teoria!

La cupola istituzionale più solida ed intoccabile è però costituita dai due rami del Parlamento. I parlamentari degli opposti schieramenti si scannano infatti su qualsiasi argomento, mantengono vivi l’odio e il disprezzo che derivano loro dalle divisioni trasversali con cui coltivano la tensione sociale e che risalgono ad antichi episodi dei quali in massima parte non esistono più neanche i testimoni. Eppure, quando si tratta di bloccare leggi idonee a contrastare adeguatamente l’evasione fiscale, o quando si discutono provvedimenti di aumento dei loro stipendi e delle loro ferie, sono tutti spudoratamente d’accordo. All’unanimità. Semplice conflitto di interessi, o esercizio di un potere smisurato in danno dei cittadini ed a proprio beneficio,  e quindi cupola assimilabile a quelle di stampo mafioso?

C’è ancora una cupola poco nota agli Italiani che è quella delle auto blu concesse per tutta la durata della loro vita terrena agli ex presidenti della Camera dei Deputati; da Zanone, presidente per soli due mesi, alla Pivetti che ha anche chiesto ed ottenuto un’auto blu idonea a trasportare anche le carrozzine dei pargoli nati dall’eclettica ex presidentessa. In tutto si favoleggia di qualcosa come 600 auto blu, con relativi conduttori coperti da indennità per qualsiasi destinazione piaccia agli ex presidenti raggiungere, nonché liberate dalle spese dei consumi, della manutenzione e degli annessi e connessi,…lavatura e stiratura (direbbe Totò).

Dal sistema delle cupole non è rimasta esclusa neanche la Chiesa ed in fatto di partecipazione di alti prelati alle cupole politiche e finanziarie, ci sono esempi che hanno svelato le strane attività di vescovi e di cardinali. Abbiamo infatti avuto modo di osservare come la Chiesa sia stata spesso parte attiva e propositiva del sistema delle cupole.

Il caso di Mons. Marcincus ne è esempio lampante; mentre il caso del Cardinal Giordano si colloca addirittura tra le aberrazioni. Ingiustificabile anche la vicenda americana che ha svelato i sistemi spiccioli di “copertura” degli alti prelati malati di pedofilia. E non va neanche trascurata l’attività di alcune organizzazioni ecclesiastiche impenetrabili, solidamente orientate al conseguimento ed all’esercizio di un potere non espressamente dichiarato, che fanno spesso capo direttamente al Vaticano e di cui è dato conoscere soltanto qualche vaga informazione sfuggita al segreto canonico. Mi riferisco all’Opus Dei, all’organizzazione dei Gesuiti, a Comunione e Liberazione, alle oscure connessioni tra Vaticano e banda della Magliana ed in genere a tutti i movimenti di evangelizzazione e di servizio (cursillos, focolarini, neocatecumenali, comunità di base, ecc.), organizzati in forma piramidale, che sfruttano il potere che deriva loro dall’azione sistematica di coartazione delle coscienze e di influenza dei comportamenti e delle decisioni, che si attuano attraverso programmi di sottomissione psicologica studiati a tavolino da equipes di esperti specializzati operanti sotto l’attenta supervisione di sacerdoti appositamente selezionati.
Si tratta per lo più di gruppi costituiti da diseredati, deboli, precari e labili, tenuti insieme dal collante dell’emergenza psicologica, gestiti come un partito politico da agitprop cattocomunismi ed usati come serbatoio di voti da offrire, ad ogni appuntamento elettorale, in cambio di “favori” personali.

Ormai il sistema delle cupole si è diffuso capillarmente nella società nazionale. Non ci vuole una grande capacità immaginativa per intravedere nel “caso Parmalat” i disegni di una organizzazione di tipo mafioso finalizzata all’arricchimento dei compartecipi, a danno dei risparmiatori.

Forse i più stenteranno a credere che il Sig. Calisto Tanzi, con il suo aspetto distinto e la sua erre moscia, possa aver  impersonato la parte del padrino in una storia che, per come è stata organizzata, per come è stata condotta, per quanto è durata e per i frutti che ha assicurato ai suoi compartecipi ai vari “livelli”, possiede sfacciatamente connotati più che mafiosi. Tanzi elaborava il piano insieme ai suoi stretti collaboratori: “raschiare quanto più denaro possibile dalle tasche dei beoti risparmiatori mediante cessione di azioni senza copertura finanziaria e di obbligazioni prive di garanzie”. I proventi sparivano poi nei buchi neri dei paradisi fiscali tropicali. Ma affinché l’enorme truffa potesse realizzarsi era necessaria l’opera assidua ed interessata dei procacciatori di affari, degli intermediari e soprattutto delle banche scelte per emettere i titoli fasulli. I poveri risparmiatori venivano così inconsapevolmente truffati e spogliati di tutti i loro risparmi. Un crimine che ha poco a che vedere con la semplice bancarotta fraudolenta o con la truffa, ma che assume i contorni di una modalità mafiosa raffinata e spietata, capace di creare un gran numero di vittime, non diversamente dalle cupole mafiose vere e proprie.

La forza persuasiva esercitata dalla minaccia mafiosa è qui surrogata dalla forza persuasiva esercitata dalla fiducia generata dall’immagine del Tanzi, capo indiscusso di una cupola costruita in tanti anni di lavoro solo in apparenza onesto. Infatti all’inizio della vicenda, nelle interviste, i risparmiatori frodati manifestavano persino il loro sbigottimento ed il loro smarrimento per l’accaduto e si auguravano, increduli, che venissero salvati almeno i posti di lavoro. Santa innocenza!

Altre analoghe considerazioni valgono per la cupola Unipol, ormai passata sotto silenzio. I media, lo sappiamo, sono in maggioranza orientati verso la sinistra per cui, passata la fase cruda delle intercettazioni telefoniche sui vari  Fassino, Fiorani, Fazio, tutto il clamore si è spento, coperto poi dalla politiche e dal referendum. Lorsignori, comunisti d.o.c., facevano pagare ai clienti 30 euro al mese di spese di conto corrente. Questi soldi illegittimamente sottratti a povera gente fedele al partito e perciò stesso clienti dell’Unipol. Gli ingenti capitali così raccolti, venivano trafugati e trasformati o riciclati in affari personali della cupola che li gestiva in nome e per conto propri.

La cosa che sconcerta è che i clienti così truffati hanno continuato a votare comunista, evidentemente convinti che i soldi sono andati al partito.

Altre considerazioni si possono esprimere sul recentissimo caso nato intorno alla equivoca figura di Moggi che ha coinvolto la Juventus ed altre squadre di calcio. Anche qui si avverte con prepotenza la presenza di una cupola mafiosa sfrontata ed audace, se vogliano, anche più spregiudicata della cupola facente capo a Tanzi, perché alla frenesia di rastrellare ingenti capitali da fare sparire all’estero, si sono aggiunti atti sicuramente riconducibili a responsabilità penale specifica, costituiti da intimidazioni, sequestri di persona, truffe, ricatti, intimidazioni, ecc.

Il panorama è talmente vario ed articolato che bisognerà attendere la conclusione delle indagini per trarre conclusioni accettabili. Il padrino è chiaramente il Sig. Moggi. I suoi atteggiamenti, le sue parole, il suo tratto, sono più spregiudicati e meno raffinati di quelli usati dal Tanzi. Quest’ultimo, a volte, appariva persino rassicurante; mentre il Moggi si presenta chiaramente come un audace avventuriero.

Moggi è ormai indicato a chiare lettere da tutto il firmamento del calcio italiano e straniero come il capo di una cupola che gestiva il sorteggio degli arbitri e quindi i destini di alcune squadre in particolare, e più in generale, del calcio italiano.

Le curve dei tifosi, talvolta rumorosi e talvolta violenti, servivano da schermo di copertura. Come da schermo legittimante servivano le trasmissioni tipo “Quelli che il calcio…” o “Il processo di Biscardi”. Gli arbitri, si sa, sono per antonomasia “cornuti”. Che differenza volete ci possa essere tra un arbitro che sbaglia naturalmente ed uno che sbaglia perché lo hanno obbligato o addirittura pagato per farlo? Nessuna: sono entrambi cornuti. Così, la cosa sarebbe potuta andare avanti ancora chi sa per quanti anni.

Nel frattempo alcune squadre fallivano, altre venivano retrocesse in serie B o C ed il calcio andava a ramengo, fino alla completa istituzionalizzazione dell’illecito sportivo celebrato sugli schermi televisivi e nei campi di calcio, di violenza in violenza, di doping in doping, provocando la squalifica di società, tifoserie, calciatori e spettatori.

Il caso Moggi, come tanti altri in Italia, ha rivelato l’esistenza di una organizzazione di tipo mafioso, organizzata realisticamente in forma di cupola, nella quale uno decideva, altri approvavano ed altri ancora eseguivano, con la conseguenza del dissesto economico di alcuni e dell’illecita produzione di altissimi redditi in tasca ad altri. A margine di tale turpe organizzazione, si svolgevano trattative ad uso e consumo di balordi camuffati da giornalisti o da manager, e si distribuivano prebende e favoritismi per tacitare gli scontenti e far divertire i nani e le ballerine.

Diciamo comunque che gli elementi di colpevolezza sono scaturiti dalle “registrazioni” telefoniche eseguite capillarmente dalle società di telecomunicazione operanti sul territorio nazionale senza alcun divieto o controllo da parte del Garante per la privacy. A queste registrazioni, all’occorrenza, i magistrati hanno accesso libero ed incondizionato, con la sola variante del cambio di nome: “intercettazioni” anziché “registrazioni”. Tant’è vero che dopo qualche ora le loro trascrizioni integrali vanno a finire sui giornali. Apprendiamo così che a Padre Fedele “piace” leccare la nutella con quel che c’è sotto ed altre amenità che davvero non avrebbero rilievo alcuno nelle inchieste. Non si è mai riusciti, neanche dopo esaustivi dibattiti parlamentari,  a comprendere chi sono i responsabili che consentono ai giornalisti di pubblicare i testi delle conversazioni più intime dopo qualche ora dall’acquisizione da parte dei P.M.

Ricordiamo, oltre alle conversazioni intime di Padre Fedele con le sue amiche, anche quelle di Fassino e di Fazio con in vertici di Unipol e dello  stesso Moggi coi vari dirigenti arbitrali.

Non è forse anche questa una inquietante cupola di irresponsabili autorizzati in proprio a fare strame della vita privata e delle libertà dei cittadini?  Ma il suo funzionamento di questa cupola è talmente coperto che non si è mai riusciti a risalire ai responsabili.

A questo punto, siamo costretti a fare un’amara considerazione: la presenza dello Stato in Italia è carente, in tutti i settori ed a tutti i livelli! Com’è potuto succedere? Tra il 1968 ed il 1975, lo Stato austero e solido, nato dal sacrificio dei morti sui fronti monarchici e nelle ridotte repubblichine, nonché dei morti ammazzati in nome della Liberazione nazionale, in realtà, in nome delle “vendette” private eseguite porta a porta anche contro i testimoni innocenti, è progressivamente perito.

Lo Stato, così come era stato progettato nella Carta Costituzionale, sorretto dai propositi di una solida e morigerata gestione delle risorse nazionali, ha completato  il suo ciclo. Dapprima sotto i distinguo ed i divieti incrociati tra gli affiliati della Balena Bianca ed i Rossi; successivamente, e definitivamente, sotto la coltre delle connivenze scaturite dal “compromesso storico”, ma soprattutto della tornata brigatista degli anni Settanta. Allorché nell’ordinamento nazionale, che ha finito col realizzare un socialismo reale camuffato da pentapartito, sono state accettate leggi pensate nei ridotti delle Botteghe Oscure ed adottate dal corpo legislativo con il beneplacito dei Parlamenti e dei Governi di centrosinistra, si è incrinato il patto di solidarietà nato dalla tolleranza e dal compromesso. Lo scopo occulto perseguito dalle sinistre è comunque rimasto sempre quello di concludere l’egemonizzazione dello Stato progettata da Gramsci ed avviata con il referendum “Monarchia-Repubblica”. Egemonizzazione ormai conseguita con esasperante precisione e senza risparmio di colpi, i cui effetti colpiscono con precisione stupefacente i cittadini indifesi, mentre favoriscono gli adepti e gli accoliti appartenenti alle sinistre.

Berlusconi, che ha occupato per cinque anni, con i suoi collaboratori, i posti di Governo, non ha invero compreso nulla del momento storico italiano e di ciò che serviva al Paese, per cui ha perduto tutte le occasioni per adottare i provvedimenti di liberalizzazione di cui aveva bisogno il Paese, e fare veramente chiarezza nei fatti. Non sapremo mai se si sia trattato di un disegno “criminoso” che presupponeva la stupidità della maggioranza degli elettori, oppure, di una vera e propria incapacità politica e amministrativa della classe dirigente del Polo delle Libertà. Sta di fatto che in questi giorni stiamo assistendo al colmo dei colmi: il Governo Prodi, pur nelle obiettive difficoltà di mantenere salda la sua maggioranza, il primo luglio ha sfornato un decreto contenente una miriade di provvedimenti a di pura marca liberista, molti dei quali promessi per cinque anni dal Cavaliere e però rimasti inattuati. E’ il colmo che i provvedimenti che gli Italiani si aspettavano da Berlusconi, vengano invece attuati proprio dai vituperati “comunisti”.

Ma al distratto Berlusconi succedeva anche altro. Il suo Governo presentava le leggi, il parlamento le approvava, ma subito dopo, passata l’euforia del successo ed il trionfalismo dei contenuti, gli amministrativi infiltrati dall’egemonia comunista le modificavano radicalmente attraverso i regolamenti di esecuzione, talvolta anche con lo strumento del decreto ministeriale convertito in legge, quindi senza che gli agitprop dell’opposizione se ne assumessero la responsabilità.

Uno dei casi più eclatanti e vergognosi riguarda il comma 53 dell’art. 1 della finanziaria per il 2005, varata da Berlusconi nel dicembre del 2004. La volontà politica espressavi riguardava la riammissione in servizio con il grado e la funzione precedentemente ricoperti, di tutti i dirigenti militari e civili dello Stato che avevano lasciato anticipatamente il servizio per difendersi nei processi conclusi con la loro assoluzione. Tra questi c’era anche il Giudice Carnevale.  La volontà politica berlusconiana espressa con precisione zaratustriana in quel comma 53 venne invece proditoriamente frantumata e coartata da solerti funzionari ministeriali, evidentemente organizzati in cupola che furono capaci di emanare regolamenti di attuazione contenenti termini del tutto opposti a quelli edittali, con il risultato che quasi nessuno dei predestinati riuscì a rientrare in servizio e quei pochi che ci riuscirono, dovettero accettare di perdere il grado conseguito prima del collocamento a riposo senza che poi lo potessero riottenere.

Sono evidenti le carenze mostrate dai Segretari di Stato del Governo Berlusconi, ed è altrettanto evidente il risultato dell’opera sottile e distruttiva attuata dalle cupole annidate nei ministeri che con il loro lavoro raffinato e spietato hanno conseguito scopi oscuri mirati alla disarticolazione del consenso, a danno del Governo in carica che neanche se n’è accorto.

In effetti Il Governo, facente capo all’eclettico e imbattibile Berlusconi, era intento ad inventare capitoli di finanza creativa, alcuni dei quali semplicemente stupefacenti. Uno dei tantissimi riguarda l’abolizione del ricorso gerarchico contro le determinazioni di invalidità civile, che è stato rimpiazzato con il ricorso in via giudiziale davanti al giudice del lavoro. Durata media del processo: due anni. In questo modo Tremonti e la sua cupola sono riusciti a rinviare di qualche anno il pagamento di pensioni di invalidità con il semplice loro  “congelamento” nelle Cancellerie dei Tribunali italiani.

La dissoluzione dello Stato è cominciata molti anni fa ed è passata anche attraverso le riforme scolastiche. Più deleteria di tutte, la riforma del ministro della P.I. Misasi, passata alla storia come riforma dei “misasini”, con la quale fu praticamente introdotto il “sei politico”. Riforme come questa, hanno soprattutto provocato la deriva del sapere e della conoscenza ed hanno instaurato e legalizzato l’ignoranza istituzionale.

Alle riforme scolastiche si sono accompagnate altre più deleterie riforme, quali l’introduzione del divorzio e la legalizzazione dell’aborto. Si plaudì da più parti, anche da parte cattolica, alla finalmente raggiunta parità tra i sessi, volutamente sorvolando sulle ricadute che avrebbero inesorabilmente modificato in peggio la solida struttura sociale basata sulla famiglia, sulla civiltà contadina e sulla piccola impresa.

Il concetto di famiglia è stato lentamente demolito ed il perimento della famiglia ha dato luogo a fenomeni di accoppiamento pseudo-familiare e di ripudio della maternità. Oggi si paventa addirittura la legalizzazione dell’unione tra persone dello stesso sesso. E’ recentissima la notizia delle concessioni sociali fatte dal presidente regionale gay Vendola, in Puglia, alle coppie di fatto.

Frattanto i Governi si sono succeduti a ritmo sostenuto, perdendo la loro forza di incidere sulle scelte popolari e dando l’avvio alla deriva istituzionale, con la definitiva legittimazione del “sistema cupola” il cui stile organizzativo, adottato in ogni livello della politica, ha contaminato l’intero sistema amministrativo. Va da sé che “Chi pratica con lo zoppo impara a zoppicare”.

La storia di Tangentopoli dovrebbe essere riscritta per intero. La verità, se non in qualche raro caso, ad esempio quello chiarissimo del ministro liberale della sanità De Lorenzo, in realtà non è mai stata svelata per intero. Oltre ai morti suicidi ed al “tintinnio di manette” bisognerebbe registrare anche connivenze inconfessabili, veli di pietà, impostazioni personalizzate delle indagini, influenze presenzialiste e distinguo, operati dalla magistratura. Sta di fatto che le indagini ed i processi che ne sono seguiti, ma soprattutto la ribalta mediatica che li ha accompagnati, hanno impresso una decisiva virata al sistema della politica, orientandolo verso la realizzazione di nuove e più efficienti cupole per la gestione del potere politico e amministrativo eliminando quasi del tutto i pericoli di nuove paralisi del sistema. Emergono infatti rari casi dal panorama nazionale dello strapotere incontrollato degli amministratori della cosa pubblica: uno, quello di Lady ASL a Roma.

Si è infatti decisamente passati dal “pizzo”, nelle inchieste su tangentopoli definito eufemisticamente “tangente”, alla “consulenza”, legalizzando un illecito penale e amministrativo attraverso una procedura che ha messo al riparo da indagini e incriminazioni sia i componenti delle cupole politiche, sia i loro intermediari, compresi prestanome e le teste di legno.

Bisogna attribuire comunque a Prodi la paternità del sistema delle consulenze miliardarie, inventato e sperimentato proprio da lui mediante la creazione di quell’oggetto misterioso che si chiama “Nomisma”, che possiamo definire una vera e propria truffa all’italiana, il cui scopo è quello di creare ricchezza nelle tasche dei partecipanti al progetto. Infatti, se ci pensiamo bene, una cosa è la dazione di danaro fatta nelle mani di un fedele emissario della cupola, altra cosa è il passaggio di denaro quale compenso per una prestazione, sia pure fumosa ed impalpabile, come la consulenza.  Nel primo caso si tratterà di una tangente, quindi di un corpo privo di legittimità, censurabile sotto ogni aspetto ed  impossibile da occultare, anche se nello specifico ha goduto di coperture ideologiche sotto l’appellativo fumoso di “finanziamento illecito ai partiti” (mai provato fino in fondo).

Nel secondo si tratterà invece di un onorario, ossia di un compenso per una prestazione professionale regolarmente fatturata, ma che ad una indagine approfondita, volendo, potrebbe rivelare la fragilità del progetto, considerata la forzatura che lo sostiene costituita dal nesso di causalità tra l’onorario astronomico e la prestazione inconcludente e superficiale. In ogni caso, una presa per i fondelli bella e buona, in cui la presa è esercitata dai partecipanti alla cupola, mentre i fondelli sono comunque e sempre quelli degli Italiani.

In entrambi i casi tuttavia si tratta di una semplice manovra di distrazione di fondi provenienti dal bilancio degli enti pubblici, in sostanza dallo Stato, a favore di appartenenti a vario titolo a ben architettate cupole politico affaristiche.

La prova evidente della gravità degli illeciti e del volume di atti illeciti compiuti ai danni dello Stato è costituita dalle proporzioni macroscopiche del deficit di bilancio, la cui entità è direttamente proporzionale, nello specifico, al valore complessivo della spesa sostenuta per il finanziamento delle opere pubbliche iniziate e mai terminate, che si trovano disseminate in tutto  il territorio nazionale, per lo più, opere inutili, spesso e volentieri progettate su terreni non idonei e quasi sempre realizzate con materiali scadenti.

Il programma televisivo “Striscia la notizia” ne è da tempo diventato la ribalta. Ebbene, la semplice somma aritmetica degli sprechi realizzati dalle cupole periferiche per ottenere l’illecito arricchimento dei loro adepti, darebbe un risultato sicuramente superiore all’intero disavanzo pubblico.

Questi sono solo alcuni spunti per misurare la consistenza dell’opera disgregatrice compiuta dal sistema delle cupole, sfuggito ormai ad ogni controllo perché frutto di un corpo legislativo che ha estromesso dalle indagini di P.G. fin dai primi anni Sessanta gli Agenti e gli Ufficiali della Polizia Giudiziaria, cioè i navigati marescialli dei Carabinieri, concentrandolo nelle mani di giovani magistrati freschi di concorso.

Tutto iniziò nel 1964. Si paventò allora la realizzazione di un potere eccessivo nelle mani dell’Arma dei Carabinieri. Il commento inascoltato dei marescialli dei Carabinieri di allora fu: “Ci hanno legato le mani!”.

Il risultato della “legatura delle mani” è quello odierno, di un paese letteralmente in mano alle cupole di ogni ordine e grado, con un bilancio che ha toccato un passivo ormai irrecuperabile ed una evasione fiscale senza precedenti. Un paese nel quale le istituzioni vanno alla deriva e la società è ogni giorno di più illustrata da eventi poco rassicuranti per i cittadini e per il futuro della nazione.

Il deficit mastodontico del bilancio nazionale è chiaramente frutto del “lavoro” sottile e minuzioso realizzato dalle cupole politiche e amministrative, conniventi con le cupole disseminate localmente, quando di stampo mafioso, quando similari, i cui interessi si sono congiunti ed intrecciati (aveva visto giusto Caselli) per realizzare sinergie tra cupole periferiche e cupole centrali. Più in generale, sono poi venuti meno i controlli. Le autonomie sono colpevolmente servite ad evitare i controlli sull’operato delle cupole periferiche, lasciate “vivere” e prosperare, con un tacito accordo che ha coinvolto ogni livello della politica e dell’amministrazione pubblica e realizzato un potere smisurato in mano a pochi.

Il reato inventato nel corso dei processi di tangentopoli, di “sostegno esterno ad una organizzazione mafiosa”, andrebbe interamente riscritto e modificato nella sua enunciazione, in reato di “connivenza paritetica tra cupole di stampo mafioso, cupole politiche e cupole amministrative, sinergicamente orientata a realizzare l’illecito arricchimento dei suoi appartenenti, lo sfruttamento organizzato dello Stato e l’impoverimento dei ceti sociali emarginati e indifesi”.

Il Paese manca soprattutto del senso dell’autorità. Dal dopoguerra, fino all’inizio degli anni ’70, la funzione dell’autorità era esercitata dalle istituzioni attraverso i suoi dirigenti, la cui costante e capillare azione realizzava una atmosfera di sicurezza sociale che convinceva le generazioni e le coinvolgeva nel compimento del loro dovere insegnando loro, prioritariamente, a trasmettere ai discendenti gli stessi principi. Oltre alla mancanza di autorità nelle istituzioni, si registra oggi una manifesta incompetenza a gestire la cosa  pubblica ed insieme una tracotante pretesa di essere autorizzati a gestire tutto il potere possibile ed esercitabile. Insomma, il senso dell’autorità è stato sostituito da un sentimento ormai radicato nei comportamenti degli operatori pubblici: la “cosa pubblica” viene trattata e gestita come “cosa propria”, con una involuzione nel rapporto pubblico-privato che si espande capillarmente in un progetto ampio e organizzato ormai introiettato e digerito nel sentire di chi gestisce tutto il potere come “cosa nostra”.

Il presupposto di questa trama è la formazione di una base di tacito consenso, realizzata mediante l’interdipendenza tra istituzioni pubbliche e organizzazioni mafiose, attraverso la tessitura di una rete di rapporti e di connivenze che si ottengono con lo scambio di favori, il cui risultato tende all’abuso ed alla sopraffazione per mezzo della violenza morale, psichica ed esistenziale esercitata: sulle masse, con la stasi del progresso; sul singolo cittadino, ogni volta che questi ha bisogno dello Stato.

Osserviamo ormai di frequente che il potere politico ed amministrativo si è frammentato in tante cupole, disseminate in ogni istituzione ed in ogni centro di potere, negli uffici pubblici e nei pubblici servizi. Neanche l’iniziativa privata sfugge al decadente disegno della trasformazione in cupole della società attiva; per cui  anche gli investimenti privati, le assunzioni ed i licenziamenti sono divenuti una sorta di merce di scambio tra organizzazioni politiche e sindacali ed organizzazioni private, i cui effetti puntano decisamente a confondere le responsabilità onde ottenere l’ irresponsabilità collegiale che solleva i componenti dalle responsabilità dei dissesti e delle bancarotte in ogni ambito e da ogni addebito.

Il caso Parmalat costituisce di per sé un modello convincente: si parla di oltre 250 indagati e di un buco di 14 miliardi di Euro: una vera e propria cupola. Una indagine (tardiva) che ha coinvolto i proprietari ed i vertici dirigenziali della Parmalat e delle sue derivate, ma anche le banche, ciascuna con una rappresentanza ben nutrita ed assortita di dipendenti, di direttori di filiale e di promotori finanziari, in un guazzabuglio organizzativo e istituzionale che offre la misura del decadimento strutturale che ha coinvolto la nostra società nell’epoca che ci riguarda.

Non parliamo delle magistrali connivenze tra Governi, sindacati e FIAT, che hanno visto l’azienda automobilistica di Stato intascare finanziamenti pubblici senza limite sotto il ricatto del licenziamento in blocco di masse di lavoratori. Ricordiamo tra le ultime, le pressioni esercitate dal sindacato ed orchestrate dall’ancora vivente Cavalier Giovanni Agnelli, con le manifestazioni di Termini Imerese in Sicilia e di Arese nel casertano. Si è trattato di investimenti statali a fondo perduto che hanno fatto lievitare il deficit del bilancio senza che la FIAT abbia poi realizzato un vero impegno nella progettazione e quindi nella produzione. La massima industria automobilistica nazionale non è stata infatti capace di contrastare le massicce importazioni di auto “fuoristrada” giapponesi e sud coreani. Bastava semplicemente progettare e realizzare un mezzo analogo a quelli provenienti dai mercati orientali, competitivo nel prezzo e nel modello, in grado di creare lavoro, concorrenza e vera ricchezza, in tasca agli Agnelli, nel calcolo del PIL e nel Bilancio dello Stato.

Non è forse legittimo sospettare che nel delittuoso disegno di non produrre fuoristrada si siano annidate le manovre di una cupola con tentacoli nazionali e internazionali, che ha incassato nutrite tangenti, o qualcosa di simile, pagate dalle case costruttrici orientali, non si saprà mai a chi, tali da far tacere qualsiasi iniziativa di orgoglio nazionale sia a livello industriale che di Governo?

Un breve accenno alla maxicupola realizzata dai partiti e dai sindacati della prima repubblica con la cosiddetta legge “Mosca” (dal nome del suo primo firmatario), che rappresentò il mezzo “legale” per costringere lo Stato a “sanare” un gran numero di rapporti di lavoro, molti dei quali mai posti in essere, mediante l’attribuzione di versamenti previdenziali “virtuali” cui non corrispose alcuna somma realmente versata dai partiti e dai sindacati, a favore di sedicenti impiegati nelle sezioni di partito e negli uffici del sindacato, mediante esibizione di certificati e dichiarazioni rilasciati dai responsabili a livello locale, che diedero luogo al pagamento di pensioni di anzianità  che gravano tuttora, e graveranno ancora per anni, sul bilancio.

La cosa potrebbe sembrare datata e quindi ormai più pericolosa per il bilancio statale. Mi dispiace dover rivelare che il sistema è ancora attuale ed opera nel silenzio più assordante, a favore di imprenditori furbi e di pochi scrupoli. Parliamo di un aspetto della cosiddetta legge “Biagi” vituperata dai comunisti e osannata da Tremonti e Berlusconi. Da alcuni anni c’è il vezzo di frazionare la propria impresa in tante piccole impresine, tutte dislocate nello stesso capannone. Cosa c’è di male in fondo? Al massimo si evadicchia un po’. Ha autorizzato Berlusconi. Ma non è che si evadicchia e poi basta. Il vezzo del frazionamento dell’azienda, serve anche a porre in capo allo Stato il pagamento dei contributi previdenziali per anni e anni. Talché uno potrebbe arrivare alla pensione senza che il suo datore di lavoro abbia mai versato un centesimo. Vorrei dire: “una lira”, ma non posso più, grazie a Prodi.

Infatti, il titolare dell’azienda assume a tempo indeterminato chiunque voglia e per due anni non paga i contributi poiché se ne fa carico lo Stato. Si tratta di contributi virtuali, come quelli ideati dall’On. Mosca.

Ma cosa fa il furbo titolare qualche mese prima che finisca la cuccagna della legge “Biagi”? Induce il dipendente a presentare le sue “volontarie” dimissioni, quindi lo riassume in un’altra delle aziendine da frazionamento ubicate nel medesimo capannone. E così via, all’infinito, fino alla pensione. Ed io pago! Suggerisce Totò dalla sua tomba.

Non è lecito ipotizzare l’esistenza di un comitato di affari istituzionale, o meglio di una cupola di grosse proporzioni con ramificazioni territoriali nella quale lucrano in tanti ed a tutti i livelli?

C’è un’altra cupola scandalosa, ignota ai più, che siede nientemeno che sugli scranni della corte Costituzionale. La Costituzione italiana prevede che il Presidente della Corte Costituzionale cambi ogni tre anni. Di fatto si verifica che il presidente cambia invece ogni tre-quattro mesi. Il trattamento economico assegnato ad ogni Presidente contiene tali e tanti benefici e prebende vitalizie che i signori della cupola si tramandano un accordo tacito per cui viene eletto Presidente sempre il membro più vicino ai limiti di età. E’ giocoforza quindi che il fortunato eletto se ne vada in pensione dopo qualche mese con tutti gli onori, nascondendo alla vista degli Italiani sotto l’ampio ermellino, le concessioni, le buonuscite ed i vitalizi a carico dello Stato, previsti da un Regolamento truffa che la dice lunga sulle cupole che corrodono da decenni il bilancio dello Stato in misura abnorme ed inaccettabile.

Per certi versi, le scaramucce di sportello, dove la tracotanza dell’impiegato sgarbato e menefreghista si scontra quotidianamente con le aspettative del cittadino vessato, tartassato, deluso e perseguitato, non sono neanche da considerare elemento diretto, costitutivo di cupole e cupolette, ma al massimo, una innocente evasione dal sistema.

Si tratta infatti soltanto di fenomeni sociologici e comportamentali che investono  la sfera personale, senza coinvolgere direttamente l’istituzione. C’è comunque da lamentare, anche in questi casi, la totale assenza di controllo e di supervisione da parte dell’autorità preposta, per cui l’esercizio del potere che la catena gerarchica dovrebbe esercitare su costoro attraverso il deterrente dell’organizzazione del lavoro, del controllo, dell’autorità e della sanzione, è ormai venuto meno del tutto. E’ entrato in uso al suo posto un sistema di deresponsabilizzazione, basato sul “chi se ne frega” e del “chi me lo fa fare”. Mancano le sanzioni e manca soprattutto chi dovrebbe infliggerle e se questi c’è, gli mancano il coraggio e la competenza.

I capi infatti ci sono, ma per quieto vivere, per continuare indisturbati a farsi i fatti propri, per dedicarsi ai loro interessi, sorvolano, chiudono entrambi gli occhi, fanno finta di non sapere. Talvolta sono anche conniventi o addirittura si servono dei sistemi di deferenza applicati allo sportello a danno degli utenti, affinché si creino le condizioni per far “crescere”  il “bisogno” da gestire poi attraverso i gangli della cupola, nelle cliniche private, presso i tecnici comunali con studio privato, insomma nelle aree di sfruttamento collocate a margine e finalizzate all’illecito arricchimento.

Mi viene in mente un giochetto che un mio “amico” (dagli amici ci guardi Iddio) faceva con gli impiegati statali posti alle sue dipendenze. Aveva organizzato un calendario delle malattie: tutti si ammalavano, ma a turni regolari e con presentazione di regolari certificati medici rilasciati da medici regolari, talvolta anche militari. Gli impiegati in falsa malattia, in compenso dedicavano una parte del loro tempo “libero” a sviluppare gratuitamente lavori di muratura, idraulica, imbiancatura e piastrellatura a beneficio del loro capo così sensibile ai loro bisogni. Che cos’è questa se non una piccola cupola periferica?

Andiamo invece a visitare direttamente il fenomeno dell’ingerenza sindacale nelle decisioni e nelle scelte che sarebbero di competenza della P.A., che volta a favorire in modo illegittimo, con sotterfugi, raggiri, manovre sotterranee ed ogni sorta di espediente, “i soliti noti”, penalizzando di contro coloro che mal ripongono la loro fiducia nell’istituzione, con il doloroso risultato di essere costantemente esclusi dai loro diritti.

Ad esempio, il MIUR, ex ministero della Pubblica Istruzione, sostanzialmente non è diretto dai Direttori Generali, né governato dal Ministro, ma coartato dai sindacati. Le idiosincrasie manifestate nel corso dell’ultima legislatura contro le riforme del Ministro Moratti sono in realtà frutto di pura avversione politica ed ideologica. Invero la Moratti si è limitata a condurre trattative estenuanti, senza mai giungere ad una vera soluzione esaustiva del problema “riforma scolastica”.

Tra l’altro le riforme attribuite alla Moratti, salvo quella del ripristino dell’anno di scuola eliminato dal prof. De Mauro, erano già state effettuate, tali e quali, dal compagno Berlinguer e confermate dal compagno De Mauro stesso (crediti scolastici, laboratori, portfolio ed altre amenità). Queste riforme hanno ridotto la scuola ad una fabbrica di “pezzi di carta” inutili e trasformato gli insegnanti in un corpo che agisce in finta autonomia, ma disperdendo, questo si, il modello educativo nazionale repubblicano e democratico costruito a partire dal dopoguerra, a favore di progetti che sembrano parto delle ideologie nichiliste.

A proposito di MIUR: con il Governo Prodi in carica non si sa più come chiamare il MIUR; forse si chiamerà Min.Cul.Pop. di Fioroni & Co.

I Sindacati, a seconda delle stagioni, degli umori della moglie di uno dei segretari e della segnalazione del fruttivendolo o del portiere, modificano il contratto nazionale collettivo, anche in aperto contrasto con le leggi vigenti, e sulla base di estemporanee modifiche, dettano ad ogni inizio di anno scolastico la nuova bozza di Ordinanza Ministeriale sulla mobilità. Su questa ordinanza, incoerente nel testo, viziata nella sostanza, scorretta nella forma, mai uguale a quella degli anni precedenti, si fondano le insidie che a livello locale creano poi la base per favoritismi e per reclami respinti . Se non è una cupola questa!

I Signori del Sindacato  riescono in questo modo: (1) a far precedere, a parità di punteggio, i più giovani dai più vecchi, anche se la legge prevede il contrario; (2) a far valere per alcuni insegnanti l’insegnamento effettuato nelle scuole parificate e a non farlo valere per altri; (3) ad aggirare, con l’invenzione dell’opzione, le norme sui trasferimenti da una provincia all’altra, pur se create e condivise dagli stessi sindacati, per cui un insegnante che “opta” può essere trasferito dopo un solo anno da una provincia all’altra, mentre i fessi devono attendere tre anni. Riescono addirittura a far attribuire punteggi sulla base di attestati che certificano la frequenza di corsi senza valore, di solito rilasciati dietro compensi in danaro che vengono introitati senza tanti scrupoli da organizzazioni di dubbia legittimità e di scarsa serietà.

I sindacati sono persino riusciti a far lievitare in maniera iperbolica i punteggi corrispondenti al servizio prestato nelle carceri dislocate sulle piccole isole o in montagna, quando raddoppiando, quando triplicando il punteggio già artificiosamente gonfiato.

Così via esponendo, si potrebbero constatare ancora tantissime storture causate dalle pressioni dei sindacati, che il Ministero della Cultura Popolare non è stato in grado né di regolare, né di contrastare, perché di fatto è connivente con i sindacati e non considera che questa connivenza lo rende vittima del loro potere invasivo.

Ebbene, per quanto mi riguarda, ciò che viene fuori da siffatti “sistemi” di gestione ministeriale possiede le caratteristiche della cupola di tipo mafioso. Infatti se andiamo a frugare negli interessi reconditi che si celano dietro queste manovre, si possono scoprire interessi spiccatamente privati che nulla hanno a che vedere con la funzione sindacale o con la gestione di un ufficio pubblico qual è un CSA provinciale. Ogni CSA appare infatti sempre più spesso come la sede della coagulazione di interessi personalistici e clientelari, il cui perseguimento non fa altro che privare di ogni diritto gli estranei alla cupola e favorire i “figliocci” legati alla cupola da rapporti estranei all’interesse pubblico e confligenti con esso.

In ogni ufficio pubblico la cupola si forma intorno al capo e  si consolida mediante l’esercizio di una stretta interdipendenza tra i diretti collaboratori che concorrono ad attuare le direttive ricevute.

I capi si alternano, ma la cupola funziona a ritmo costante. Si sostituisce il pezzo mancante e tutto torna come prima, in stretta sintonia con la teoria di Tomasi di Lampedusa, come immortalata nel Gattopardo: ”Cambiare, perché tutto rimanga come prima”.

E’ di questi giorni l’incredibile scoperta di una cupola di stampo mafioso veramente insospettabile, diretta nientemeno che da un fantoccio, V.E. di Savoia. Con lui, un nugolo di personaggi equivoci, secondo il P.M. di Potenza, specializzati nello sfruttamento della prostituzione, nella gestione di macchinette da gioco e video poker e versati nel traffico internazionale di armi e in attività ancora da chiarire. Che squallore! Non avevamo proprio bisogno di un erede al trono d’Italia di tale inqualificabile statura, peraltro in combutta con il figlio e con il cugino di Bulgaria, divenuto repubblicano, pur di sedere sulla poltrona del premier bulgaro.

L’immagine più squallida è comunque quella che ritrae l’intera famiglia Savoia. La si osserva nella posa forzata, negli sguardi obliqui, nella smorfia che congela l’espressione dei volti: un malcelato imbarazzo che rivela un disagio che la dice lunga sulla distanza che separa i fasti di Corte da questa decadente immagine di affaristi new age.

Per alleggerire la tensione, faccio una considerazione di carattere etico. La legge “Biagi”, a dispetto di tutte le difese d’ufficio, è basata su un disegno che in piena coscienza legalizza le scelte dell’iniziativa privata fino a consentire ad un qualsiasi imprenditore di trasformare il suo staff di collaboratori in una cupola autorizzata a decidere il destino dei lavoratori dipendenti, della loro assunzione, del loro licenziamento, della loro retribuzione.

Il cognome “Biagi” mi richiama però alla mente una notizia circolata nei giorni scorsi, che dimostra, se ce ne fosse bisogno, il tipo di coerenza che contraddistingue i politici della sinistra italiana.

Durante i cinque anni di Governo Berlusconi i DS hanno costantemente affermato di voler cancellare la legge Biagi in caso di acquisto del potere.

Tutti, tranne Bertinotti ed i suoi affiliati, comprendono che il risultato della cancellazione della legge Biagi sarà comunque quello di far perdere posti di lavoro, sia pure precario, a molti giovani e comunque di far aumentare il lavoro nero.

Per quanto ne so, il lavoro precario si combatte e si riforma con gli incentivi alle aziende ad assumere a tempo indeterminato, con il contrasto del lavoro nero, con la lotta alla delocalizzazione, con gli impedimenti alle importazioni cinesi e indiane, con la lotta senza quartiere all’evasione fiscale.

Orbene, dalle fila della sinistra in questi giorni, insieme  alla conferma del proposito di cancellare la legge Biagi, è saltata fuori anche la conferma del proposito,  che del resto non era una novità, di riassumere l’ultra ottuagenario Enzo Biagi alla Rai.

Il risultato dei due provvedimenti, tragicamente legati dal medesimo cognome “Biagi”, sarà quello di sottrarre posti di lavoro ai giovani.

Nel caso della riassunzione del giornalista, favorendo il reingresso di un pensionato più che ottantenne, si sottrae di fatto ad un giovane la possibilità di essere assunto. La stessa cosa accadrà con la cancellazione della legge “Biagi”.

Berlusconi dice che i DS sono incoerenti e che raccontano bugie. Negativo! Questi due esempi, pur se disastrosi nel merito per la rivelazione dei propositi governativi nei confronti del mondo del lavoro giovanile, attestano una coerenza fenomenale, persino sul cognome dei due provvedimenti annunciati: cancellare la Biagi e riassumere Biagi significa sempre e comunque “togliere lavoro ai giovani”.

In fondo, a ben vedere, anche la Rai è organizzata in cupola e l’ammucchiata che ha formato il Governo attuale, tra ricatti, distinguo e veti, sembra una cupola in fase di autodistruzione. Per fortuna!

Termino questa carrellata sulle cupole di questo Paese infelice e sfortunato, conscio di aver esaminato soltanto una minima parte del problema.

Voglio però concludere con un auspicio: gli Italiani, finto popolo, notoriamente diviso, tant’è che da secoli riescono a farsi calpestare e deridere dal primo che capita (ho solo parafrasato l’inno nazionale), prima  o poi probabilmente si accorgeranno della necessità di accantonare tutti i motivi di dissidio che ne mantengono le divisioni a tutto beneficio dei profittatori interni ed esteri.

Non c’è Paese in Europa che si presenti così imbevuto di odio sociale e di desiderio di rivalsa parallelo. La Spagna si è pacificata quando era al potere lo stesso Franco che aveva contribuito alle sue divisioni. La Francia è raccolta intorno alle sue tradizioni ed i conflitti della rivoluzione del 1789 che l’anno “divisa” sono ormai un pallido ricordo. Persino la Germania, sotto l’efficace azione di Kol , è riuscita a superare lo shock della divisione territoriale realizzandone efficacemente la riunione territoriale, economica e politica. Non parliamo poi dei legami interni che uniscono i popoli delle monarchie europee: Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Danimarca.

Solo gli Italiani mantengono vive le loro divisioni!

Le eterne divisioni del popolo italiano, uso per atavico destino a mantenere vivi e accesi i conflitti trasversali tra fascisti e comunisti, destra e sinistra, nord e sud, ricchi e poveri, colti e ignoranti, cattolici e agnostici, pacifisti e guerrafondai, inquinatori e verdi, evasori fiscali e lavoratori dipendenti, lavoratori precari e lavoratori a tempo indeterminato, dovrebbero cedere finalmente il passo a più civili e concreti propositi.

Lottare l’un contro l’altro ostacola il progresso e impedisce la crescita, inoltre gli effetti negativi del conflitto permanente si trasferiscono sul destino dei  figli di questa nazione infelice.

In questo terreno le cupole non si estingueranno mai e ci sarà sempre una parte che sfrutterà l’altra, la impoverirà sempre di più e si approprierà dei suoi diritti, di fatto riducendola in schiavitù.

Quando in un Paese manca la libertà, non c’è giustizia, si sono dispersi i valori, non si esercita l’autorità,  si è disgregata la famiglia, la società ha perso la sua immagine, allora vuol dire che il Paese è malato ed i sintomi della schiavitù morale e sociale preavvisano l’approssimarsi di un’epoca di tiranni.

 


 

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