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Un progetto difficile e rivoluzionario

      

   

Foreign Affairs

 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di:

M. IACOPI


Il nazionalismo arabo nasce durante la grande guerra

 

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Trattative


L’unità araba

Un progetto difficile e rivoluzionario

Il nazionalismo arabo nasce durante la grande guerra

(Perugia, May 15 2008 12:00AM)

Come tutti i nazionalismi, quello arabo ha tendenza ad agganciare le realtà attuali al suo più lontano passato per darsi, così, la necessaria legittimità storica. Tanto è vero che se, oltre due secoli fa, si fosse domandato ad un abitante del Vicino Oriente se fosse arabo, egli avrebbe generalmente risposto negativamente ed in determinati casi avrebbe persino accolto la domanda come una ingiuria.

In effetti intorno al 1750 la parola “arabo” rimandava essenzialmente ad un legame di tipo genealogico: di fatto è arabo colui che discende da antenati comuni a tutti gli arabi (Il mito genealogico rimanda in effetti a due antenati: Adnan, per gli arabi del Nord e Qahtan o Khatan, per gli Yemeniti o arabi del Sud). In tale contesto sono considerate arabe, con molti distinguo, le tribù beduine che vivono dal Marocco all’Irak ed un certo numero di lignaggi prestigiosi nel mondo urbano e rurale (discendenti direttamente dal Profeta o dai suoi primi compagni). Ma questa identità araba all’epoca non era certamente il riferimento più importante per la popolazione: di fatto i sudditi della Sublime Porta di Felicità si sentono, in ossequio alla Dottrina dell’Ottomanismo, in prima istanza soggetti dell’Impero Ottomano, quindi, membri di una comunità religiosa (mussulmana, cristiana, ebrea, ecc) e, successivamente, appartenenti ad un determinato luogo o ad una determinata professione. In genere, l’appartenenza etnica a quell’epoca costituiva esclusivamente un riferimento secondario nello spazio ottomano.

Gli Arabi, come soggetti appartenenti ad una comunità di individui che hanno in comune una lingua ed una cultura, non esistevano se non nella prospettiva degli “altri”, in particolare degli Europei. Riferendosi alle considerazioni trascritte dai primi orientalisti del 1700, gli Europei dell’epoca consideravano gli Arabi come un grande popolo portatore, in altri tempi, di una grande civiltà nel mondo e che al momento era decaduto sotto la dominazione ottomana. Di fatto all’epoca della spedizione francese in Egitto dal 1798 al 1801, Napoleone aveva ritenuto utile di poter ricorrere al “patriottismo arabo” contro i Turchi, con risultati decisamente modesti, fra l’indifferenza e la totale incomprensione delle masse.

Quando il generale corso ricorda agli egiziani le glorie antiche degli Arabi, riceve come risposta che la loro più grande fierezza è quella di essere stati i primi destinatari della rivelazione coranica. Insomma non certamente un sentimento nazionale come noi lo conosciamo oggi. Agli inizi del 1800 il sentimento arabo è dunque essenzialmente genealogico, anche se sovente si accompagna ad un sentimento di superiorità, legato all’uso della lingua della Rivelazione, certamente, a loro dire, quella di Dio.

Nel frattempo in Europa all’indomani del Congresso di Vienna del 1815, il principio delle nazionalità (riunione di membri di una stessa nazione in una sola entità politica) fa i suoi primi passi.  Niente di simile si registra nel mondo arabo, anche quando, negli anni 1820, il potere centrale ottomano, che cerca di rinforzarsi e di riformarsi, viene a scontrarsi con l’ambizioso Vice Re d’Egitto, Mehemet o Muhammad Alì (Kavala, Albania 1769 – Alessandria 1849). Quest’ultimo, infatti, entra in rivolta nel 1832 ed il suo esercito, condotto dal figlio Ibrahim Pasha, dopo aver conquistato la Siria, arriva a minacciare perfino la stessa Anatolia. E’ forse possibile che Mehemet Alì avesse in testa l’ambizioso progetto di diventare il solo padrone dell’Impero Ottomano. Per contro suo figlio Ibrahim, che annovera tra il suo seguito molti individui, anche di larghe vedute, che avevano effettuato missioni di studio in Francia ed in Europa, pensa piuttosto a costituire un reame basato sulle province arabofone dell’Impero, vale a dire l’Oriente arabo o il Mashrek (Egitto, Siria, penisola araba). Tutto questo perchè egli aveva capito che solo il principio delle nazionalità avrebbe potuto incontrare il favore delle Potenze europee ed Ibrahim Pasha orienta in questo senso tutte le sue dichiarazioni agli inviati europei. Per contro non può di certo utilizzare tali argomenti a fini interni, specie verso i Siriani, in quanto tali logiche sarebbero letteralmente incomprensibili. E di fatto di questo atteggiamento si trova traccia esclusivamente nei soli archivi europei.

Se tale progetto incontra un diffuso favore negli ambienti intellettuali dell’Europa, il concerto delle Grandi Potenze rifiuta categoricamente di rimettere in discussione l’integrità dell’Impero Ottomano. Nella decade degli anni 1840 il progetto di Mehemet Alì è ormai avviato al fallimento, anche se riesce ad ottenere un importante successo: il Governatorato ereditario dell’Egitto per sé e la sua famiglia.

Le riforme ottomane, intraprese dalla Sublime Porta, si effettuano pertanto come in una corsa ad ostacoli, fra la tendenza ad una nuova centralizzazione autoritaria di Istambul e le ingerenze sempre più grandi degli Europei. Nei Balcani, alcune province diventano stati cristiani, riconosciuti diplomaticamente (Serbia, Bulgaria e Romania) e nel mondo arabo la Tunisia e l’Egitto acquisiscono la loro autonomia, senza che peraltro gli Europei, che hanno delle segrete aspirazioni coloniali sui predetti territori, li riconoscano come pratica applicazione del principio delle nazionalità ad un popolo mussulmano o maggioritariamente mussulmano.

Il mantenimento del dogma della integrità dell’Impero Ottomano, indispensabile per evitare una guerra europea per dividersi le sue spoglie, non impedisce tuttavia un certo “spiluccamento” dell’Impero ed una riduzione progressiva del suo spazio fisico. Nel 1830 la Francia conquista l’Algeria, definita come araba, anche se presenta una parte consistente di Berberi. Di fatto la parola “arabo” nella logica francese sottintende il significato di “mussulmano”. Nella retorica dell’epoca gli algerini sono visti come i nuovi Galli ai quali i Francesi (nuovi Romani), portano i frutti della loro civiltà.

In tale contesto la Tunisia, ma in misura maggiore l’Egitto, ormai autonomi di fatto dalla Sublime Porta, cercano, per distinguersi dal potere centrale, di sviluppare ciascuno una forma di nazionalismo, anche per far fronte alla nuova ideologia di stato di Istambul che predica, appunto, l’Ottomanismo e cioè lo spirito di sovranazionalità e di lealtà all’Impero, a prescindere dalle lingue e dalle religioni. Ma l’erosione continua, nel 1881 è la volta della Tunisia che si vede  costretta ad accettare il protettorato francese, fra le vivaci proteste italiane e che sarà la causa dell’avvicinamento dell’Italia alle Potenze Centrali. Nel 1882 tocca all’Egitto da parte della Gran Bretagna. In questi due ultimi Paesi il nazionalismo inizia a coniugare l’identità locale con quella mussulmana.

Pur tuttavia ancora alla fine del 1800 nell’Impero Ottomano continua a prevalere l’Ottomanismo sulle differenze etniche e religiose. L’esistenza di una popolazione araba è accettata come quella delle altre nazionalità, senza per questo avere un valore giuridico.

Peraltro, fra i riformatori religiosi, alcuni arrivano persino ad affermare che gli arabi sono quelli predisposti ad essere i migliori mussulmani perché l’islam puro, quello delle origini ed al quale bisogna ritornare, era rivolto solo agli Arabi e che la corruzione è arrivata solo dopo con la conversione dei non arabi.

Mentre i possedimenti balcanici iniziano a sfuggire dalle mani della Turchia, le regioni arabe del suo impero cominciano a conoscere il risveglio della Nahda, il movimento di rinascita culturale che, al di là della solidarietà islamica che lega i credenti al sultano-califfo, riafferma una identità araba, i cui propugnatori si riconoscono ormai prioritariamente nella scelta del Watan, modello nazionale di tipo europeo, piuttosto che in quello tradizionale dell’Umma, la comunità religiosa a vocazione universale, nata dalla predicazione del Profeta.

Nel 1908 la rivoluzione dei giovani turchi del Comitato Unione e Progresso, guidati da Enver Pasha, introduce nell’Impero una vita politica moderna (elezioni, partiti politici), ma l’ideologia turcofona del Panturanesimo ed il laicismo dei giovani turchi, legati ad una concezione “grande turca”, giacobina, centralizzatrice ed assimilazionista della Turchia moderna, nonché l’autoritarismo crescente del regime favorisce la crescita di un movimento autonomista arabo che si richiama ad una vera decentralizzazione dell’Impero. Allo stesso tempo i differenti poteri beduini autonomi della penisola araba cominciano la loro lotta di emancipazione dal potere ottomano.

Nel frattempo nel 1911 viene creata a Parigi la Lega della Gioventù araba e nel 1912 nasce il Partito della Decentralizzazione, che, pur non rimettendo in discussione l’unità territoriale dell’Impero ottomano, esige una larga autonomia per i territori arabi. Inoltre la perdita della Tripolitania e della Cirenaica cedute agli Italiani, il riconoscimento del protettorato inglese sul Kuweit, accrescono il risentimento arabo nei confronti di un potere turco, giudicato incapace di preservare i suoi sudditi arabi dalle mire coloniali degli Europei. Nel giugno 1913 il Congresso Generale Arabo, che riunisce a Parigi duecento delegati, riafferma le rivendicazioni relative all’uso ufficiale della lingua araba, ed alla decentralizzazione amministrativa. Allo stesso tempo esso lancia un appello all’unione di tutti gli Arabi, al di là delle distinzioni confessionali, in quanto “la solidarietà religiosa è incapace di creare l’unità politica”.

All’inizio della Grande Guerra, mentre l’Impero si schiera a fianco delle Potenze Centrali, allo stesso tempo cerca di liquidare con la forza i movimenti autonomisti arabi (esecuzioni e deportazioni) in particolare la rivolta dell’Imam Yahia nello Yemen. Spettacolari impiccagioni di notabili hanno luogo a Damasco ed a Beyrut. Nel frattempo la Francia e l’Inghilterra avviano contatti con Hussein, lo Sceriffo Hashemita della Mecca, per scatenare la rivolta degli Arabi.

Mentre gli Hashemiti dell’Hegiaz, custodi dei luoghi santi mussulmani, si vedono ambiguamente promettere dal residente britannico al Cairo, MacMahon, la creazione, al termine del conflitto, di un grande regno arabo, inglobante la Siria, l’Irak e la Palestina a vantaggio della dinastia Hashemita, di Hussein e dei suoi figli Feysal e Abdullah o Abdallah, nello stesso tempo gli Inglesi ed i Francesi, attraverso gli accordi Sykes-Picot della primavera del 1916, si spartiscono segretamente l’insieme della regione. I Britannici, per meglio complicare le cose, promettono, nel corso del 1917, con la Dichiarazione Balfour, l’installazione in Palestina di un “homeland ebrea”. L’entrata a Damasco nel 1918 dell’emiro Feisal e di Lawrence d’Arabia, nella speranza di costituire un grande stato arabo sotto tutela britannica, anche se da un lato contribuisce a far fallire di fatto gli accordi bilaterali di Sykes – Picot, dall’altro rimane un episodio senza futuro. Feysal si presenta alle popolazioni come il capo di un movimento nazionale di tutti gli Arabi, siano essi “adepti della fede di Mosé, di Gesù o di Maometto”. Ma deve fare fronte a delle forti opposizioni di natura regionale e confessionale e tutto questo nonostante la sua affermazione di “nazione araba siriana” che, purtroppo apre la via ad una dualità araba perdurante fra l’identità locale o regionale e l’identità nazionale araba (da allora, infatti, si comincerà a parlare di arabo palestinesi, arabo iracheni, egiziani, ecc.). Ma le cose non vanno per il verso giusto per la reazione delle due Grandi Ppotenze e lo sbarco dei Francesi a Beirut e le rivendicazioni arabe, quelle degli Egiziani e degli Hashemiti in particolare, non saranno neanche prese in considerazione durante la Conferenza di Pace. In questa occasione, al contrario, viene deciso di porre sotto il mandato francese e britannico i territori arabi dell’impero ottomano, più tardi ridotti a brandelli nel 1920 con il Trattato di Sevres. In effetti prima della firma del predetto trattato la Conferenza di Sanremo, con l’introduzione, contro la volontà degli Arabi, del Regime dei Mandati, una specie di accordo Sykes – Picot “rivisitato”, stabilisce che il Libano e la Siria rimangono sotto la tutela francese e sono avviate ad acquisire rapidamente l’indipendenza, mentre l’Irak e la Transgiordania, restano sotto mandato inglese. La sorte della Palestina non è chiaramente precisata. Infine la conferenza coloniale inglese, riunita al Cairo nel 1921 (quella che Churchill ha definito la “Conferenza dei 40 ladroni”) pone il sovrano hashemita Feisal sul trono d’Irak e crea un emirato di Trangiordania per il fratello Abdallah. Un anno prima Feisal era stato cacciato da Damasco (dove egli cercava di instaurare un Regno della “Grande Siria”) dalla truppe francesi del generale Gourand, provenienti da Beirut.

Da ultimo nella penisola araba, Abd al Aziz Ibn Saud (1880 – 1953), con l’appoggio dell’Inghilterra, si è ritagliato un grande regno. Questo grande capo, partendo nel 1909 dal Kuwait ed appoggiandosi sulla dottrina religiosa puritana del Wahabismo (fondato da Muhammad Ibn Abd el Wahab del Najid o Neged, 1703 – 92), si è conquistato in circa venticinque anni la maggior parte della penisola arabica, proclamandosi inizialmente Emiro del Najid o Neged ed Imam dei Wahabiti. Successivamente, conquistato nel 1913 lo sbocco al mare ad El Khatif, sconfiggerà  nel 1921 la dinastia degli Ibn Rachid e scaccerà nel 1926 Hussein dalle città sante della Mecca e di Medina, divenendo Re dell’Hedjaz. Infine, ottenuti ulteriori allargamenti territoriali e spese dello Yemen, istituirà, il 24 settembre 1932, il Regno dell’Arabia Saudita.

Durante il Regime dei Mandati il nazionalismo arabo precisa la sua dottrina. I nazionalisti, lasciati fuori dal potere dei nuovi stati, rigettano le logiche delle potenze coloniali e le loro suddivisioni artificiose, propugnando una sola entità araba unitaria costituita dall’insieme delle province arabe dell’Impero Ottomano. La loro azione, nel periodo fra le due guerre, fa molti proseliti, avvantaggiata in questo dal concomitante progresso dei trasporti e delle comunicazioni.

In questa sua prima formulazione politica possiamo certamente affermare che ancora oggi il nazionalismo arabo esprime inconsciamente una nostalgia del perduto insieme ottomano.

Mustafà Kemal, in Turchia e Reza Shah in Iran indicavano un esempio di paesi capaci di opporsi alla volontà delle potenze predatrici europee ed é naturalmente verso un nazionalismo laico e moderno che sono orientate le “elites” arabe del tempo.

Da parte sua l’Egitto, ottenuta l’indipendenza nel 1922, non si considera uno vero stato arabo, ma piuttosto uno “stato di cultura araba”, ciò anche per distinguersi degli altri nuovi stati vicini. Negli anni ’30 la situazione del Cairo si modifica con la nascita, nel 1928, della Confraternita del Fratelli Mussulmani di Hassan al Banna che (nel 1940 conterà più 200 mila membri) contribuisce ricordare che l’Islam resta per le masse arabe un mezzo privilegiato di resistenza alla dominazione coloniale. Dopo che i Francesi e gli Inglesi hanno cominciato ad allentare la presa sulla regione, alcuni uomini politici egiziani cominciano a porre l’Egitto come un paese arabo, il più importante fra tutti. Il nazionalismo arabo diviene allora un mezzo di egemonia politica sui loro vicini. Nel Maghreb gli avversari della dominazione francese, entrati in contatto con i nazionalisti del vicino oriente, cominciano a loro volta ad adottare lo stesso discorso nazionalista che, per apporti successivi, evolve verso una dottrina più complessa. Per fronteggiare il regionalismo, sempre presente negli Arabi, alcuni ideologi del Vicino Oriente (Siriani e Palestinesi), giungono ad affermare, operando una evidente forzatura, che gli Arabi sono in realtà i rappresentanti moderni dell’insieme dei popoli semiti venuti dalla penisola arabica, in questo modo i Berberi, gli Egiziani o i discendenti dei Fenici possono in realtà essere considerati degli Arabi, proprio perché Semiti.

Altri invece partono invece dalla coerenza fra la lingua e la nazione per constatare l’esistenza di una nazione araba dal ricco passato storico e culturale, che ha il diritto, come tutti, ad essere uno stato.

Questi ideologi creano di fatto un vocabolario specifico a supporto dei progetti politici che difendono. Dal 1930 si comincia a parlare di unità politica dal Marocco al Golfo Persico e dopo il 1936 l’espressione “mondo arabo” entra nel lessico corrente.

Quest’idea di unione viene propugnata fino agli anni ’40 soprattutto dagli Hashemiti ed in particolare dall’Irak, che vuole proporsi agli occhi degli Arabi come l’equivalente della Prussia per la Germania o del Piemonte per l’Italia. L’Egitto e l’Arabia Saudita si schierano piuttosto come difensori degli stati e propugnano, in tale contesto, una “solidarietà” fra stati arabi. E’ questo il principio che si impone e che darà vita, nel 1945, alla Lega dei Paesi Arabi, destinata a canalizzare la spinta del movimento nazionalista arabo (e la cui vocazione segreta era quella di preservare gli interessi britannici in Oriente) ed a favorire l’accessione all’indipendenza dei paesi ancora sotto tutela europea.

Ma fino a questo momento il nazionalismo arabo (poi arabismo) è ancora nel suo complesso un fenomeno reattivo nato da una mobilitazione passionale e manca ancora di una vera dottrina. Saranno il cristiano greco ortodosso di Damasco, Michel Aflak ed il mussulmano sunnita Salaheddin al Bitar, fondatori del Partito Baath nell’aprile 1947, che apriranno una nuova via nella storia del nazionalismo arabo. Nel corso degli anni 1930 i due uomini, che esprimevano le loro idee nella rivista “Avanguardia”, riescono a forgiare l’ideologia che ritengono necessaria al risveglio arabo. Aflak, ostile al marxismo, che privilegia le interpretazioni economiche, opposto ai “sotto nazionalismi”, propugnati dalla potenze coloniali e nemico del fondamentalismo religioso, che pretende di dissolvere nell’Umma l’insieme delle masse mussulmane senza tener conto dell’identità specifica degli Arabi, impone progressivamente la sua autorità. In effetti l’insurrezione araba della Palestina del 1935, il fallito colpo di stato di Alì Rashid in Irak del 1941, la repressione, da parte di Francesi, della rivolta di Damasco del maggio 1945 e la creazione della Lega Araba, sono i fattori che contribuiscono a  favorire lo sviluppo del movimento nazionale arabo.

Ma il mondo arabo, dopo il secondo conflitto mondiale, è destinato a confrontarsi con un evento storico fondamentale per l’area, la creazione nel 1948 dello Stato di Israele. Sebbene riceva una sconfitta catastrofica in Palestina, quando le forze coalizzate d’Egitto, Transgiordania, Siria, Libano ed Irak sono battute dalle truppe del giovane stato ebreo, il morale dei nazionalisti ottiene comunque un recupero con l’indipendenza del Maghreb. Ma la vera mutazione del nazionalismo unitario arabo avviene negli anni 1950, quando si pone come ideologia dominante del mondo arabo, assumendo al tempo stesso anche una certa connotazione rivoluzionaria. Di fatto: In un groviglio di lotte sociali, di combattimenti per l’indipendenza e contro l’”imperialismo”, di volontà di trasformazione economica, il movimento tende a radicalizzarsi. E’ proprio in questo momento che l’arabismo si separa ancora più nettamente dall’islamismo. Fino ad allora arabismo (nazionalismo radicale) ed islamismo (nazionalismo pan islamico) avevano tendenza a coesistere in una certa cornice di confusione o se si vuole di ambiguità. Per gli islamici l’unità araba non era altro che un primo passo verso una unione più ampia raggruppante tutto l’insieme dei credenti (Umma). Per l’arabismo l’islam fa parte del patrimonio culturale arabo e ne è un pegno di fierezza. Ormai l’arabismo o il nazionalismo arabo rivoluzionario e socialisteggiante si presenta come un movimento determinato a trasformare la società, in modo che possa accedere alla modernità. In tale quadro non esita ad adottare discorsi di tipo marxista, sempre, però, con una sottile distinzione fra nazionalismo e socialismo internazionalista, in cui il primo deve avere la prevalenza (sic!). Gli islamisti, che spesso si trovano a difendere posizioni conservatrici, accusano allora i nazionalisti di tradire l’islam a beneficio del modello sovietico. L’arabismo replica a tale accusa che, al di là della fierezza nei riguardi dell’eredità islamica, il progresso sociale passa necessariamente per l’abbandono delle forme di organizzazione retrograde. I nazionalisti (arabismo) diventano paladini di una certa forma di emancipazione femminile ed ammettendo l’esistenza di arabi cristiani ed ebrei, sottolineano che l’islamismo è di per sé stesso contrario al progetto unitario arabo. Questo conflitto dottrinale è accompagnato da una sanguinosa lotta di potere, prima in Egitto e poi nel resto del mondo arabo. I rivoluzionari si impongono in Egitto, in Siria, in Irak, nello Yemen del Sud e più tardi in Libia e nel Sudan. L’Algeria rivoluzionaria apporta nuova linfa al movimento e l’unità araba sembra a questo punto persino possibile. Questa è la grande epoca del nasserismo, il presidente egiziano (che ha partecipato alla rivolta degli Ufficiali Liberi contro Re Faruk nel 1952) che ha raccolto un grande seguito nel mondo arabo, dopo la Conferenza di Bandung (3° mondo) e la Crisi di Suez del 1956 ! Ma se il progetto di unione va forse incontro al desiderio dei popoli, esso si sconta inevitabilmente con le feroci lotte di potere scatenate fra i vari gruppi dirigenti, aspiranti ciascuno alla leadership del progettato nuovo stato unitario. Le cronache enumerano almeno 17 tentativi di fusione istituzionale, tutti falliti miseramente, di cui ben dieci riguardano la Siria e l’Egitto e quattro la Libia. Il solo tentativo andato a buon fine è quello del 1958 relativo all’unione fra Siria ed Egitto (la RAU). Ma l’esperimento non arriva a concludere il 1961. I Siriani si rendono conto di essere stati giocati nell’operazione e che tutto il potere era, di fatto, passato nelle mani di Nasser e dei suoi. Giungono pertanto alla convinzione di essere stati sottomessi dagli Egiziani nel nome dell’unità araba. Anche quando arriva al potere il partito più convinto dell’unità araba, il Baath, sia in Siria (1963), sia in Irak (1968), invece di dare vita ad un movimento unitario, dà luogo ad una accanita rivalità fra i due regimi ed i due paesi. Nel Maghreb la conquista del potere di Gheddafi in Libia (1969) rilancia un movimento unitario, ma il migliore risultato ottenuto in tale direzione è stato qualche accordo sulla carta, nato morto. Nel suo insieme l’Arabia Saudita resta alla finestra. Sentendosi minacciata dal radicalismo rivoluzionario trionfante, pur propugnando all’apparenza idee di unità, ne diviene la maggiore nemica. Al riparo dello scudo degli USA, essa utilizza a pieno la predicazione del Wahabismo per combattere in tutto il mondo arabo l’avanzante progressismo: una maniera accorta di lottare allo stesso tempo contro i rivoluzionari ed i nazionalisti islamici. Negli anni 1960 nel mondo arabo si instaura progressivamente una vera e propria guerra “fredda” fra i regimi progressisti arabi sostenuti dall’Unione Sovietica ed i regimi conservatori, in maggioranza a regime monarchico.  Lo scontro diviene perfino “caldo” nello Yemen del Nord (1964 – 69), dove i realisti, sostenuti dall’Arabia Saudita, combattono accanitamente i repubblicani appoggiati da Nasser, riuscendo a prevalere

Come si possono spiegare tutti questi ripetuti fallimenti dei progetti di unità araba ? Anche se le masse ne sono di principio favorevoli, la carenza di efficaci procedure democratiche nella vita politica del mondo arabo impedisce di trovare una soluzione accettabile alla ripartizione del potere. Una azione militare sul tipo di quella dell’indipendenza italiana o tedesca appare impossibile per la presenza delle potenze dell’Est e dell’Ovest. Le economie dei paesi arabi, infine, sono troppo simili fra di loro, tanto che la grande maggioranza degli scambi si svolge, naturalmente in concorrenza, verso i paesi industrializzati. Da ciò deriva una assenza di veri interessi economici vincolanti, che giocherebbero un ruolo decisivo in favore dell’unità.

Un argomento avrebbe potuto funzionare da elemento catalizzatore: la questione palestinese. Di fatto la Palestina, sin dagli anni 1920, è stato un potente strumento di mobilizzazione popolare in favore dell’arabismo. Esso è stato anche un fattore essenziale di concertazione politica fra gli stati arabi ed in occasione delle guerre arabo – israeliane ha portato un significativo sostegno economico della linea del fronte da parte dei paesi delle retrovie. Non bisogna però dimenticare che dei regimi arabi hanno utilizzato i palestinesi come un’arma contro i propri rivali, esacerbando situazioni già di per sé stesse tese. Questo è il caso del dissidio egizio – giordano, la cui radicalizzazione porterà alla guerra del 1967. Se l’arabismo non è riuscito nel suo progetto unitario ha, in ogni caso, già dal 1940, determinato i caratteri specifici della scena politica araba. Ogni regime arabo ha in pratica un doppio ascolto o un doppio palcoscenico, in uno si rivolge al popolo che governa, nell’altro il suo campo d’azione si estende, nel nome dell’unità araba, all’insieme dei paesi arabi, compresa la loro politica interna. Questa attitudine genera indebite ingerenze nel nome del panarabismo e conseguentemente una sfiducia reciproca permanente fra i governanti.

A partire dagli anni 1970 il nazionalismo arabo si è progressivamente trasformato in ideologia giustificatrice dei regimi arabi autoritari, se non dittatoriali. Gli ultimi movimenti rivoluzionari arabisti sono stati la resistenza palestinese ed i “progressisti” della guerra civile libanese. Ma nel Libano l’arabismo si é troppo strettamente identificato con le comunità confessionali in guerra, facendogli perdere il respiro unitario. Così, mentre l’arabismo si trasforma in ideologia di stato poliziesco, moltiplicando i compromessi con le potenze occidentali, l’islamismo adotta, a sua volta, la via rivoluzionaria e riprende per proprio conto la lotta all’imperialismo per l’indipendenza nazionale (è il caso di Hamas in Palestina e degli Hezbollah in Libano). Oggi tutti gli stati arabi rivendicano a diverso titolo il nazionalismo, ma in realtà è l’islamismo la vera forza della contestazione. Tuttavia nuovi scenari politici potrebbero modificare ulteriormente questo stato di fatto. La seconda Intifada palestinese aveva risvegliato l’interesse della opinione pubblica araba e l’islamismo, per la verità, non è stata l’unica forza ad approfittarne. Il rais di Baghdad, fra gli altri regimi, ha giocato a fondo sulla carta palestinese e sull’odio per Israele per scatenare tensioni con l’Occidente, nella speranza di attirare a sé e stimolare un risorgente nazionalismo pan arabo. Ma al di là del nuovo insuccesso, ancora una volta, prima e durante il recente conflitto in Irak, la Lega Araba ha mostrato con ogni evidenza, a livello politico, tutte le secolari divisioni regionali e dottrinali che esistono nel mondo arabo.

Indubbiamente esiste una forte unità culturale dal Marocco all’Irak, che permette a milioni di persone di sentire le stesse emozioni estetiche o politiche e sul piano istituzionale sussistono anche un certo numero di gruppi professionali pan arabi radicati nel campo delle professioni liberali, come la Lega Araba, che, malgrado i ripetuti insuccessi, rimane tuttora uno spazio di legittimazione politica. Certamente il terrorismo, lungi dall’essere una soluzione ed una panacea per il nazionalismo arabo, sembra piuttosto una via di fuga ed alla lunga un danno, perché fra i suoi effetti, forse non voluti, c’é anche quello di facilitare la compattazione dell’avversario, come reazione alla brutalità di certi eventi e davanti al pericolo mortale evocato. In alcuni ambienti arabi peraltro una compattazione dei due mondi sembra infatti essere auspicato per scatenare un nuovo e decisivo scontro fra le due civiltà, interrotto a favore dell’Occidente, qualche secolo fa, dopo la Battaglia di Lepanto. In definitiva il nazionalismo arabo, lungi dall’essere effettivamente separatista, sogna ancora di raggruppare tutti gli arabi in una sola unità politica, ma tale ideologia, così come l’avevano concepita i primi nazionalisti dell’inizio del secolo scorso, non sembra avere ulteriori spazi operativi significativi e sembra piuttosto appartenere ormai al passato. Ma un ritorno del nazionalismo arabo non è tuttavia da scartare a priori nel futuro, la realizzazione di una vera democratizzazione dei regimi politici arabi (possibilmente per libera scelta e non imposta dai democratici occidentali) potrebbe sicuramente farlo rinascere con almeno qualche possibilità di arrivare almeno a dei risultati anche parziali, posto che sia in condizione di contrastare convenientemente il tradizionalismo islamico.


 

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