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Avvocato e Giustizia

      

   

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 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di:

Carlo Giacobbi


Una convivenza possibile

 

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Avvocato e Giustizia

Una convivenza possibile

(Rieti, Apr 4 2009 12:00AM)
Se l’attività difensiva possa o debba svolgersi nell’interesse della giustizia è domanda che si perde nella notte dei tempi e che ancora oggi ci poniamo nel tentativo di giungere ad una risposta condivisibile sulla base dell’esperienza giuridica che viviamo nello svolgimento della nostra funzione. Non c’è dubbio che, sotto l’aspetto normativo, l’art. 12 della vigente legge professionale forense subordina l’esercizio dell’attività difensiva al giuramento di adempiere ai doveri della professione “per i fini della giustizia”. Del pari, il codice deontologico forense, nel suo preambolo afferma che “L’avvocato esercita la propria attività (…) per tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all’attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia”. Se gettiamo lo sguardo oltre i confini dell’ordinamento nazionale, ci accorgiamo che il Codice deontologico degli avvocati europei, in apertura chiarisce che “In una società fondata sul rispetto della giustizia, l’avvocato interpreta un ruolo eminente. (…) In uno Stato di diritto l’avvocato è indispensabile alla giustizia e a coloro di cui deve difendere i diritti e le libertà”. I principi affermati caratterizzano quella che il Codice deontologico degli avvocati europei definisce “La missione dell’avvocato” nei confronti della giustizia. Tuttavia, né la legge professionale né i codici deontologici richiamati chiariscono di quale giustizia si tratti. E comunque - salvo quanto si dirà appresso - qualunque significato si voglia attribuire al termine “giustizia”, la pubblica opinione non ha mai eletto l’avvocato a paladino di quel valore. Paolo Borgna, nel saggio dal titolo Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore, afferma che “I luoghi comuni sugli avvocati giungono da lontano, attraverso gustose storielle, facezie, vignette che ci raffigurano i difensori come gli assetati vampiri dei loro clienti; pazienti mungitori di quelle grasse vacche che sono le cause civili e penali; ostacoli infaticabili alla celerità della giustizia”. Se questa è la considerazione che i cittadini hanno degli avvocati occorre, parafrasando Verga, trarsi fuori dalla fiumana del processo "per studiarla senza passione (…) tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere” e chiedersi: cosa vuol dire essere avvocato? Ed ancora: a chi e a che cosa serve? L’Università italiana, scientemente organizzata per informare senza formare, non si è preoccupata né di farci imparare l’arte (per metterla da parte) né di farci comprendere quale sarebbe stato il nostro scopo nel mondo giuridico. Essere avvocati è, anzitutto, quella che Fromm definirebbe una modalità dell’essere volta a tradursi in attenzione per l’altro. Questa attenzione è funzionale alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi delle persone che hanno subito un torto. Null’altro. La remunerazione economica di questa modalità dell’essere, sicuramente legittima, è elemento - per usare il linguaggio giuridico - accidentale, quindi non essenziale alla perfezione della funzione difensiva, la quale, appunto, è valida in sé e non per il lucro che può produrre. Non a caso, i nutricola causidicorum - così Giovenale chiamava gli avvocati - nella Roma imperiale, svolgevano principalmente una funzione civica e non venivano pagati. Tant’è che lo stesso Giovenale, che a trent’anni cominciò ad esercitare la professione di avvocato, stanti gli scarsi guadagni, si dedicò alla scrittura. Nessuno sta affermando che il difensore non debba essere adeguatamente remunerato o che debba vivere di stenti. Ma è necessario che si renda conto, per dirla con Max Weber “del significato ultimo del suo proprio operare” e che la sua professione è lavoro intellettuale posto “al servizio della coscienza di sé e della conoscenza di situazioni di fatto”. Ma ciò non è semplice, poiché vuol dire assumere la persona come fine e non come mezzo del proprio lavoro il che, nella sostanza, equivale ad adeguarsi all’imperativo categorico kantiano. Se dunque la pubblica opinione ci dipinge come “pazienti mungitori di quelle grasse vacche che sono le cause civili e penali” i quali, nell’adagiarsi al vecchio motto “finché pende rende” ostacolano il corso della giustizia, è quanto mai attuale il monito di Piero Calamandrei secondo cui occorre evitare di lasciarsi andare a quella “albagia professionale, la quale si rifiuta di credere che possano esservi avvocati pronti a servir la giustizia per solo amore di essa e non per cupidigia di guadagno”. Perché l’avvocato possa servire la giustizia, anzi, perché la possa amministrare, occorre che lo stesso si faccia portavoce delle istanze dei singoli e che le veicoli attraverso domande giudiziali al fine di ottenere dal giudice formale tutela. Abbiamo volutamente utilizzato il verbo amministrare poiché chi rende giustizia non è -come comunemente si crede - il giudice ma l’avvocato. Il vecchio brocardo nemo iudex sine actore esprime una verità ineludibile: il provvedimento giurisdizionale non esisterebbe se non vi fosse la richiesta di giustizia della parte veicolata dal difensore attraverso la domanda giudiziale. Essa domanda contiene già la soluzione giuridica che il giudice è chiamato a valutare nella sua fondatezza o infondatezza. Una volta che il giudice abbia ritenuto fondata la tesi della parte, la accoglie trasfondendola nella sentenza. Ecco perché non ha mai avuto senso, meno che mai oggi, mettere nella bocca del giudice il brocardo da mihi factum, dabo tibi ius che sembrerebbe sancire il primato del giudice sull’avvocato. Quella frase, a ben guardare, la proferisce il difensore che, dopo aver preso cognizione dei fatti per effetto della narrazione della parte, forgia il proprio responso giuridico. In verità dunque, le sentenze, - la cd. giurisprudenza vivente la cui autorevolezza richiamiamo nei nostri scritti giudiziari - sono atti solo formalmente del giudice, non certo nella sostanza, poiché il contenuto dei provvedimenti decisori altro non è che la soluzione giuridica elaborata dal difensore. Il ruolo del giudice, sicuramente delicato, è quello di controllare la fondatezza della soluzione giuridica iuxta alligata et probata partium. Nella valutazione delle tesi contrapposte il giudice sposa la più attendibile, la più verosimile, e nel momento in cui fa questo diventa inevitabilmente parte parziale del processo. Il giudice diviene così il tramite in forza del quale l’avvocato rende giustizia al suo assistito. Tuttavia, quale giustizia? Lo iato tra avvocato e giustizia è tanto maggiore quanto più, di essa, si idealizzi il concetto fino ad identificarlo con la divinità. Ma, interpretata in un’accezione meno pretenziosa e più terrena, giustizia altro non è che la conformità della condotta umana ad alcuni principi universali, avvertiti dalla generalità dei consociati come meritevoli di tutela in quanto espressivi di valori etici condivisi. Principi quali honeste vivere, suum cuique tribuere, alterum non ledere, costituiscono, ancora oggi il diritto naturale positivizzato. Nel momento in cui un consociato viola una norma giuridica viene ad esistenza una parte lesa che, in quanto tale, reclama giustizia. Esemplificando: l’art. 609-bis c.p. punisce la violenza sessuale. Immaginiamo che Tizio abbia violentato Caia. Quest’ultima, legittimamente - e diremmo tutti giustamente - reclama giustizia. Vuole che Tizio venga condannato alla pena prevista dal c.p. ed al risarcimento dei danni subiti. Siamo tutti concordi nel ritenere che l’avvocato di Caia per fare giustizia, debba contribuire, insieme al pubblico ministero, a far condannare Tizio. Non tutti però concordano sul fatto che occorra difendere i diritti di Tizio. Verrebbe da dire: quali diritti merita uno stupratore? L’avvocato che difende Tizio impegnandosi affinché venga assolto, rende giustizia? La risposta, per quanto impopolare, non può che essere affermativa. Essa trae il proprio fondamento dalla nostra civiltà giuridica che, nel corso dei secoli ha trasformato il modo di amministrare la giustizia: da linciaggio collettivo con funzione catartica a giusto processo regolato dalla legge. Nel caso di cui sopra, dunque, l’avvocato rende giustizia sia all’ordinamento che all’assistito nel momento in cui controlla che il processo non si trasformi in accecante e furibonda vendetta di tutti contro uno e vigila affinché la pena sia erogata nei termini di legge. Cesare Beccaria lo aveva compreso più di due secoli fà quando, nel suo scritto più celebre affermava che “non può un magistrato sotto qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico accrescere la pena stabilita ad un delinquente cittadino”. E’ vero che a volte qualcuno può farla franca. Può essere assolto da un crimine orrendo effettivamente e lucidamente commesso. Ma questa è la patologia, non la fisiologia del sistema giudiziario. Così come, rovesciando i termini del problema, qualcuno può essere condannato alla pena più afflittiva senza aver posto in essere alcunché di penalmente rilevante. E forse non si è lontani dal vero quando si afferma che gli errori giudiziari a svantaggio dell’imputato, nel corso della storia, sono stati maggiori di quelli a suo beneficio. Concludendo, possiamo affermare che avvocato e giustizia, lungi dall’essere agli antipodi, convivono e, all’interno di questo rapporto, si confrontano quotidianamente.

Carlo Giacobbi

 

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