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ISLAM E LAICITA'

      

   

Foreign Affairs

 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di:

Massimo Iacopi


Analisi di un errore

 

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Gen. D. Massimo Iacopi


Forse un matrimonio impossibile

ISLAM E LAICITA'

Analisi di un errore

(Perugia, 15/05/2008)   Nulla si è verificato secondo le previsioni. Intorno al 1970 si credeva ancora al successo delle rivoluzioni laiche e progressiste. Ma l’Islam non appare solubile nella laicità e nel modello di democrazia occidentale.

Nulla è accaduto di quanto si poteva immaginare una trentina di anni fa, alla metà degli anni 70. Si pensava allora che le società mussulmane, di fronte alle sfide della modernità e della tecnica e dei profondi cambiamenti che avevano accompagnato la decolonizzazione, si sarebbero orientate verso delle formule politiche nazionali e progressiste, ispirate al kemalismo turco, al baathismo siriano ed iracheno, al nasserismo egiziano, alla politica dirigista e modernizzatrice dello shah di Persia o alle tentazioni filosovietiche dell’Algeria di Bumedienne o del Sudan di Al Nimeiry. Non mancava certo per i giovani paesi la scelta ! Per contro le monarchie filo occidentali del petrolio del Golfo Persico apparivano come dei regimi con l’acqua alla gola, così come la monarchia sceriffiana del Marocco, resa fragile dai plurimi tentativi di colpo di stato.

Contro ogni aspettativa, si è assistito, invece, ad una formidabile ripresa mussulmana. Il fallimento delle politiche di sviluppo, la prosecuzione senza fine dello scontro con israelo-palestinese, la rivoluzione islamica iraniana, la jihad afgana, il crollo del modello sovietico ed inoltre le guerre condotte contro l’Irak baathista, hanno alimentato una contestazione sempre più vigorosa dei regimi mussulmani, cosidetti “moderati” ed una reazione di notevole ampiezza, della quale è stato in massima parte beneficiario l’Islam politico più radicale. Sebbene annunciata da qualche acuto osservatore (1), questa tendenza si è costantemente rafforzata negli ultimi anni a tutte le latitudini mussulmane e la Turchia kemalista si trova oggi in grave crisi proprio per la rimessa in discussione dell’eredità laica del regime costruito sulle rovine dell’impero ottomano alla fine della 2^ Guerra Mondiale.

Due personaggi emblematici ci possono permettere di esaminare queste fondamentali tendenze che hanno contrassegnato la storia del mondo mussulmano della fine del secolo scorso. Si tratta, da un lato, di Mustafà Kemal, il fondatore della Turchia contemporanea e dall’altro di Ibn Saud, il fondatore del Regno dell’Arabia Saudita.

Mustafà Kemal ha effettuato un tentativo coerente di laicizzazione e di modernizzazione del più potente dei paesi mussulmani dell’inizio del 20° secolo. Alla sua esperienza si ispireranno Burghiba in Tunisia, Nasser in Egitto, i baathisti Michel Aflak e Salah Bitar in Siria o lo stesso Reza Pahlevi Shah in Persia. Altri stati si erano precedentemente occidentalizzati in maniera spettacolare o brutale (vedi la Russia di Pietro il Grande ed il Giappone Meji di Mutsu Hito) ed appariva quindi lecito pensare che i paesi mussulmani avrebbero potuto seguire la stessa via.

L’Impero ottomano, costruzione storica significativa in termini di ampiezza territoriale e di durata, era ormai diventato nel 19° secolo un “uomo malato”. Incapace di autoriformarsi, esso è rimasto a lungo succube degli ulema e dei capricci dei “giannizzeri”, la guardia pretoriana del Sultano. Anche se questi scompaiono definitivamente nel 1826, l’impero resta comunque incapace di raccogliere le sfide che gli vengono lanciate dalla crescente potenza dei paesi dell’Europa industriale.

Attanagliato da un declino apparentemente irreversibile, sottoposto alle pressioni delle potenze straniere, minacciato da forze centrifughe che si concretizzano con il risveglio delle minoranze cristiane nei Balcani o in Armenia, i vecchi Sultani cercano la loro salvezza nella reazione mussulmana. Il fallimento è prossimo ed Abdul Hamid 2° si guadagna in Europa il sinistro soprannome di “Gran Sanguinario”. E’ proprio in questo contesto particolare che nel 1908 ha luogo la rivoluzione dei “Giovani Turchi”, i cui dirigenti, l’anno seguente, riescono ad aver ragione di un tentativo di reazione condotto in nome dell’Islam.

Una volta cacciato Abdul Hamid dal potere e rimpiazzato da fratello Mehemet 5°, sembrava ormai possibile il momento delle riforme, ma la nuova situazione non riesce a produrre nulla di nuovo. La guerra con l’Italia nel 1912 e la coalizione delle nazioni balcaniche contro l’Impero Ottomano comportano la perdita della Libia e l’espulsione, quasi totale della potenza turca dall’Europa. La crisi viene inoltre aggravata dalla 1^ Guerra Mondiale, la cui fine, catastrofica per l’Impero Ottomano, fornisce lo spunto ad un leader d’eccezione, Mustafà Kemal, per realizzare una rivoluzione con la quale egli intende prioritariamente marcare una rottura totale con il passato ottomano.

Nato nel 1881 nella regione di Salonicco, Mustafà Kemal inizia una brillante carriera militare, anche se, le vive critiche formulate nei confronti del governo del Sultano lo costringono per qualche tempo ad una trasferimento punitivo in Siria nelle operazioni contro i Drusi.

Destinato ad un comando a Salonicco, egli si unisce al Gruppo “Unione e Progresso”, che, influenzato dalla massoneria locale, propugna una riforma radicale dell’Impero. Quando nel 1908 si scatena la rivoluzione dei “Giovani Turchi”, egli rimane prudentemente a distanza. Egli teme che la volontà d’emancipazione nei confronti della tutela esercitata di fatto dall’Inghilterra (con la scusa di difendere l’Impero dalle ambizioni russe) a Costantinopoli si possa trasformare in una analoga soggezione alla Germania di Guglielmo 2°.

La 1^ Guerra Mondiale fornisce a Mustafà l’occasione per mettersi in luce come comandate di notevole caratura ed è a lui che viene attribuita nel 1915 la vittoria dei Dardanelli. Successivamente egli è inviato a prestare servizio nel Caucaso, prima di combattere in Siria, dove viene raggiunto, nel 1918, dalla fine della guerra, nel momento in cui si apprestava ad impedire l’accesso all’altipiano anatolico alla truppe inglesi di Allenby. L’armistizio anglo-turco, concluso a Mudros, risulta inaccettabile per Mustafà Kemal, perché la pace che s’annuncia non può essere che esiziale per l’Impero, tenuto conto della acquiescenza di Maometto 6°, pronto a contentarsi anche del mantenimento di una parvenza di potere sotto protezione britannica. Kemal, inviato in missione all’est, ne approfitta per costruire in questa regione il focolaio di resistenza da dove partirà poi la rivoluzione. Egli si rende conto che l’Impero Ottomano non può sopravvivere alla sconfitta del 1918 e che è ormai inevitabile la costruzione di una vera nazione turca, secondo il modello rivoluzionario giacobino francese: un popolo, un territorio, uno stato. Si rende altresì conto che è necessario finirla con un Islam, le cui pastoie sociali erano state per la gran parte all’origine del disastro in cui si trovava il paese.

Mustafà, nel 1920, rifiutando, a nome del Sultano, l’ignominioso Trattato di Sevres, inizia la sua lotta. La sua azione gli permetterà di cacciare dall’Asia Minore, i Greci, gli Italiani ed i Francesi, di strappare Costantinopoli al Sultano, condannato all’esilio e di annichilire, nella maniera che tutti conoscono, le velleità secessioniste degli Armeni e dei Curdi. Mentre Maometto 6° fugge in esilio per terminare i suoi giorni a Sanremo, il nuovo padrone del paese si vede riconosciuta, con il Trattato di Losanna del 1923, la sovranità sulla nuova Turchia.

Il nuovo regime è autoritario e si appoggia su un partito unico che raccoglie tutti i Comitati locali che hanno sostenuto la rivoluzione. Mustafà ha preso nel frattempo il titolo di Ata Türk, “Padre dei Turchi” e viene investito di tutti i poteri. In tale situazione Kemal, aureolato dal prestigio derivante dalle vittorie militari e dal salvataggio di un paese destinato allo smembramento, può governare a modo suo ed iniziare una rivoluzione politica, sociale e culturale di grande respiro. Nel 1924 impone una costituzione che instaura una Repubblica nazionale, unitaria e laica ed abolisce il califfato. Il sultano decaduto, in effetti, aveva già abbandonato il titolo califfale, conquistato nel 1513 da Selim 1°, ad un suo cugino e questi viene espulso a sua volta dal paese, terminando i suoi giorni in Svizzera.

La volontà di unità nazionale di Mustafà è influenzata dal modello fornito a suo tempo dal centralismo giacobino e passa attraverso la repressione di diverse rivolte curde ed attraverso la persecuzione delle confraternite religiose, che costituivano la spina dorsale della società tradizionale turca. La parte più rilevante della rottura kemalista risiede però nella volontà di laicizzazione di un paese che, da quasi un millennio, faceva parte dello spazio islamico. Viene introdotto nel paese il codice civile svizzero, per sostituire il diritto musulmano in vigore nell’Impero Ottomano. Un nuovo codice di famiglia vieta la poligamia e garantisce formalmente l’uguaglianza dei sessi ed il nuovo regime della proprietà si ispira direttamente al modello occidentale. Il calendario lunare mussulmano viene sostituito dal calendario gregoriano occidentale e viene stabilito uno stato civile ed il sistema metrico decimale. La storia turca viene rivisitata nel senso che non è più limitata al solo passato mussulmano, ma anzi acquisisce una durata decisamente eccezionale, risalendo fino all’Impero Hittita ed alle tradizioni mesopotamiche dei Sumeri. Una tale visione storica sarà in effetti riproposta anche dallo Shah Reza Mohammed Pahlevi, quando nel 1971 celebrerà a Persepoli il 2500° anniversario dell’Impero Achemenide.

La nuova Turchia imposta e mette in piedi in pochi anni un sistema d’istruzione primario e secondario laico ed ingaggia una lotta titanica contro l’analfabetismo. La scrittura viene riformata, ricorrendo all’alfabeto latino. L’emancipazione femminile appare come l’espressione più spettacolare della rottura con la tradizione mussulmana. Le donne, che devono ormai togliere il velo, sono autorizzate a votare alle elezioni municipali del 1930 ed alle legislative del 1934, ben undici anni prima del voto alle donne nella moderna ed emancipata Francia. Vengono cambiati i cognomi per allinearli al modello occidentale e la stessa toponomastica di diverse località viene riformata, proprio per eliminarne il loro carattere mussulmano. La lingua turca rimpiazza ormai l’arabo anche nella chiamata alla preghiera del muezzin e la moda del vestire all’europea viene imperativamente sostituita alle tradizioni locali (ad esempio: il cappello o il berretto rimpiazzano il tarbush o il fez) con una legge del 1926 che minaccia persino la prigione per i recalcitranti.

Sul piano esterno le priorità si orientano verso lo spazio tradizionale turco dell’Asia Centrale, proprio mentre sembra ormai inevitabile la rottura con il mondo arabo, passato sotto la tutela francese ed inglese. Kemal, volgendo le sue attenzioni verso il Turkestan, diventato sovietico, arriverà ad affermare che “un giorno il mondo vedrà con stupore risvegliarsi e rimettersi in marcia questo impero invisibile, che giace ancora sonnolento nel fianco dell’Asia”. Una visione geopolitica coerente con il rifiuto dell’Islam, percepito come un elemento corruttore venuto dall’Oriente arabo.

Mustafà Kemal muore nel 1938, ma la sua eredità rimane ben viva nel corso dei decenni seguenti, a causa del ruolo fondamentale rivestito dalle Forze Armate nella vita politica turca. Non appena le elezioni permettono a dei partiti di avanzare delle rivendicazioni, nella prospettiva di rimettere in discussione la rigorosa laicità del regime, i capi militari intervengono. I colpi di stato del maggio 1960, del marzo 1971 e del settembre 1980 consentono ai generali di riaffermare lo loro volontà di non tollerare alcuna contestazione dei principi fondamentali del regime, nato ormai da oltre tre quarti di secolo.

Paradossalmente, è proprio la candidatura turca per l’adesione all’Unione europea che sta aprendo la porta ad un ritorno in forze sulla scena politiche delle forze islamiste, fossero anche “moderate”, perché forza Ankara ad un più grande rispetto dei “criteri di Copenaghen”,

Nel 1994 l’onda verde turca, registrata in occasione delle elezioni locali, dà per la prima volta alla città di Istambul una municipalità islamista. Il dicembre 1995 vede quindi la vittoria del Refah, il Partito della Prosperità di Necmetin Erbakan, che diviene la prima formazione politica del paese con il 29% dei voti. I militari riescono comunque nel 1998 ad ottenere lo scioglimento del Refah, ma la loro vittoria è di breve durata: Le elezioni del novembre 2002 danno la vittoria al Partito della Giustizia e dello Sviluppo (semplice surrogato del Partito della Prosperità), che ottiene il 37% dei voti ed il cui capo, Recep Tayyp Erdogan, diviene primo Ministro a partire dal marzo 2003.

La Turchia è certamente anch’essa vittima degli attentati islamisti e molti fanno anche notare che l’Islam sunnita “Hanafita”, al quale aderisce per tradizione, differisce alquanto da quello dei Fratelli Mussulmani egiziani o dal wahabismo, dei propugnatori della jihad mondiale, riuniti da Bin Laden.

Alcuni arrivano persino assurdamente a comparare Erdogan ad un Adenauer, il capo della CDU tedesca, sottolineando che il modello democratico cristiano potrebbe essere alla base di una “democrazia islamica” di natura assimilabile.

Comunque sia l’avvenire del kemalismo turco (inteso come politica nazionale di modernizzazione e di laicizzazione) appare incerto a fronte di un fortissimo ritorno dell’identità religiosa, sia in Turchia, sia in tutto il mondo mussulmano persiano ed arabo o sud asiatico. Sembra, effettivamente, che le importanti tendenze, che si stanno consolidando nel lungo periodo storico, siano sul punto di aver ragione della storicamente breve parentesi kemalista.

Risulta evidente, proprio nel caso esemplare della Turchia, che l’Islam non appare solubile nella laicità dei fondatori del regime. Un laicismo che, appare utile ricordare, a differenza di paesi come la Siria e l’Irak baathisti, si è sempre mostrato ostile alle minoranze cristiane, percepite come straniere o estranee alla nazione turca, fatto che ha impedito loro ogni proselitismo e spiega il rifiuto di autorizzare la riapertura dei seminari e la ricostruzione dei luoghi di culto abbandonati o in rovina.

Nella stessa epoca in cui Mustafà Kemal costruisce la Turchia contemporanea, un altro capo d’eccezione, trasforma profondamente la penisola arabica. E’ proprio nel Negid, il “deserto dei deserti”, che si è costituita, nella seconda metà del 18° secolo, l’alleanza fra dinastia di Saud il Grande con quella di un predicatore di nome Abd el Wahab, erede della tradizione hanbalita, riformata nel 14° secolo da Ibn Taimyya. Questa dottrina propugna un ritorno alle origini, che idealizza il periodo dei primi quattro califfi, successori del Profeta ed intende ristabilire l’applicazione delle regole coraniche nella loro purezza originale.

Il movimento wahabita sarà però sgominato dopo la morte di Saud il Grande e Ryiad, la capitale, verrà distrutta nel 1818 dagli Egiziani, esecutori, nella circostanza, delle volontà del sultano ottomano, preoccupato per il pericoloso svilupparsi della rivolta araba.

Respinti nuovamente nel deserto, i Saudiani, portatori delle fede wahabita, realizzeranno un sorprendente ritorno all’inizio del secolo seguente, sotto la guida di Abdel el Aziz ibn Saud. Questi, a partire dal 1902, riuscirà ad imporsi progressivamente sulle differenti tribù del centro della penisola ed approfittando della crisi del potere ottomano, arriverà a conquistare il territorio dell’Hasa, sulla costa occidentale del Golfo persico, creando inoltre gli Ikwans, una comunità fanatica di monaci soldati, che diventeranno nelle sue mani un formidabile strumento militare.

Ibn Saud, beneficiando del sostegno inglese dell’Indian Office, entra immediatamente in conflitto con gli Hashemiti dell’Hegiaz, padroni della Mecca, a loro volta sostenuti dall’Arab Office inglese del Cairo. I Wahabiti usciranno vincitori da questo scontro e gli Hashemiti, cacciati dai luoghi santi, avranno comunque un premio di consolazione con i Regni di Irak e di Transgiordania concessi, sotto mandato britannico, rispettivamente all’emiro Feysal ed al fratello Abdallah.

Nel 1925, infatti, gli Ikwans diventano padroni della Mecca ed Ibn Saud, già Re del Negid e dell’Hasa, assume anche il titolo di Re dell’Hegiaz, per poi conquistare tutta l’Arabia, ad eccezione dello Yemen per l’opposizione degli Inglesi presenti ad Aden. In questa nuova situazione il vincitore può, nel 1928, proclamare il nuovo regno dell’Arabia saudita, anche se l’anno seguente egli è costretto a spezzare la rivolta degli Ikwans, che gli rimproveravano di aver concesso troppo alle potenze occidentali.

Il sovrano saudita, dopo aver imposto la sua autorità in maniera implacabile, comincia a realizzare una sintesi originale di potere, combinando il mantenimento della tradizione islamista più rigorosa (eredità dell’alleanza conclusa nel 17° secolo fra Saud il Grande e Abdel o Abdul Wahab) con l’adozione di trasformazioni materiali, decorrenti dalla modernità e dalla tecnica. Vengono costruite strade, installati telefoni e soprattutto, dopo il 1930, si negozia con la Standard Oil of California, antenato diretto dell’ARAMCO, delle concessioni di prospezione petrolifera, salvaguardando comunque il mantenimento di una tradizione religiosa molto rigida. Una scelta, appunto, esattamente all’opposto di quella fatta nello stesso periodo da Mustafà Kemal, da Reza Pahlevi Shah o da Amanollah, il Re dell’Afghanistan.

Il petrolio, individuato agli inizi degli anni 30, comincia a sgorgare in grande quantitò alla vigilia della 2^ Guerra Mondiale e fornisce al nuovo regno delle risorse decisamente inattese. L’instaurarsi della guerra fredda e l’alleanza con gli Americani, siglata nel febbraio 1945 con l’incontro di Ibn Saud e di Roosevelt, di rientro da Yalta, assicurano ai Sauditi una elevata rendita di posizione geostrategica.. Il prestigio conferito dal controllo dei Luoghi Santi dell’Islam e le risorse economiche provenienti dal petrolio (conseguenza dei casi della geologia) pongono il regno saudita in una posizione particolarmente favorevole.

Quando però nel 1953 muore Ibn Saud, sono peraltro pochi quelli che scommettono sull’avvenire delle monarchie del petrolio della penisola arabica. Il rovesciamento di Faruk d’Egitto nel 1952 e quello di Feysal 2°, il giovane sovrano hashemita d’Irak, nel 1958, lasciano inevitabilmente presagire la scomparsa a medio termine di regimi giudicati anacronistici. La loro sopravvivenza, proprio quando il mondo arabo mussulmano pende verso il nazionalismo di tipo nasseriano o baathista o verso la modernizzazione autoritaria dello Shah dell’Iran, sembra dipendere esclusivamente dal sostegno americano. Lo scossone petrolifero del 1973 fornisce tuttavia ai detentori dell’oro nero una rilevante potenza finanziaria che gli permetterà di “pesare” in misura sempre maggiore nell’ambito del mondo arabo, dove i regimi nazionalisti si sono rivelati incapaci di rimettere in discussione la superiorità militare israeliana ed hanno deluso le aspettative di sviluppo nate con la decolonizzazione.

L’assassinio nel 1975 del Re Feysal d’Arabia, perpetrato da un islamista fatto passare per pazzo, e l’attacco quattro anni dopo alla grande Moschea della Mecca durante il pellegrinaggio, sono due eventi che testimoniano l’esistenza di una opposizione islamista, del tutto inattesa in questo stato teocratico, strettamente controllato dalla polizia religiosa. Durante questo stesso periodo l’Arabia Saudita mette a profitto la smisurata ricchezza accumulata, proveniente dalle risorse petrolifere. Sotto la direzione dei Re Khaled e Fahd (morto nel 2004) i sauditi cercano di giustificare nel mondo arabo-mussulmano questo privilegio provvidenziale, erigendosi a campioni di un vigoroso proselitismo islamico. Vengono stabilite delle strette relazioni con il Pakistan e poi, attraverso questo, con i movimenti islamisti e fondamentalisti afghani.

Riad inizia a giocare un ruolo di primo piano nella jihad condotta in Afghanistan contro i Sovietici, proprio nel momento in cui Osama Bin Laden viene reclutato dalla CIA per giocare il ruolo di interfaccia fra gli Americani ed i movimenti di resistenza afgani. Il ruolo del regno saudita risulterà particolarmente importante, proprio perché il suo proselitismo religioso propugna l’Islam wahabita, che nell’area mussulmana sunnita appare come il più fondamentalista. Il risultato finale è che questi Wahabiti, un tempo minoranza di beduini predoni del centro dell’Arabia, lasciati al margine dai poteri organizzati della periferia e totalmente estranei alla brillante civiltà urbana già sviluppata altrove nel mondo mussulmano (in Mesopotamia, in Siria o sui versanti orientali e meridionali del Mediterraneo), dispongono oggi di una capacità di influenza considerevole, assolutamente sproporzionata rispetto al loro peso demografico o al loro retaggio culturale.

Il loro dominio sulle Città Sante (Mecca e Medina) dell’Hegiaz, la rilevanza della loro rendita petrolifera, l’alleanza privilegiata con gli Stati Uniti sono stati elementi necessari e sufficienti ad assicurare all’Islam Wahabita, una posizione di forza insperata. Esso si trasforma in un vero motore di potenza, proprio nel momento in cui i regimi nazionalisti arabi, usciti dalla decolonizzazione, continuano ad accumulare fallimenti su fallimenti. Una situazione questa che, unita alla radicalizzazione del conflitto israelo-palestinese (dopo il fallimento del processo di Oslo e all’assassinio di Itzak Rabin), non poteva che favorire lo sviluppo dell’islamismo. Tutto questo anche a seguito degli interventi occidentali nel Golfo ed in Afghanistan e nel momento in cui la nomenclatura predatrice e parassitaria algerina si trova costretta a far fronte all’opposizione del Fronte Islamico di Salvezza e quindi ai movimenti insurrezionali di Gruppi islamisti armati.

L’attentato contro il World Trade Center di New York mostra infine con ogni evidenza ai dirigenti americani, fino a quel momento più o meno compiacenti con le differenti tendenze islamisti, i limiti dell’alleanza privilegiata, mantenuta ad ogni costo, con Arabia Saudita. Questo paese, in una tale speciale situazione e proprio nel periodo in cui i nazionalismi laici e rivoluzionari sembravano sul punto di avere successo nel mondo arabo, ha pertanto potuto svolgere una funzione storica decisiva, assicurando il mantenimento di una identità mussulmana,. ferocemente ostile a qualsiasi compromesso religioso e culturale con l’Occidente.

Gli avvenimenti, quali la jihad afgana, l’impantanamento del conflitto arabo-israeliano, gli interventi occidentali in Irak ed in Afghanistan, hanno quindi fornito le opportunità per uno sviluppo costante di una corrente islamista, i cui discorsi sono oggi percepiti dalle masse mussulmane, dal Marocco alle Filippine, come una alternativa credibile. Ormai l’Occidente dovrebbe ormai aver capito che, con l’esportazione nel mondo mussulmano della democrazia (argomento tanto caro alla propaganda al mondo americano ed europeo), l’indizione di libere elezioni si concluderebbe fatalmente con la vittoria degli islamisti, in special modo dei Fratelli Mussulmani in Egitto. Occorre tutta la cecità occidentale per considerare la vittoria di Hamas in Palestina come una pura e semplice sorpresa.

I tentativi di laicizzazione ingaggiati nel 20° secolo si sono praticamente conclusi in larga misura con un fallimento. Imposti autoritariamente contro le aspirazioni delle società reali, essi hanno determinato, in Iran, in Egitto, oggi in Turchia e forse molto presto in Marocco, un ritorno in forza dell’identità mussulmana. I progetti laici propugnati dal kemalismo o dal nazionalismo arabo risultavano per larga parte ispirati a modelli europei. Ma l’Europa ha perduto oggi gran parte della propria influenza e si invece assiste ovunque, proprio quando sembra esaurirsi il ciclo storico dell’Illuminismo, dell’individualismo liberale o delle speranze socialisteggianti, un ritorno in forza delle tradizioni profonde dei popoli che si inscrivono nei tempi lunghi della storia.

Il mondo mussulmano, radicato da diversi secoli in una tradizione religiosa che, al di là delle sue dimensioni spirituali, comanda anche l’insieme della vita sociale, ritorna alla sua identità profonda. Le imprese di un Mustafà Kemal, di un Nasser o di un Burghiba stanno evidenziando nettamente i loro limiti. Le grandi correnti che hanno comandato la storia delle terre dell’Islam nel 20° secolo si sono chiaramente invertite nel corso degli anni 1970-80. All’indomani della 1^ Guerra Mondiale i tentativi di modernizzazione lanciati in Turchia o in Iran sembravano indicare una chiara tendenza evolutiva futura. Di fatto il nazionalismo arabo prende effettivamente piede in Egitto, in Tunisia, in Siria ed in Irak e sembrava allora lecito pensare che questa potesse essere la tendenza generale del mondo mussulmano, cioè lungo una via analoga a quella che aveva condotto alla laicizzazione progressiva delle società europee.

Il nasserismo egiziano è stato peraltro appena un episodio della durata di meno di venti anni. Il baathismo irakeno, promettente negli anni 970 e deviato dalle derive autocratiche di Saddam Hussein, è stato schiacciato degli Americani. Lo Shah Mohammed Reza Pahlevi è stato costretto ad abbandonare l’Iran ai Mullah. La stessa Turchia, generalmente presentata agli stati mussulmani come il modello al quale dovrebbero ispirarsi, ha visto accedere al potere un partito islamista, nonostante le ripetute reazioni delle Forze Armate, custodi dell’ortodossia kemalista.

Anche se le società mussulmane sono state profondamente trasformate dai rapidi progressi della modernità e della tecnica, esse sono tuttavia impegnate in una fase di reislamizzazione religiosa e culturale che corrisponde ad un rigetto sempre più marcato dell’Occidente. Uno stato di fatto che dovrebbe far riflettere profondamente tutti quelli che sono convinti della compatibilità dell’Islam con le idee repubblicane e laiche dell’Occidente.

Gen. D. Massimo Iacopi

 

NOTE

 

(1) La Zattera di Maometto di Jean Pierre Peroncelle Hugoz

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Benoist Mechin Jacques, Mustafà Kemal, Albin Michel, 1954

Benoist Mechin Jacques, Ibn Saud          , Albin Michel, 1955


Massimo Iacopi

 

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