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Processo Breve e Processo Giusto

      

   

Diritto

 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di:

Marco Arcangeli


Considerazioni

 

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Processo Breve e Processo Giusto

Considerazioni

(Rieti, 16/12/2009)  

Come è noto, in tempi recenti è stato presentato al Senato il DDL n. 1880 denominato “Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’art. 11 della Costituzione e dell’art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo”, subito ribattezzato sul “processo breve”.

Come purtroppo sovente accade nel nostro Paese, nell’immediatezza si sono sollevate da parte dell’una e dell’altra fazione politica barricate a favore o contro, il più delle volte con argomentazioni svuotate da ogni sostegno giuridico.

Si consideri, comunque, che nella passata legislatura l’attuale opposizione aveva redatto un analogo testo di riforma, a riprova che l’incompetenza giuridica e l’assenza di visione strategica in relazione al sistema processuale penale accomuna entrambi gli schieramenti parlamentari.  

L’intento di chi scrive, invece, rifugge da pur legittime opinioni politiche, inevitabilmente insite in ognuno, per tentare un approdo argomentativo più propriamente giuridico.

Una premessa è d’obbligo: non vi può essere persona sensata che sia contraria ad un processo la cui durata sia ragionevole. Si aggiunga pure che il concetto di ragionevolezza non può prescindere dall’affermazione della necessità che il processo sia costituzionalmente giusto secondo i canoni dell’art. 111 della Carta Fondamentale.

Vi è del resto il rischio che l’errata assimilazione del concetto di brevità con quello di ragionevolezza, su cui molti più o meno inconsapevolmente incorrono, appare pericolosamente fonte di possibili ulteriori modifiche processuali tese ad esaltare la durata a scapito della garanzie fondamentali.

Ciò che invece va ribadito con forza è che, come già ben espresso a più riprese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nonché dalla Corte Costituzionale, sul principio della ragionevole durata prevale, in caso di conflitto, sempre e comunque il rispetto delle regole fondamentali della formazione della prova nel contraddittorio delle parti. 

Quel che è certo è che i dubbi di costituzionalità, già espressi da autorevoli giuristi, appaiono permeare molteplici aspetti del DDL.

Il testo legislativo in questione è composto da appena 3 articoli, di cui il primo si interessa essenzialmente delle modifiche alla c.d. Legge Pinto (L. 24 Marzo 2001 n. 89) su cui, per evidenti ragioni di brevità, non appare opportuno soffermarsi, benché, a dispetto delle apparenti intenzioni legislative circa la tutela del cittadino contro l’ingiusta durata dei procedimenti, alcune misure contenute in detta norma appaiono per lo più finalizzate ad abbattere l’entità, già esigua, dell’indennizzo a carico dello Stato in caso di accertata eccessiva durata del procedimento. 

Il fulcro delle modifiche è però contenuto nell’art. 2 del testo di Legge.

L’intenzione dei senatori proponenti è di inserire con il primo comma dell’ articolo 346-bis di nuovo conio una causa di improcedibilità sopravvenuta per mancato rispetto dei termini massimi di fase. Infatti, il risultato previsto nel caso di superamento di tali tetti temporali è l’emissione di sentenza di non doversi procedere per estinzione del processo.

Viene in mente una prima considerazione circa le inevitabili difficoltà di adattamento sistematico tra causa di improcedibilità e formule assolutorie, contrassegnate, come è noto, dal principio del favor rei.

In altri termini, occorrerebbe, come è logico, in presenza di ipotesi di proscioglimento di diversa natura, assegnare una priorità all’assoluzione nel merito (anche in relazione ai riflessi preclusivi di cui all’art. 652 c.p.p.) piuttosto che alla dichiarazione di estinzione del reato prevista dal comma I in commento.    

Ma sul punto il DDL tace.

Inoltre, non si è affatto affrontata la problematica relazionale tra detta prescrizione del processo, a tutela dell’accusato, e quella del reato, finalizzata all’esigenza di conferire certezza ai rapporti giuridici ed espressione del disinteresse per la collettività, decorso un certo periodo, all’accertamento giurisdizionale del fatto.  

Con il rischio di sovrapposizione di cause estintive aventi comunque per certi aspetti una divergente disciplina foriera di differenti effetti giuridici.

Il medesimo primo comma disciplina inoltre i termini massimi di fase, oltrepassati i quali deve adottarsi la sentenza dichiarativa di estinzione del processo.

E’ in questa sede che emerge con ogni evidenza l’irragionevolezza della norma, basti pensare che per il giudizio di I grado viene assegnato un margine temporale di due anni, ivi comprendendo, laddove prevista, anche l’udienza preliminare, e ciò a prescindere da ogni considerazione concreta circa la complessità del singolo processo, determinata, come è noto, dal numero di imputati e di imputazioni, dagli accertamenti probatori necessari, dalla ricorribilità o meno a riti alternativi, ecc. ecc..

Ed ancora: altrettanto illogica appare l’equiparazione tra il I grado di giudizio e la fase di appello, di consueto meramente cartolare, essendo incontrovertibile come l’accertamento della fondatezza o meno della tesi accusatoria, propria del primo giudizio, necessita del rispetto delle garanzie proprie del contraddittorio che, come detto, non possono essere sacrificate a vantaggio di ragioni di celerità.

Egualmente dicasi per il giudizio di rinvio in seguito ad annullamento da parte della Suprema Corte, laddove prevedere un anno per il relativo svolgimento sino a sentenza irrevocabile appare del tutto utopistico.

Ma ciò che emerge con maggior evidenza dall’analisi delle norme in questione è che, volutamente, si è inteso incidere solamente sui tempi processuali successivi all’esercizio dell’azione penale, senza alcuna considerazione per la fase delle indagini la cui durata sovente eccessiva, come l’esperienza purtroppo ben insegna, in massima parte determina l’ingiustizia del procedimento.

Quel che è certo è che non vi può essere riforma efficace circa i tempi processuali senza contingentare in primis la durata, spesso dovuta alla mera inerzia del Pubblico Accusatore, delle indagini preliminari.

Appare oltremodo significativo il fatto che negli altri sistemi processuali, anglosassoni e non, non sia presa in considerazione l’ipotesi dell’estinzione quale sanzione per la decorrenza di termini massimi di durata bensì, limitatamente ai primi, si faccia riferimento ai termini che vanno dal ricevimento della notizia di reato all’esercizio effettivo dell’azione penale, come sarebbe auspicabile anche per il nostro ordinamento.

Continuando nell’analisi, ai commi II e III vengono disciplinate le ipotesi di sospensione e di aumento dei termini come sopra previsti, in particolare prevedendo che in caso di ricorribilità degli artt. 516, 517 e 518 c.p.p. non li si possa aumentare oltre i tre mesi.

Il comma successivo esplicitamente richiama l’applicabilità del ne bis in idem di cui all’art. 649 per la sentenza irrevocabile emessa per  violazione dei termini di fase.

Le prescrizioni di cui al comma V, con l’introduzione di esclusioni di carattere oggettivo e soggettivo, oltre che apparire ictu oculi assolutamente irrazionali ed illogiche, finiscono per rendere del tutto incostituzionale il testo proposto, in quanto palesemente violativo dell’art. 3 e 27 comma II Cost..

Dette previsioni, lungi infatti dal preservare il principio della ragionevole durata del procedimento, appaiono al contrario dettate dall’intento politico, spesso ricorrente negli ultimi periodi anche in altre produzioni legislative (vedasi il cd. “pacchetto sicurezza”), di demagogia propagandistica, come del resto si evince letteralmente dalla relazione accompagnatoria al DDL.

Oltre infatti all’introduzione di una previsione generale, pena massima non inferiore a dieci anni di reclusione, le esclusioni oggettive riguardano sia fattispecie criminali ritenute più gravi o comunque di maggior allarme sociale, quali ad esempio quegli illeciti di cui all’art. 51 commi 3-bis e 3-quater e 407 comma II lett. a) c.p.p. sia, ed in ciò emerge con evidenza l’irrazionalità, una serie di reati ivi specificamente previsti, quali ad esempio quelli relativi all’immigrazione clandestina, all’incendio o al furto che nella maggior parte della casistica quotidiana non necessitano di accertamenti particolarmente complessi e comunque tali da non meritare una durata “contingentata”.

Egualmente critica appare la decisione di prevedere esclusioni soggettive, proprie di un processo per tipi d’autore ed inteso come arma di difesa sociale, essendo salvaguardato solamente il diritto dell’imputato incensurato e non quello di chi abbia riportato una condanna a pena detentiva per delitto, anche se colposo, e pur se commesso da soggetto riabilitato. 

Senza considerare che sul punto il legislatore non si è affatto soffermato sulle ipotesi di coimputati “qualitativamente diversi”: come si procede nel caso in cui all’interno del medesimo processo un imputato sia incensurato ed un altro al contrario recidivo?

Si procederà alla separazione delle posizioni (in spregio, tra l’altro all’economicità del giudizio oltre che al rischio di conflitto di giudicati) ovvero si potrà emettere declaratoria di estinzione parziale in favore di uno solo dei soggetti coinvolti? 

L’art 2 disciplina altresì gli effetti del processo breve sull’azione civile mediante esclusione dell’applicabilità dell’art. 75 comma III del codice di rito e con l’ulteriore predisposizione, del tutto irreale, di una corsia accelerata nei casi di trasferimento dell’azione in sede civile.

Il testo legislativo si chiude con la norma transitoria contenuta nell’art. 3.

Trattasi inevitabilmente, dato il clima politico attuale, della prescrizione normativa su cui si svilupperà il maggior dibattito e la cui sorte finirà, con ogni probabilità, per attrarre quella dell’intero provvedimento.

Norma ad personam oppure no, ne è dubbia la costituzionalità quanto meno per violazione dell’art. 3 Cost. solo a pensare che limitando l’applicabilità della sanzione estintiva ai soli processi pendenti in I grado al momento dell’entrata in vigore della Legge, oltre a vanificare tutta una serie di attività processuali già compiute (in tempi in cui la norma sanzionatoria non era stata neppure abbozzata), si prescindere dalla considerazione dell’inizio o meno dell’istruttoria in dibattimento.

Senza considerare che ad oggi, dato il deprecabile balletto di cifre tra il Ministro della Giustizia e l’Associazione Nazionale Magistrati, non è dato sapere quale percentuale di processi sarebbe interessata dall’eventuale entrata in vigore delle norme così come al momento formulate.

Non vi è dubbio, per concludere, come per ottenere una ragionevole durata del procedimento non si possa prescindere dalle garanzie costituzionalmente riconosciute e che, anziché procedere ad inorganiche riformucole utili solamente a scopi propagandistici e mediatici, sia necessario procedere ad un miglior utilizzo di risorse, soprattutto in relazione alla fase delle indagini preliminari nonché ad una seria depenalizzazione degli illeciti minori.

Quel che preoccupa da un’eventuale approvazione del DDL è che l’esercizio della giurisdizione a cui viene imposta una cadenza temporale senza distinzioni sulla complessità dell’accertamento specifico, si traduca nella celebrazione di processi sommari, ovvero l’esatto contrario della dichiarata ratio del provvedimento legislativo.

Senza dimenticare l’ulteriore e deprecabile effetto di deterrenza sui riti alternativi che produrrebbero tali norme, dal momento che si ricorrerà più spesso al rito ordinario in vista della declaratoria di estinzione del processo per decorso dei termini previsti.

In definitiva, l’augurio che possiamo rivolgerci, senza però cadere in facili illusioni, è che il DDL sia solamente uno strumento di pressione politica finalizzato ad avviare, finalmente, una stagione di riforme organiche e possibilmente condivise del sistema giustizia.

Nient’altro che una pistola carica sul tavolo delle trattative.


Marco Arcangeli

 

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