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I trattamenti disumani in carcere e il 41bis

      

   

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 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di:

Marco Arcangeli


Una battaglia di civiltą e giustizia

 

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I trattamenti disumani in carcere e il 41bis

Una battaglia di civiltą e giustizia

(Rieti, 03/03/2010)  

Argomento spinoso, certamente impopolare, quello sull’abrogazione dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario.

Soprattutto in un periodo storico caratterizzato da una richiesta sociale, reale o presunta, di sicurezza pubblica che prevede quale proprio strumento di attuazione unicamente quello dell’inasprimento delle pene e dell’aggravamento del regime carcerario a cui sono sottoposti i detenuti per reati cd. comuni ma altresì, per entrare nel merito del titolo, coloro che sono accusati o condannati per reati compresi nell’elencazione di cui al comma I dell’art. 4 bis della normativa penitenziaria (L. 26 Luglio 1975 n. 354).

Infatti, richiedere oggi con sincera convinzione l’abrogazione del regime del 41 bis risulta ormai appannaggio di sparuti gruppi politico-sociali in quanto rappresentazione di una presa di posizione certamente minoritaria e comunque infruttuosa in termini di consenso elettorale.

Ma ciò, pur nella sua innegabilità, non deve far desistere da quella che è una battaglia di principi di civiltà, con connotati sociali prima ancora che giuridici, le cui radici affondano in una plurisecolare tradizione, dalla riforma criminale toscana-leopoldina al pensiero di Cesare Beccaria, solo per citarne una traccia.

Una tematica su cui riflette da ormai alcuni decenni, con atteggiamento fortemente critico tanto da richiederne a più riprese l’integrale abolizione, anche l’Unione delle Camere Penali, con il prezioso supporto di esperienza delle singole Camere Penali, soprattutto di quelle radicate nelle realtà territoriali interessate ai suddetti fenomeni criminali associativi.

L’applicazione del regime previsto dall’art. 41 bis O.P., che, è bene sottolinearlo, viene deciso da un organo amministrativo quale il Ministro della Giustizia, significa in pochi termini che per una determinata categoria di detenuti (per lo più imputati o condannati per i reati di associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti) la normativa vigente prevede una presunzione assoluta di pericolosità, fondata non sull'osservazione del detenuto (pilastro della Legge di riforma penitenziaria), e quindi sul suo comportamento, ma sul mero titolo di reato.

Con tutta una serie di gravose conseguenze sul piano più propriamente trattamentale (forti restrizioni ai colloqui con i familiari, in specie con i figli minori, rigidi divieti in merito al consumo di cibarie e sull’utilizzo del vestiario, ecc. ecc.) prima ancora che su quello processuale di cui poi meglio si argomenterà.

La ratio di tutto ciò viene individuata, sin dall’introduzione della norma in questione, col passare del tempo sottoposta ad innumerevoli modifiche aggravanti, nella salvaguardia di esigenze di ordine e di sicurezza, da realizzarsi mediante l’assoluta recisione di collegamenti dello specifico soggetto con l’associazione criminale di appartenenza.

Ed è ovvio come un tale regime detentivo speciale risulti legittimo sino a quando corrisponda ai dettami costituzionali contenuti nell’art. 27 circa la funzione rieducativa della pena ed il divieto di qualsiasi trattamento contrario al senso di umanità, tanto che in tal senso a più riprese si è espressa la Corte Costituzionale ammettendo il carcere duro solo a determinate e ben precise condizioni limitative, quali, ad esempio, la ricorribilità in concreto di specifiche esigenze di ordine e sicurezza da applicarsi a singoli detenuti, e non ad intere categorie astratte, sempre avendo come riferimento il criterio di congruità rispetto al pericolo di mantenimento di collegamenti con il clan.

Oltre però al rigoroso rispetto dei principi della Carta Fondamentale, come ben evidenziati dal Giudice delle leggi mediante una serie di pronunce interpretative di rigetto, appare indiscutibile come questo sistema detentivo speciale per essere considerato legittima espressione di uno Stato di civiltà giuridica debba armonizzarsi altresì con altre regole di stampo internazionale, prima fra tutte quella di cui all’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che ripudia le pene inumane o degradanti.

Purtroppo l’esperienza concreta evidenzia ben altra realtà, ancor più preoccupante alla luce della recente ed ennesima modifica legislativa del 41 bis.

Infatti, la legge 15 Luglio 2009 n. 94 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, all’art. 2 comma 25 introduce una profonda rivisitazione dell’istituto rendendo ancor più gravosa, penosa ed inumana la condizione dei soggetti detenuti sotto tale regime, ma finendo pericolosamente per incidere altresì su aspetti più propriamente tecnico-difensivi che intaccano in modo pericoloso il sacrosanto diritto alla difesa.

In particolare, si istituisce una competenza esclusiva circa il reclamo avverso l’applicazione del 41-bis al Tribunale di Sorveglianza di Roma per tutto il territorio nazionale, introducendo una sorte di Tribunale Speciale finalizzato evidentemente ad impedire il più possibile ogni verifica giurisdizionale di legittimità, tanto da ridurre la giurisdizione ad un ruolo marginale e assolutamente passivo di ratifica delle decisioni ministeriali di applicazione del carcere duro.

Piacerebbe al riguardo conoscere l’opinione della stessa magistratura, in altre occasioni sempre pronta a rivendicare la propria autonomia ed indipendenza.

Inoltre, viene ulteriormente aumentato il periodo di assoggettamento al regime detentivo speciale che dagli iniziali 6 mesi, poi dal 2002 aumentati in 1 anno, diviene di 4 anni, prorogabili di ulteriori anni 2, così contravvenendo ai principi sanciti dalla Corte Costituzionale circa l’eccezionalità e temporaneità del regime speciale.

Ed ancora: si prevede che detenuti sottoposti al 41-bis vadano collocati all’interno di istituti “speciali” esclusivamente a loro dedicati, preferibilmente in aree insulari.

Vengono altresì limitati i colloqui non solo con i familiari, problematica già di fatto in concreto sussistente nel momento in cui il detenuto si trovi recluso in luoghi di difficilissimo accesso quali le citate isole, ma, con una disposizione la cui gravità appare senza precedenti, addirittura si impedisce per via legislativa, o comunque lo si limita gravemente, l’esercizio del diritto di difesa e l’espletamento del mandato difensivo.

Basti pensare al fatto che non è più nell’autonomia della difesa decidere quante volte e per quanto tempo sia necessario colloquiare con il proprio assistito per elaborare una propria tesi difensiva, essendo imposta ex lege la frequenza settimanale dei colloqui, non più di tre, e finanche la durata, non più di un’ora per volta. In ciò la norma così rivisitata si pone in netta divergenza, oltre che con i principi della Carta Fondamentale (artt. 3, 27 e 111) con una serie di sentenze della CEDU sull’inviolabilità e sulla concreta effettività del diritto di difesa.

Con l’ulteriore difficoltà pratica, già verificatasi in questi primi mesi di vigenza della modifica normativa, costituita dal fatto che molti difensori, appartenenti a fori geograficamente distanti dagli istituti di reclusione speciale (per lo più dislocati al nord Italia), oltre a sottoporsi a lunghi viaggi, si vedono costretti a restare per più giorni sul luogo e, aspetto certo più preoccupante, a frammentare gli argomenti e le tematiche inerenti la posizione processuale dell’assistito a tutto discapito del corretto e completo esercizio del diritto alla difesa ed in spregio al rispetto dei diritti fondamentali del detenuto, sanciti, tra l’altro, anche dall’art. 6 della CEDU sul sacrosanto diritto ad ottenere tempi e modalità adeguati alla preparazione della propria difesa.

La scarsa considerazione per il ruolo del difensore, quasi fosse un soggetto a cui applicare le medesime accortezze di sicurezza ed ordine pubblico già inflitte al detenuto in regime di carcere duro, e quindi di cui è bene non fidarsi, si evincono anche dall’introduzione della fattispecie di reato di nuovo conio prevista dall’art. 391 bis comma II c.p. (che sanziona tutti coloro che agevolano il soggetto sottoposto al 41 bis ad eludere i divieti imposti) con la previsione di una specifica aggravante qualora il soggetto attivo sia colui che esercita la professione forense.

La situazione non appare affatto migliore sotto un profilo processuale in quanto viene definitivamente invertito l’onere della prova circa la cessazione del collegamento con l’associazione criminale. Ora compete infatti al detenuto dimostrare l’assenza di contatti con ambienti di criminalità organizzata, anche se, ad onor di verità, in sostanza la modifica risulta meno rivoluzionaria del previsto, solo a pensare che già prima l’amministrazione competente forniva tale prova in modo quasi automatico e senza concreti riscontri.

Naturalmente trattasi della classica probatio diabolica tale da non lasciare spazio ad alcuna valida argomentazione difensiva.

Con l’ulteriore aggravante che detto stato di norme finisce per rappresentare addirittura un fenomeno criminogeno, allorquando tende a condizionare le scelte processuali dei soggetti reclusi, soprattutto imputati, a cui viene applicato il 41 bis.

Questo perché nei confronti di coloro che si trovano ristretti in attesa di giudizio l’applicazione dell’art. 41 bis produce quale conseguenza quasi immediata una coartazione della libera autodeterminazione con innegabili riflessi anche sulla credibilità delle dichiarazioni dal medesimo soggetto rese in sede processuale.

Per meglio comprendere quanto appena scritto si rifletta su quanto espresso al riguardo dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti che ha manifestato un’opinione fortemente critica sulla dichiarazione rilasciata dalle autorità del nostro Paese in sede ONU secondo la quale “grazie a questa misura speciale, un numero crescente di detenuti ha deciso di cooperare con le autorità giudiziarie fornendo indicazioni sulle organizzazioni criminali delle quali faceva parte”.

Quanto purtroppo dette dichiarazioni siano prive di qualsivoglia spontaneità e quindi di veridicità, come insegna l’esperienza processuale vissuta sinora, sembra non interessare affatto.

La posizione dell’Unione delle Camere Penali, come ricordato, è nel senso di una radicale abrogazione di detto regime speciale detentivo, ben potendo raggiungersi le finalità di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica con la recisione dei collegamenti tra il carcere e l’associazione criminale di appartenenza mediante il ricorso ad uno strumento normativo ordinario quale quello dell’art. 14 bis O.P., questo sì rispettoso dei principi giuridici fondamentali dell’ordinamento interno e di quello internazionale in quanto soprattutto caratterizzato dalla temporaneità e dall’effettiva impugnabilità.

In ogni caso, nonostante l’assoluta contrarietà al 41 bis, essendo in tale periodo storico un tale risultato abrogativo del tutto improbabile, vi è una certa consapevolezza in capo all’UCPI che occorra procedere ad una fase propositiva, già peraltro trasmessa in Parlamento, che riporti la norma in questione quantomeno nell’alveo dei principi fondamentali del nostro ordinamento.

Si potrebbe cominciare, ad esempio, dal sottrarre i provvedimenti applicativi del regime detentivo in questione  all’autorità amministrativa con attribuzione del relativo potere ad un giudice, su richiesta del pubblico ministero. E poi: ribaltare l’onus probandi, oggi a completo carico del detenuto, inserendo inoltre l’obbligo di motivazione puntuale sui collegamenti effettivi con il sodalizio di appartenenza (o presunta appartenenza per chi è in attesa di giudizio), senza la possibilità di ricorrere a formule di stile o a richiami generici o di tipo sociologico (come è accaduto sino alla recente modifica) per applicare o prorogare il regime; prevedere una possibilità effettiva di reclamo sui provvedimenti in quanto tali e sulla loro motivazione e sulle modalità concrete di esecuzione del regime che comprimano diritti soggettivi, con abrogazione della competenza unica su tutto il territorio nazionale da parte del Tribunale di sorveglianza di Roma; istituire un obbligo di verifica caso per caso, e non per tipologie astratte di reati, circa i presupposti applicativi del 41 bis.

Quel che è certo è che l’Avvocatura, organizzata e non, al fine di attuare quel ruolo che le è proprio di garante dei diritti dei cittadini, soprattutto di quelli giuridicamente più deboli quali i soggetti in stato di detenzione, da attuarsi anche mediante la tutela del legittimo esercizio dell’attività professionale di difesa, non potrà che insistere in questa battaglia di civiltà e di giustizia per l’abrogazione del 41 bis.


Marco Arcangeli

 

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