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Riforma del sistema pensionistico

      

   

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 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di:

Arnaldo Ciccalotti


Pensioni complementari

 

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Riforma del sistema pensionistico

Pensioni complementari

(Rieti, 22/11/2010)  

Chi ha vissuto le stagioni delle lotte, degli ideali, delle illusioni degli anni Sessanta e Settanta, periodo caratterizzato anche dal forte espandersi delle tutele sociali, mai avrebbe potuto pensare di dover assistere al repentino impoverimento del sistema previdenziale pubblico. Ed appare ancor più grave che tutto ciò sia potuto avvenire fra l’indifferenza generale, con una opinione pubblica addormentata e fuorviata anche dall’azione continua e ingannevole svolta in questo campo da gran parte dei media, che hanno spacciato come necessità imprescindibile la riforma delle pensioni e l’introduzione della cosiddetta previdenza complementare. Stupisce l’atteggiamento di quelle organizzazioni dei lavoratori che, invece di opporsi al ridimensionamento della previdenza pubblica, hanno preferito partecipare alla gestione dei fondi.

            Si è molto discusso negli anni trascorsi, con toni spesso apocalittici, sulla necessità di una riforma del sistema pensionistico, sostenendo che gli enti previdenziali in futuro non avrebbero più potuto garantire l’erogazione delle pensioni, adducendo a sostegno di tali tesi vari fattori, tra cui l’innalzamento dell’età media. La verità è che, con la riforma attuata, invece di provvedere a correggere gli errori del passato, si è preferito scaricare sui lavoratori e sui pensionati le difficoltà di bilancio dei diversi enti previdenziali, difficoltà che in larga parte sono causate dalla mala gestione del grande patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, dall’avere erogato pensioni con appena 15/20 anni di contribuzione, dalle varie incentivazioni al pensionamento, dal non aver doverosamente separato le spese per le pensioni dalle spese per l’assistenza.

            Un notevole contributo al dissesto di questi enti è derivato anche dalla sconsiderata politica di imporre per legge agli enti previdenziali di concedere in affitto a condizioni di favore e a prezzi stracciati l’immenso patrimonio immobiliare, patrimonio che poi, sempre per legge, ne è stata imposta la vendita o, forse, è più esatto dire, la svendita.

            Più che garantire i lavoratori al termine della loro attiva lavorativa, la soluzione della previdenza complementare appare fatta su misura per favorire gli affari del mondo speculativo e finanziario. Una scelta gravida di incognite per i lavoratori che vi partecipano, che non garantisce nulla, che reca per i lavoratori che vi aderiscono il rischio di versare per anni una parte del loro salario col possibile rischio di perdere tutto o parte di quanto versato. Si tratta di un’involuzione, un cambio di marcia, un tornare indietro improvviso e doloroso di cui forse non si avverte ancora tutta intera la forte ingiustizia e la grande pericolosità sociale.           

            I numerosi casi che, in vari paesi del mondo, hanno visto il “fallimento”dei fondi pensione avrebbero dovuto far riflettere i vari governi, dell’una e dell’altra parte politica, i sindacati e le parti sociali che hanno dato il loro assenso, sulla opportunità di una riforma che in larga parte è tesa ad affidare le somme dei lavoratori alle bizze dei mercati finanziari internazionali.

            Più recentemente, col decreto legislativo n° 252 del 5 dicembre 2005, oltre che a ridefinire la materia dei fondi pensione, è stata imposta una nuova disciplina per il trattamento di fine rapporto (il cosiddetto tfr). I lavoratori, infatti, a seguito di tale normativa debbono obbligatoriamente decidere se lasciare il trattamento di fine rapporto in Azienda - in tal caso viene gestito dall’Inps- o farlo confluire in un fondo pensione. Si tratta di ulteriore gigantesco affare per banche, assicurazioni e i loro sodali.

            Questa legge contiene una buona dose di ipocrisia perché afferma che la decisione del lavoratore di trasferire il tfr a un fondo pensione è libera e volontaria, mentre in realtà pone il lavoratore di fronte a un bivio che presenta due percorsi assai accidentati, con prospettive per lui comunque peggiori rispetto alla situazione precedente la riforma. In base alle nuove norme, il lavoratore ha due sole alternative: trasferire il suo tfr a un fondo pensione, sperando di integrare la la sua futura pensione con una quota incerta, indeterminabile, correndo tutti i rischi legati al mondo finanziario, oppure lasciare il tfr in azienda e in tal caso perdere le agevolazioni fiscali e i contributi del datore di lavoro previsti per chi aderisce ai fondi complementari.        

            Già il fatto che la norma stabilisca che il trasferimento del trattamento di fine rapporto possa anche avvenire con la forma del silenzio-assenso, e quindi anche in carenza di una esplicita volontà del lavoratore, la dice lunga sulla volontà del legislatore di favorire comunque l’incremento dei fondi pensione, senza tener conto dei rischi che si fanno correre ai lavoratori.

            I fautori della riforma sostengono che con l’investimento nel mercato finanziario i lavoratori riuscirebbero ad avere per il tfr rendimenti superiori, salvo poi ammettere, candidamente, che le rivalutazioni del capitale versato saranno tanto più alte quanto più alto è il rischio della gestione scelta! Certo, è ben noto che chi gioca alla roulette può anche vincere grosse somme, anche se poi, nella stragrande maggioranza dei casi, i giocatori rimangono senza un soldo bucato!

            Viene fatto altresì notare che coloro che scelgono la pensione complementare ottengono una più favorevole tassazione rispetto ai lavoratori che lasciano il tfr presso l’azienda. E’ vero, ma non si comprende perché il tfr, salario differito del lavoratore, debba essere soggetto a due pesi e due misure, a seconda rimanga nelle casse dell’azienda o, invece, venga trasferito in quelle dei fondi pensione.

            Ai pretesi, ipotetici maggiori rendimenti e alla minore tassazione prevista per i sottoscrittori di quei fondi, si contrappongono innegabili rischi e svantaggi per coloro che trasferiscono il tfr ai fondi pensioni quali sono la perdita della certezza della rivalutazione annuale del tfr dell’1,5%, oltre al 75% del tasso di inflazione e l’impossibilità per il lavoratore di riscattare il tfr sia al termine dell’attività lavorativa, sia nel corso della stessa qualora cambi lavoro. La scelta di far confluire il tfr in un fondo pensione è altresì una decisione non revocabile, diversamente del lavoratore che lascia il tfr in azienda, che può sempre modificare la sua scelta.

            La partecipazione ai fondi pensioni non garantisce neppure la reversibilità della pensione complementare a favore del coniuge, a meno di pattuirla anticipatamente. In tal caso, però, si subirà un taglio consistente della pensione complementare.

            Se si voleva veramente elevare le coperture previdenziali, non era necessario creare una serie di costose strutture, quali sono i vari fondi, i cui aderenti sono peraltro gravati di oneri e commissioni di competenza dei gestori finanziari, costi che i sottoscrittori sono tenuti a pagare indipendentemente dal risultato conseguito, anche in caso di forte perdita. Per meglio garantire i lavoratori sarebbe bastato utilizzare adeguatamente il fondo unico nazionale dell’Inps, investendo i contributi nei più sicuri titoli di Stato, considerato che i fondi pensione non sono in grado neppure di garantire la restituzione dei fondi versati, legati come sono ai capricci e a i pericoli dei mercati finanziari.

            Quello dello smantellamento o comunque della fortissima riduzione della previdenza pubblica rappresenta la soluzione più odiosa per la sicurezza e la serenità per milioni di persone che, dopo la fine dell’attività lavorativa, nel momento di maggiore bisogno, per avere una pensione dignitosa debbono sperare che il loro tfr e i contributi versati non vengano inghiottiti dalle ricorrenti crisi dei mercati finanziari globalizzati.


Arnaldo Ciccalotti

 

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