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UN FENOMENO SOCIALE POLITICO RELIGIOSO E STRATEGICO

      

   

Inchieste

 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

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Dott.ssa Simonetta Costanzo


Il ruolo delle madri islamiche nella preparazione dei figli al suicidio-omicidio

 

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La Storia č piena di Kamikaze

UN FENOMENO SOCIALE POLITICO RELIGIOSO E STRATEGICO

Il ruolo delle madri islamiche nella preparazione dei figli al suicidio-omicidio

(Roma, 13/03/2013)

UN FENOMENO SOCIALE POLITICO RELIGIOSO E STRATEGICO

C'ERANO UNA VOLTA I KAMIKAZE GIAPPONESI COMBATTENTI DI GUERRA

Piloti suicidi giapponesi impiegati nella seconda guerra mondiale dall'ottobre 1944 all'agosto 1945. La strategia degli attacchi suicidi con aeroplani destinati a schiantarsi sulle navi statunitensi fu decisa dal viceammiraglio Oonishi Takijirou, comandante del 1° Kokukantai (Prima Flotta Aerea). Nella riunione del 19 ottobre 1944 a Mabalacat (Filippine), fu stabilita la formazione dello Shinpuu tokubetsu kougekitai (Gruppo speciale d'assalto vento divino). Il nome kamikaze (vento divino) fu attribuito in ricordo della tempesta, così chiamata, che nel XIII secolo spazzò via la flotta d'invasione di Kubilai Khan. La grave decisione fu adottata a causa delle pessime condizioni in cui versavano le forze nipponiche. Dopo la sconfitta a Leyte (Filippine) e il fallimento dell'operazione Shou (vittoria), l'inferiorità in mezzi, rifornimenti e uomini era netta. Ogni attacco aereo era destinato al fallimento, il velivolo sarebbe stato abbattuto dai caccia avversari o dalla contraerea. Perciò si decise di continuare a combattere a costo del sacrifico supremo. Molti piloti accettarono con entusiasmo la scelta di continuare la lotta con questo mezzo estremo, e tanti furono anche i volontari. Ma non si deve dimenticare il dramma vissuto in questa scelta identificando erroneamente i kamikaze come fanatici. L'eroe di guerra Sakai Saburou ci ricorda quanto fosse tragica questa decisione, e quanto i giapponesi amassero la vita che donavano in sacrificio: le antiche parole mi turbinavano nella mente: “Un samurai deve vivere in modo tale da essere sempre preparato a morire” [Yamamoto Tsunetomo. Hagakure, ndr]. Il codice del samurai tuttavia non prescriveva che un uomo dovesse essere sempre preparato al suicidio. Esisteva un abisso tra il togliersi la vita e l'andare invece in combattimento con l'intenzione di affrontarne i rischi e gli azzardi. In quest'ultimo caso anche la morte può divenire accettabile e non possono esservi rimorsi. [...] Ma come è invece possibile accettare, in brevissimo spazio di tempo, di andare a uccidersi? Anche Ivan Morris ci ricorda l'umanità dei piloti kamikaze giapponesi riportando una lettera di uno di loro: Pensare agli inganni di cui i cittadini innocenti sono stati vittime da parte di alcuni nostri scaltri politicanti mi lascia un sapore amaro in bocca. Ma accetto di ricevere ordini dall'alto comando e perfino dagli uomini politici, perché credo nello Stato giapponese. Il modo di vita dei giapponesi è veramente bello e io ne sono fiero, come sono fiero della storia e della mitologia giapponese che riflettono la purezza dei nostri antenati e la loro fede nel passato. [...] E' un onore poter offrire la mia vita in difesa di valori così belli e alti. Gli attacchi kamikaze furono dal punto di vista militare un fallimento. Infatti i danni recati al nemico furono limitati e mai decisivi. Ma dal punto di vista morale essi furono impressionati. Gli americani rimasero stupefatti nel constatare la determinazione del nemico, e per ovvie ragioni culturali avvertirono come disumana quella strategia di guerra. Combattere contro un nemico che non si comprendeva rendeva tutto ciò destabilizzante. Oggi i nomi dei piloti kamikaze sono conservati nello Yasukuni Jinja, un tempio shintoista di Tokyo. Le visite al tempio di alcuni premier giapponesi (come quelle di Nakasone nel 1985 e di Koizumi nel 2001) sono state oggetto di aspre critiche. Ma si deve ricordare che i kamikaze sacrificarono le loro vite per il Giappone, non contro qualcosa e qualcuno, oppure a favore di una classe politica, ma per l'intero paese.

OGGI  KAMIKAZE MUSSULMANI ATTENTANO ALLE NOSTRE VITE

Secondo uno sconosciuto membro di Hamas con lo pseudonimo di Wardan il quale sostiene che non esistono gli attentatori suicidi, ma ordigni umani che provocano sante esplosioni. L'individuo trasforma se stesso in un'arma. La bomba che si avvolge attorno alla vita ne fa un invincibile missile umano. Non avendo carri armati né i supersonici F-16 i terroristi hanno qualcosa che definiscono superiore: le loro bombe islamiche. Costano soltanto una vita, però non c'è nulla che possa fermarle e superarle, nemmeno le armi nucleari. E' vero che il Corano vieta esplicitamente il suicidio. E' altrettanto vero che decine e decine di fatwa dichiarano esplicitamente che le operazioni al martirio non c'entrano nulla col suicidarsi. Grazie a una complessa tradizione fatta di scuole di pensiero differenti certi principi di fede islamica sono stati rivoluzionati, cambiati e ricambiati di nuovo. Uno stesso concetto è visto a volte in maniere diametralmente opposte. Non esiste un Islam ma vari tipi di Islam. Attingendo ai sacri principi si può dimostrare - a seconda dell'occasione - che la religione musulmana è pacifica o meno, che il Jihad è una guerra o uno sforzo, che lo shaidismo è legittimo o meno. Tutto e il suo contrario, a seconda del versetto, della fatwa o della scuola di pensiero che si cita. Ma chi sono i Kamikaze?  Kamikaze significa vento divino, così fu chiamato il vento di tempesta che affondò nel XVI secolo la flotta di Kublai Kan il tartaro che, dalla Cina, partì per invadere il sacro arcipelago giapponese, mai profanato sino ad allora. Di fronte alla necessità di colpire duramente la pur sempre forte potenza navale nemica, vennero selezionati volontari, nelle migliori università giapponesi per essere arruolati come piloti suicidi, che si sarebbero sacrificati gettandosi con i loro aerei sugli obiettivi avversari. Questi piloti erano dei samurai, educati ad un rigido codice d'onore, il bushido, cui lo scintoismo, religione patriottica, assicurava il paradiso degli eroi. Questi guerrieri non si votavano, però, in guerra, alla morte per finalità religiose, bensì quale atto estremo necessario per compiere fino in fondo ed al meglio il loro dovere di samurai nell'interesse del loro signore e del loro onore di samurai: tant'è che alla pratica del suicidio rituale mediante hara-kiri o Seppuku comunemente si faceva ricorso per ristorare l'onore comunque compromesso e nei casi in cui le mancanze al bushido lo richiedevano. Successivamente ai piloti suicidi di aeroplano si affiancarono anche kamikaze marini, i kaiten, dei siluri umani che violarono anche la base australiana di Sidney. Va notato che il suicidio militare, in quanto tale, è un fenomeno tanto antico quanto diffuso nelle più varie popolazioni, che forse tradisce il ricordo di sacrifici umani propiziatori praticati in tempi più remoti in occasione di partite di caccia o di battaglie importanti. Famose sono le devotiones dei Deci. Il console Publio Decio Mure, nell'affrontare l'esercito latino alle falde del Vesuvio nel 340 a. c., si sacrificò appena vide cedere le sue legioni schierate all'ala sinistra. Ciò avvenne perché si era appreso da un sogno e dagli aruspici che per la vittoria si esigeva il sacrificio di uno dei consoli e si era deciso che si sarebbe immolato quello il cui esercito avesse cominciato a piegare. Così pure nella battaglia di Sentino, contro sanniti, galli, etruschi ed umbri, suo figlio, anch'egli Publio Decio Mure, quando vide l'ala sinistra da lui comandata piegare dinanzi ai galli, votò se stesso ed i nemici agli dei inferi e, gettandosi nella mischia, scongiurò il momento di pericolo per l'esercito romano in combattimento e decise la vittoria romana. Ancora il nipote, anch'egli Publio Decio Mure, console nel 279 a. c., inviato contro il re Pirro, aveva deciso il suo sacrificio durante la battaglia di Ascoli (ma, nel parlare della sua devozione, alcune fonti dicono che egli rinunziò al suo sacrificio quando seppe che Pirro, che era stato avvertito, aveva dato ordine alle sue truppe che Decio non venisse assolutamente ucciso). Nel mondo antico rimase famoso il monito severo col quale le madri spartane salutavano i loro figli che partivano per la guerra torna, figlio mio, con lo scudo o sullo scudo: volendo significare piuttosto che gettare lo scudo per facilitarti nella fuga, muori e ritorna ucciso deposto sullo scudo. I Galli usavano anche lanciarsi, come narra Cesare, in battaglia completamente nudi e armati di spada, per dimostrare di non avere paura della morte. Tra i Longobardi, i guerrieri dediti al culto di Wotan, indossavano una maschera col muso di cane e combattevano nei punti dove più alto era il rischio di morire, fino alla morte. Presso i Vichinghi esisteva un gruppo di guerrieri suicidi, i berserker, che in battagliasi votavano alla morte in onore di Odino. Anche tra i Pellerossa vi erano dei guerrieri, presso le tribù Sioux e Cheyen, in battaglia si legavano ad un palo che piantavano sul posto con una lunga corda e lì così combattevano esposti ad un rischio mortale. Ma, tutti gli esempi di questo tipo, come anche quello relativo all'episodio di Pietro Micca, che durante l'assedio di Torino, nel 1706, per salvare Torino dall'irruzione di truppe francesi attraverso una galleria, preferì fare saltare una mina e crollare la galleria,sacrificando la sua vita, poiché non aveva il tempo di fuggire, dimostrano che l'obiettivo di chi sceglie la morte, in questi casi, non è il suicidio, bensì l'inchinarsi ad una necessità che li porta a morire poiché non si vedono altre vie praticabili per difendere un principio superiore, quale quello della Patria, dell'Onore ecc., come fanno fede i trecento spartani che si sacrificarono contro i persiani alle Termopili per consentire ai greci di organizzarsi e, così, consentire la vittoria di Maratona. Quindi, nella storia, più che notizia di suicidi militari si ha notizia del fenomeno che guerrieri addestrati e consapevoli che, a prescindere dal misticismo del conseguimento di un premio oltre la vita terrena, posti dinanzi all'ineluttabile, sacrificano senz'altro la propria vita.  Suicidi altruistici ed ideologici o religiosi come quelli dei bonzi che si davano fuoco sulla strada per far porre fine alla guerra del Vietnam, o come quello di Ian Palach che intendeva protestare contro 1' invasione della sua patria da parte dei Sovietici non hanno ugualmente, a nostro parere, nulla anche vedere con i terroristi islamici di questi ultimi tempi. Per quanto concerne, invece, il comportamento tenuto dai nuclei speciali del terrore islamico, la questione deve essere valutata sotto un diverso profilo e va considerata la differenza che c'è tra chi considera la vita un fine e chi considera la vita subordinata ad un fine, cioè tra quelli che agiscono come i Deci o i kamikaze e gli attentatori suicidi di Manhattan, i loro emuli e gli altri tutti terroristi suicidi islamici. Dice Ahmed Yassin, lo sceicco paraplegico loro padre spirituale, quanto all'attacco di New York che tra quei martiri ed i nostri martiri passa la stessa differenza che c'è tra il giorno e la notte, tra il cielo e la terra. Loro hanno attaccato cittadini innocenti, persone senza colpa ... azioni di quel tipo vanno contro tutte le regole dell'Islam, contro i principi della nostra religione. I nostri martiri si sacrificano per proteggere il nostro popolo, danno la loro vita per liberare un paese occupato dall'invasione sionista. A New York non c'è nulla di tutto questo. E la condanna di quel gesto e dei suoi autori è unanime in molti capi dell'Islam che si dicono sgomenti e non vedono, in quella tragedia, neppure l'ombra di Allah. Si afferma che l'Islam dà valore prioritario alla vita, rifiuta il suicidio e l'omicidio e considera musulmani tutti i bambini, anche quelli cattolici, fino all'età della ragione:quindi non può essere mai tollerato l'assassinio soprattutto di giovani vite. In sostanza, nell'Islam nulla può mai giustificare l'eliminazione fisica e, quanto agli uomini-bomba che hanno operato in Palestina, Ali Abu Schwaima, capo del centro islamico di Milano, afferma di pensare trattarsi di persone disperate, di gente ridotta all'ultimo stato esistenziale, di uomini depressi, malati o sconvolti.  Gente che non ha più nulla da perdere, da chiedere e che quindi fa un ragionamento di questo tipo: tu mi hai tolto tutto, mi hai annientato, distrutto, umiliato, tu mi stati uccidendo, ed io mi uccido da solo e porto anche te, mio nemico, nella stessa tomba. Ed invero, nel mondo coranico ad esercitare la funzione di guida sono i sapienti, poiché il Corano, testo sacro rivelato da Allah al profeta Maometto non prevede alcuna figura trainante e tutte le autorità sono costruzioni dei musulmani, cioè figuresuperiori con confini di competenze piuttosto labili, tutte nominate dal basso, dal popolo. Non esiste una investitura, è la fama che rende un maomettano Mufti, Imani o Ulema. Non esiste differenza tra diritto religioso e diritto statale negli stati totalmente islamici. In taluni casi sembra siano stati dati responsi favorevoli al suicidio nell'Islam come sembra sia accaduto per Bin Laden cui sembra sia stata accordata tale possibilità, insieme ad alcuni suoi seguaci, nell'interesse dell'Islam. Però, nei paesi dell'Islam, accade spesso che la religione venga usata con finalità politiche o comunque dalle autorità civili per interessi propri. In questa particolare interpretazione, si inserisce il concetto della Jihad, impropriamente definita guerra santa che, invece, per il Corano è lo sforzo sulla via di Dio: e lo sforzo è quello di essere un buon musulmano, la tensione per raggiungere qualcosa ed anche, in determinati contesti, la lotta. Orbene i terroristi suicidi, dunque, stando all'ortodossia della fede, andranno all'inferno.  Autorevoli teologi islamici hanno ritenuto che il termine andasse inteso in senso morale e spirituale. L'idea che questo precetto dovesse essere inteso in senso militare, cioè di guerra per convertire gli infedeli, anche se oggi è prevalente, si è imposta poco per volta, venendo l'espressione interpretata come obbligo del fedele di partecipare alle campagne militari per propagare la fede. Non si tratta, però, di uno dei cinque pilastri della fede bensì di un obbligo che si traduce in dovere solo quando un legittimo governante musulmano chiami 1' appello generale alle armi contro gli infedeli. Chi sdrammatizza 1'antico messaggio lo interpreta come un invito a lottare per convertire un infedele con la propria abilità oratoria, o con la forza del suo esempio, e c'è chi lo considera qualcosa di analogo al fioretto cattolico. Non si può, mai, però, convertire con la forza un aderente ad una delle fedi del libro cioè delle fedi che condividono una parte della Rivelazione: cristiani, ebrei, zoroastriani e mandei. Ad essi si potrebbe solo imporre una tassa ed uno stato di cittadini di rango inferiore. La possibilità di essere puniti con la morte sussisterebbe solo nel caso non si pagasse tale tassa. Fin dal 632 il califfo Abu Bakr dettò ai suoi guerrieri un rigorosissimo codice della Jihad dal quale si ricava che non tutti i mezzi sono leciti al musulmano per poter vincere quella guerra, e meno che mai uccidere un bambino, un anziano, una donna (e perfino ammazzare una pecora, una mucca, un cammello se non per nutrizione). Risulta dunque ben chiaro il divieto di attentati che colpiscono i non combattenti,storpino le vittime e distruggano inutilmente proprietà e ricchezze. Quindi, le distruzioni delle torri gemelle sono peccati tali che non potrà mai essere accolto da Allah nel paradiso dei guerrieri chi li ha commessi. Nell'Islam di oggi l'intrecciarsi dell'assenza del principio di laicità e 1' affermarsi di forme di militanza politica radicale, anche molto aggressiva, impone la necessità di domandarsi quanto il sanguinario affacciarsi sulla scena internazionale dell'integralismo islamico dipenda dalla possibilità di trovare musulmani disposti a sacrificare la propria vita per combattere la guerra santa. Oramai, infatti, benché non si possa affermare che l'integralismo sia una caratteristica permanente ed essenziale dell'Islam, è però indubbio che l'Islam è esposta al rischio ditale degenerazione ed assume un valore indicativo quanto il califfo Metin Kaplan, un Imani turco di Colonia, insegnava ai suoi seguaci: la guerra santa è la giusta risposta al nemico, ogni buon musulmano deve dare il suo contributo sapendo che riceverà in cambio due ricompense bellissime: o la vittoria o il martirio che gli aprirà le porte del paradiso. Un dato inquietante, solo che si consideri come l'addestramento alla Jihad deve cominciare sin da piccoli e le madri svolgono una funzione fondamentale in questa formazione pedagogica. Le donne islamiche hanno da sempre avuto una funzione determinante nella formazione dei futuri eroi kamilaze, l'educazione dei quali deve iniziare prestissimo sin da quando sono infanti, in grado di capire le parole, gli si narreranno le storie del profeta e delle guerre islamiche e gli si insegnerà che nei momenti di rabbia non deve mai colpire un musulmano ma dovrà sfogarsi sui nemici di Allah che combattono contro i musulmani. Le precise regole pedagogiche da seguire, nella convinzione che una delle massime soddisfazioni di una donna islamica sia quella di diventare madre di uno shiadid, martire per amore di Allah, oggi si trovano perfino su internet in un sito ad hoc facilmente consultabile .Si consiglia, dunque, di costruire un fantoccio nemico insegnando loro a dirigere lì la propria rabbia; la televisione va usata solamente per mostrare ai piccoli video che instilleranno loro amore per l'Islam e la Jihad; video di storia islamica e di addestramento militare; iniziarli al tiro al bersaglio con giocattoli ad hoc, spiegando bene chi dovrebbe essere il loro bersaglio e chi non; fare con loro giochi militari in maniera divertente per renderli interessanti; fare praticare sport mirati all'addestramento del perfetto shiadid, quali le arti marziali, nuoto, tiro con l'arco, gare di orientamento,atletica, sci, guidare diversi veicoli, campeggio e addestramento di sopravvivenza. Sotto il profilo culturale dall'età di due anni dovranno far leggere ai bimbi libri militari illustrati, mostrare loro fotografie di guerrieri islamici e spingerli ad emularli,regalare play station con video giochi militari o di strategia militare e poi, dovranno fare in modo che i figli, diventati grandi, intraprendano professioni adeguate alla Jihad ed al servizio della causa (piloti, scienziati, medici, ingegneri e fisici nucleari, tecnici qualificati). Le donne, inoltre, dovranno impegnarsi a raccogliere fondi in ogni modo, poiché Allah ha comandato di impegnarsi alla Jihad con se stessi e con le proprie ricchezze. Queste madri non smetteranno mai di sollecitare e sostenere i figli con la preghiera e le parole. E quando tutti i loro insegnamenti andranno a buon fine ed il loro figliolo morirà, organizzeranno un funerale pieno di gioia ove non verranno versate lacrime, poiché la donna che piange per la morte del figlio, fratello, marito, padre è una vergogna agli occhi di Allah, bensì alzerà grida di giubilo e al funerale verrà offerto caffé dolce anziché amaro e lanciati al cielo confetti e caramelle, come ringraziamento alla grande bontà di Allah. E in quel momento saranno felici, perché sapranno che Allah le considererà sorelle privilegiate e degne di rispetto; da quel momento vivranno serene e certe che il loro figliolo, grazie al suo martirio per amore di Allah, grazie al suo sacrificio sarà in paradiso ove si sposerà con settanta donne dagli occhi castani, potrà chiedere che settanta membri della sua famiglia vengano ammessi anch'essi in paradiso e, infine, si fregerà della corona della Gloria la cui pietra preziosa vale tutto questo mondo. New York che tra quei martiri ed i nostri martiri passa la stessa differenza che c'è tra il giorno e la notte, tra il cielo e la terra.

Simonetta Costanzo

 

NOTA BIOGRAFICA DOTT.SSA SIMONETTA COSTANZO

Nata a Roma il 19/XI/1955, coniugata con il prof. Francesco Bruno, ha un figlio, è residente in ROMA (00141) Via dei Prati Fiscali 184 D/4 00141, consegue nell' anno scolastico 1973/74 il Diploma di Maturità Classica, presso il Liceo Classico Statale Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta di Tivoli. L'anno successivo 1974/75 si iscrive al primo anno del Corso di Laurea in Psicologia (indirizzo applicativo), presso l'Università degli Studi di Roma, laureandosi il 9 Luglio 1979 con un punteggio eguale a 107/110, discutendo la tesi di laurea: Verifica del Deterioramento Mentale, fatta con il test di Wechsler, su soggetti  in soggiorno carcerario per la prima cattedra di Teorie e Tecniche dei Test, Relatore: Prof. Pietro Ganzerli, Correlatore: Prof. Vincenzo Cinanni. Conoscenza della lingua inglese. Già durante il corso degli Studi si interessa alle seguenti attività:

Settembre 1977/Settembre 1980 - Tirocinio presso l'Ospedale Psichiatrico Provinciale Santa Maria della Pietà di Roma Padiglione XXII, allora diretto dal Primario Dr. Benincasa Stagni.

Settembre/Ottobre 1978 - Corso di specializzazione in Ipnosi Medica con regressione di età, organizzato dalla Libera post Università Internazionale della Nuova Medicina di Milano.

Settembre/Ottobre 1978 - Corso di specializzazione in Medicina Psicosomatica organizzato dalla Libera post Università Internazionale della Nuova Medicina di Milano.

Settembre/Ottobre 1978 - Breve corso in Training Autogeno ed in Psicologia della Scrittura organizzato dalla Libera post Università Internazionale della Nuova Medicina di Milano. Conseguito il Diploma di Laurea intraprende le seguenti attività: Maggio/Settembre 1979 - Ipnosi Medica in Ostetricia, presso l'Ospedale di Frascati, reparto Ginecologico. Successivamente alla laurea si è occupata delle seguenti attività:

Settembre 1979/Luglio 1980 - collabora come Psicologa nella esecuzione di una ricerca che si propone di valutare il deterioramento cerebrale, condotta dalla Prima Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell' Università di Roma (Prof. Cornelio  Fazio) e dall'Istituto San Giovanni Battista di Roma.

Gennaio 1979 in poi - collabora come Psicologa (Psicodiagnostica e Psicoterapia) nell'esecuzione di un programma di ricerca sull'uso  dei farmaci Agonisti -Antagonisti degli oppiacei, nel trattamento delle farmacodipendenze da narcotici (CANAS) condotto dalla Seconda Cattedra di Medicina Criminologica e Psichiatria Forense dell'Università di Roma per conto della Direzione Generale di Medicina Sociale del Ministero della Sanità.

Dal Gennaio 1979 collabora nelle attività cliniche e di ricerca della Seconda Cattedra di Medicina Criminologica e Psichiatria Forense dell'Università di Roma.

Dal Gennaio 1980 esercita attività psicodiagnostica e psicoterapeutica clinica, presso lo studio neuropsichiatrico del Prof. Francesco Bruno.

Dal 1982 è iscritta alla Società Italiana di Psicologia (SIPs), tessera n. 2493.

Dal 1984 è Consulente Tecnico Psicologo presso il Tribunale di Roma.

Nel 1986 ha iniziato un Training psicoanalitico presso l'AIPA Associazione Italiana per lo studio della Psicologia Analitica, con sede in Roma. Nel corso del 1992 ha sostenuto le prove riguardanti i seminari clinici e teorici per il riconoscimento di membro ordinario presso la stessa associazione. Dal Gennaio 1993 ha conseguito il titolo di Psicologo Analista membro ordinario dell’AIPA.

Dal 1986 è membro ordinario dell'Associazione Italiana per il   Rorschach   e altre tecniche Proiettive (A.I.P.R.A.), con sede a Torino.

Dal 1987 è Socio ed Amministratore Unico della ISIDEHS S.r.l. International Scientific  Institutes  for  Development of  Human Systems e nel 1988 ha fondato la AIASU Associazione Internazionale per le Applicazioni delle Scienze Umane.

Dal 1988 al 1992 è stato Consulente Psicologo del Ministero degli Interni - Dipartimento della Pubblica Sicurezza; in  tale veste ha partecipato direttamente alla gestione sul campo di alcune situazioni di crisi anche in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia (rivolta carceraria di Porto Azzurro).

Dal 1989 esercita autonomamente la professione di psicologo-analista.

Dall’8 Novembre 1990 è iscritta all’Albo degli psicologi (protocollo n. 356) ed è inserita nell’elenco degli psicologi a cui è consentito l’esercizio dell’attività psicoterapeutica (ex art. 35 della legge 18 febbraio 1989 n. 56).

Dal 1991 tiene delle lezioni sui rapporti tra ipnosi e psicoanalisi al corso d'ipnosi medica organizzato dall'Università di Roma La Sapienza (prof. Granone e V. Mastronardi).

Nel 1992 e 93 ha collaborato con l'UNICRI  (United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute) con sede in Roma, ove ha svolto diverse lezioni in corsi di prevenzione internazionale contro le tossicodipendenze.

Nel Gennaio del 1993 è diventata membro ordinario dell'AIPA (Associazione Italiana per lo Studio della Psicologia Analitica) con sede in Roma e membro della IAAP (International Association for Analitical Psychology) con sede in Zurigo.

Dal 1995 conduce dei seminari di psicografologia e di psicodinamica criminale nei corsi di perfezionamento in “Perizia psichiatrica”, “Tecniche psicologiche e comportamentali dell’investigazione criminale” e Tecniche dell’interrogatorio crociato nel processo penale, presso il dipartimento di scienze psichiatriche e medicina psicologica dell’Università di Roma “La Sapienza”.

Dal 1997 è eletta Vice Presidente dell'Associazione Italiana per il Rorschach e altre tecniche Proiettive (A.I.P.R.A.), con sede a Padova.

Dal 1997 è membro della Società Italiana di Criminologia.


Dott.ssa Simonetta Costanzo

 

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