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La questione irachena nel contesto mediorientale e nella guerra al terrorismo

      

   

Inchieste

 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di:

Dr. Franco CULEDDU


Analisi Geopolitica di una delle aree più "calde" del pianeta

 

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La questione Irachena


Sicurezza Internazionale

La questione irachena nel contesto mediorientale e nella guerra al terrorismo

Analisi Geopolitica di una delle aree più "calde" del pianeta

(Torino, Jun 15 2002 12:00AM) Introduzione

I recenti sviluppi delle vicende legate alla lotta al terrorismo hanno riportato alla ribalta la questione irrisolta dell’Iraq e della posizione del suo leader Saddam Hussein. Nel presente lavoro, estremamente sintetico, ho voluto indicare quali possano essere gli elementi essenziali per comprendere lo scenario geopolitico attuale nel quale si inquadrano le eventuali opzioni per la risoluzione della problematica Ho voluto seguire l’approccio schematizzato dal Vallenga che è stato oggetto di studio durante lo svolgimento del modulo. Ho ritenuto utile partire dall’illustrazione delle principali relazioni che intercorrono attualmente tra l’Iraq e altri attori statuali. Quindi, sulla base di queste relazioni, ho analizzato i confini dell’Iraq più significativi nell’ambito delle controversie presenti nell’area. Ho quindi esaminato sulla base delle “vie del petrolio” le reti su cui avvengono i movimenti di persone e merci. Sull’analisi delle situazioni conflittuali ho infine desunto quali possano essere gli sviluppi futuri. L’analisi è corredata da carte geografiche e tematiche, nonché da tabelle e grafici che illustrano analiticamente i temi trattati.

Ambiente esterno

La geopolitica del medioriente vede una pluralità di attori. La concentrazione di risorse energetiche, la varietà di popolazioni e gli scontri culturali hanno determinato, fra quegli attori, una fitta rete di relazioni. Su una scala regionale l’attore Stato Iraq si relaziona con gli altri stati della regione mediorientale (delimitata approssimativamente da Turchia, Iran, paesi della penisola araba, Egitto, Israele e Siria) e con le organizzazioni politiche ed economiche, come l’OPEC e la Lega Araba, a cui quegli stessi stati hanno dato vita. Su una scala globale l’Iraq si relaziona con l’occidente (intendendo l’insieme degli stati costituito dagli USA e dai loro alleati e quindi le Organizzazioni da essi costituite quali NATO e UE), nonché con altri attori importanti costituiti da Russia e Cina, soprattutto per gli aspetti legati alle relazioni, a loro volta carattere globale, che l’Iraq intrattiene con il terrorismo internazionale di matrice islamica. Alcuni stati intrattengono quindi differenti relazioni con l’Iraq a seconda del “cappello” calzato delle differenti circostanze. Si può parlare, per esempio, delle relazioni tra l’Iraq e l’Arabia, ma si può parlare anche dei rapporti tra Iraq e OPEC di cui l’Arabia fa parte. Nelle questioni attinenti all’OPEC, le relazioni che essa intrattiene con l’Iraq non possono prescindere da quelli che sono i suoi obblighi all’interno della suddetta organizzazione.

La questione centrale nell’attuale “questione irachena” riguarda il rapporto tra lo Stato Iraq e i circostanti Paesi dell’OPEC per gli equilibri geoeconomici legati al petrolio. Il terreno perduto nella gerarchia geoeconomia del petrolio, a seguito delle guerre combattute dal 1980 al 1987 con l’Iran prima e poi nel 1990 contro la cordata Americana allestita a seguito dell’invasione del Kuwait, ha relegato l’Iraq ad una posizione di secondo piano nella gerarchia dei paesi produttori di petrolio. Nonostante le infinite potenzialità che il paese possiede, la oppressiva politica interna e la aggressiva politica internazionale attuate hanno, in questi ultimi 20 anni, determinato l’adozione da parte dell’ONU di conseguenti Sanzioni. Queste hanno comportato per lo sviluppo del paese un freno stringente che attualmente nessun paese OPEC vorrebbe vedere allentato. La politica dell’Oil-for-Food, limitando le quote di greggio esportabili, ha infatti posto severi limiti alla produzione irachena e subordinato le importazioni irachene al preventivo controllo da parte del Comitato 661, il quale, sia per i timori legati al possibile dual-use (utilizzo di determinati materiali per realizzare un incremento dell’arsenale bellico mascherati con utilizzi nel campo civile) e sia evidentemente per intenti non dichiarati di “logoramento”, impedisce l’acquisizione di materiali vari necessari per le attività di mantenimento e sviluppo delle infrastrutture petrolifere. Le relazioni sono quindi improntate al timore da parte dell’OPEC che un’eventuale crescita di un Iraq affrancato dalla dittatura di Saddam si accompagni alla cessione di quote di mercato del greggio in suo favore. Questo sia che il paese rientri in gioco come membro dell’OPEC che come concorrente autonomo.

Le relazioni esterne più note, per le quali l’Iraq si trova all’onore della cronaca mediatica, sono quelle con gli USA, e, più in generale, con l’Occidente. Il regime di Saddam, considerato dall’opinione pubblica filo-americana come l’erbaccia ricresciuta dalle radici che nel 91 non si vollero estirpare, appare come il prossimo capitolo della guerra al terrorismo proclamata dal Presidente Bush. I motivi del probabile conflitto sono ancora in “via di definizione” o meglio, viste le conseguenze delicate che potrebbero generare in tutto lo scacchiere mediorientale, si è alla ricerca di argomentazioni valide assolutisticamente, indipendentemente dalle diverse ideologie, per tutto il medioriente. Si abbozzano perciò previsioni di probabili situazioni nel dopo-Saddam, che garantiscano un equilibrio geopolitico tale da convincere gli altri attori mediorientali ad un loro coinvolgimento o, almeno, ad un silenzio-assenso. Le nobili motivazioni secondo le quali il regime Iracheno sarebbe parte attiva nella multinazionale del terrorismo, alla quale contribuirebbe con la costruzione di armi di distruzione di massa offrendo anche appoggio ai terroristi palestinesi e ad elementi di Al-Qaida, nonostante provino un diretto coinvolgimento nelle stragi dell’11 settembre, non sono sufficienti, di fronte ai cinici interessi mediorientali, per giustificare un’operazione di polizia internazionale tesa a neutralizzare il dittatore iracheno. D’altra parte il rifiuto Iracheno delle condizioni imposte dalla risoluzione 1284 dell’ONU con l’impedimento delle ispezioni degli osservatori offre prova della fondatezza di quelle preoccupanti accuse.

Di conseguenza il mantenimento dello Status quo in Iraq non è accettabile dagli USA e troppo forti sono anche le pressioni delle lobby petrolifere che reclamano all’amministrazione Bush la creazione in Iraq di una solida cornice di sicurezza per rimuovere gli attuali ostacoli allo sfruttamento delle immani risorse petrolifere ivi “congelate”. È bene ricordare che i faraonici progetti di sfruttamento del petrolio dell’Alaska, non ancora esecutivi per via delle “guerre ecologiche” interne ed esterne col Canada, e la delusione rispetto alle aspettative del Caspio, indicano non ancora possibile l’indipendenza dell’economia americana e mondiale dal petrolio mediorientale.

In qualche modo connesse alla “guerra al terrorismo” sono anche le relazioni tenute dall’Iraq con l’insieme dei paesi arabi. Nel 1990, a seguito dell’invasione del Kuwait, gli USA crearono una coalizione alla quale parteciparono direttamente o indirettamente con varie tipologie di contributi anche i principali Stati Arabi. Già allora il timore di esasperare la contrarietà dell’opinione pubblica araba verso la presenza di infedeli invasori, peraltro alleati di Israele, sul sacro suolo dell’islam, fece prudentemente desistere la coalizione dalla “soluzione finale” della deposizione di Saddam, e limitò l’End State al ristabilimento delle condizioni precedenti all’invasione Irachena.

A seguito dell’emergenza costituita dall’indigenza della popolazione irachena, mediaticamente mostrata come dovuta alle sanzioni dell’ONU(quindi degli USA) e come causa della morte di 1,5 milioni di bambini iracheni, si è rafforzato il consenso verso il dittatore non solo della popolazione irachena, ma anche dell’opinione pubblica araba. Inoltre l’occupazione dei territori da parte di Sharon e le stragi di palestinesi nei campi profughi hanno indotto i paesi arabi a dichiarare di non voler partecipare ad una eventuale guerra contro l’Iraq e di esserne in più vivamente contrari.

Oltre ad una solidarietà ideologica nei confronti dell’Iraq, i paesi arabi intrattengono con l’Iraq relazioni commerciali di varia natura incentrate sull’acquisto di petrolio a condizioni estremamente vantaggiose e sui dazi derivati dal trasporto del petrolio in oleodotti realizzati sui loro territori ed afferenti al mercato del Mediterraneo.

Le relazioni col Kuwait non sono ancora state ristabilite dopo la guerra del golfo e la contesa sullo sfruttamento dei giacimenti “condivisi” è ancora aperta

I rapporti con Israele risultano determinanti nell’evolversi della questione mediorientale nel suo complesso. Il valore simbolico dello stato ebraico, come materializzazione in medioriente della prepotenza occidentale, dipinge Israele come il più accerrimo nemico. Si inquadrano in tale politica il pubblico plauso alle azioni dei kamikaze e gli aiuti profusi ai palestinesi in medicinali, scorte e premi in denaro elargiti alle famiglie degli stessi kamikaze.



Confini e Frontiere

Gli attuali confini Iracheni risalgono al 1916 quando, con gli accordi di Sykes-Picot si realizzò la spartizione dell’impero ottomano in determinate aree sulle quali le potenze occidentali avrebbero potuto insediare propri protettorati. I confini scaturiti dalle suddivisioni furono di natura esclusivamente politica e non tennero conto delle diversità etniche, religiose e ideologiche presenti nell’area. La Gran Bretagna assunse la responsabilità di Iran, Iraq, Giordania e Palestina, mentre La Francia esercitò le sue egemonie sulla Siria. Tali equilibri forzarono l’aggregazione di diverse etnie in stati non nazionali. L’elemento più significativo del quale ancora si vivono le conseguenze è stato la negazione delle aspirazioni curde ad uno stato indipendente sacrificate con la spartizione del Kurdistan, e delle sue ingenti risorse energetiche, tra quatto stati: Turchia, Siria, Iran e Iraq.

Sui confini iracheni si è assistito nel ‘900 a numerose controversie alcune delle quali sfociate in sanguinose guerre. Il confine con l’Iran corre a sud lungo il fiume Shatt al-Arab. Le rivendicazioni irachene su tale confine, stabilito nel 1975 con l’allora scià di Persia, furono una delle cause della Guerra con l’Iran. Su tale confine si incentrarono i rispettivi interessi espansionistici dei due contendenti e ne derivò una guerra che durò dal 1980 al 1987. Gli interessi iraniani, che facevano leva sull’appoggio alla minoranza sciita presente del Sud dell’Iraq, erano quelli di espandersi verso Bassora ed avere accesso alle risorse petrolifere del Sud dell’Iraq, negando a quest’ultimo l’accesso al Golfo Persico. A sua volta L’Iraq intendeva espandersi verso la regione del Khuzistan nell’Iran sud-occidentale. Le tensioni tra i due stati permangono ancora oggi per via della minoranza sciita che continua ad essere considerata una forza destabilizzante da parte del Raiss di Bagdad e perciò bersagliata dalla sua violenta repressione. I bombardamenti conto la minoranza sciita perpetrati nel 1992 determinarono la decisione da parte di USA e Gran Bretagna di istituire una No-Fly-Zone nel sud dell’Iraq a partire dall’allineamento delle città al-Rutba e al-Kut.

Un altro tratto di confine “caldo” è quello settentrionale con la Turchia. La Turchia considera infatti il possesso delle regioni attorno a Mosul e Kirkuk da parte dell’Iraq come un’”espropriazione” subita a seguito degli accordi del 1916. La regione, ricchissima di petrolio, è negli interessi di Ankara, che aspira alla costituzione di uno stato Curdo nella zona, su cui estendere la propria egemonia. Nella zona sono attivi i partiti curdi PDK (Partito democratico curdo) e UDK(Unione Patriottica Curd) che reclamano il riconoscimento di uno stato Curdo. Dopo le sanguinose stragi scatenate da parte del governo centrale iracheno nel 1988 contro la popolazione curda mediante l’uso di armi chimiche, e motivate dalla cacciata da parte delle milizie curde dell’Esercito iracheno da Halabja, , il PDK e l’UDK grazie all’intervento armato di USA e Gran Bretagna, hanno ottenuto ognuno la concessione di una considerevole autonomia in determinate aree del Kurdistan iracheno. Per scongiurare nuovi attacchi alla popolazione curda, nel 1992 venne stabilita da USA e Gran Bretagna una No-fly-zone nel nord del paese.

Sulle due no-fly-zone è vietato il volo a qualsiasi vettore iracheno ed è vietato agli iracheni anche qualunque aggancaimento di velivoli con sistemi radar.

Il confine con il Kuwait è stato l’oggetto della contesa con tale Paese nella guerra del Golfo del 1990 –1991. Confidando nell’appoggio dei paesi arabi, l’Iraq per risollevare la propria economia, in ginocchio dopo otto anni di guerra con l’Iran, invase il Kuwait nell’Agosto del 1990, con l’intento di impadronirsi delle enormi risorse e infrastrutture petrolifere del paese. A seguito del mancato appoggio dei paesi arabi e dell’operazione Desert Storm, alla quale alcuni di quegli stessi paesi parteciparono, vennero ristabiliti i confini precedenti. Le tensioni col Kuwait sono ancora vive e il timore di nuove aggressioni pone il Kuwait in prima linea nel sollecitare una futura azione americana che destituisca il dittatore iracheno.

Più tenui sembrano le questioni con Arabia, Giordania e Siria, paesi non amici ma coi quali si intrattengono importanti relazioni economiche dalle quali l’Iraq trae la propria sussistenza e che per paura di uno sconvolgimento degli equilibri mediorientali ostentano contrarietà all’intervento americano sull’Iraq.



Movimenti e reti

L’economia e gli equilibri tra le diverse componenti della popolazione irachena ruotano attorno all’industria petrolifera.

Il regime di Baghdad conscio delle difficoltà e dei pericoli alla sua stabilità provenienti dalla eterogeneità etnica, intrecciata alla concentrazione delle risorse principali nei centri più nevralgici, ha attuato a partire dal 1970, una politica di trasferimento delle popolazioni.

In particolare Saddam ha cercato di diluire l’indipendentismo curdo con il trasferimento coatto di popolazioni curde nel sud dell’Iraq e con lo spostamento di un gran numero di iracheni di origine araba verso il nord, soprattutto nell’area di Kirkuk, il principale giacimento petrolifero iracheno, al fine di sottrarlo all’influenza curda

Connessi ai movimenti dalle popolazioni risultano i movimenti dei capitali e delle esportazioni/importazioni che seguono il percorso delle vie del petrolio.

Come si è già detto i principali bacini petroliferi risultano quelli del Kurdistan e quelli di Bassora. Da questi si diparte la rete di distribuzione che attraverso gli oleodotti conduce verso i paesi nei quali si trovano i terminali petroliferi. Essa veicola la produzione petrolifera irachena necessaria per gli equilibri della Oil-for-food. Su queste vie si accentrano le esportazioni irachene. Il flusso del petrolio iracheno sugli oleodotti che attraversano i paesi è regolato da dei dazi.

Nell’economia turca l’importazione di greggio iracheno costituisce una componente fondamentale. Dall’oleodotto che da Kirkuk conduce a Ceyhan, derivano i proventi dei dazi pagati in natura ad un tasso di circa 10-15 mila bpd. Sono inoltre applicati significativi sconti, rispetto al prezzo di mercato, sulle ulteriori importazioni di petrolio iracheno che ammontano a circa 100 mila bpd. Attraverso l’oleodotto turco il petrolio iracheno giunge nel porto di Ceyhan ove viene commercializzato in occidente.

Il sistema della “moneta petrolio” è alla base anche dei rapporti con la Giordania. Infatti attraverso l’oleodotto Kirkuk-Amman-Haifa l’Iraq, con sconti significativi, vende alla Giordania 100 mila bpd riutilizzando le conseguenti entrate per l’acquisto di beni e servizi dalla stessa Giordania. Verso la Siria, nonostante vecchi rancori e nonostante costituisca violazione alle norme imposte dalle sanzioni ONU, pare vengono esportati, attraverso l’oleodotto Kirkuk – Baniyas, circa 180 mila bpd, il che, probabilmente, sta alla base dell’incremento considerevole delle esportazioni siriane di greggio.



Stess geopolitico

L’Iraq è caratterizzato da un regime di dittatoriale. Saddam Hussein ha impostato il governo del paese sul culto della persona e su un forte potere centrale al fine di tenere insieme le varie componenti eterogenee del paese e cercare di sottrarle con la forza alle tentazioni di legami con potenze esterne, che potessero far leva sulle loro rivendicazioni per estendere la loro egemonia su determinate aree dell’Iraq. Inoltre l’ambizione di far assurgere l’Iraq a paese guida del medioriente ha alimentato negli anni le mire espansionistiche di Saddam orientandole verso l’accaparramento di alcune ingenti risorse petrolifere di paesi confinanti. L’ambizione al ruolo guida in medioriente, accompagnata dalla “resistenza” all’imperialismo economico occidentale propagandata anche mediante una occulata strumentalizzazione della questione palestinese e la demonizzazione del nemico USA, ha condotto Saddam all’allestimento di arsenali di armi di distruzione di massa (sperimentate in Kurdistan nel 1988), e ad inserirsi nella rete del terrorismo internazionale.

La reazione del mondo occidentale, valutata prudentemente al termine della guerra del Golfo l’opportunità di non superare il punto culmine della vittoria militare costituito dalla liberazione del Kuwait, riconosciuto peraltro vittima di aggressione dagli stessi paesi arabi, ha abbandonato la linea d’azione militare, per indirizzare negli anni seguenti la sua strategia sull’appoggio alle minoranze ostili a Saddam e sulle sanzioni economiche, ritenendo che l’instabilità interna unita all’impoverimento del paese avrebbe condotto ad uno stress interno tale da far collassare il regime.

Ma l’effetto è stato di segno contrario. La popolazione irachena che prima della Guerra del Golfo non viveva comunque in una condizione di emergenza, ha identificato nelle sanzioni ONU e non nel suo dittatore la causa del suo stato di estremo malessere. I filtri applicati sulle importazioni irachene da parte del Comitato 661, sulla base del parametro dual-use, impediscono l’approvvigionamento di materiali necessari per le strutture sanitarie, nonché altri materiali necessari per la manutenzione e lo sviluppo di servizi vari. Gli acquedotti iracheni versano in condizioni disastrose tali da esser causa di molte malattie. Questa situazione di estrema gravità, unita ad un generale impoverimento dell’economia nazionale che ha ulteriormente abbassato il tenore di vita medio, ha condotto la popolazione a far quadrato attorno a Saddam, legittimato in modo plebiscitario (anche se ragionevolmente sussistono forti dubbi sulla loro regolarità) nelle recenti elezioni, e a rifugiarsi nel recupero delle più rigide tradizioni islamiche come collante ideologico contro l’occidente infedele.

La politica interna, dopo il culmine della centralità dello stato raggiunto prima della guerra del Golfo, vede adesso la presenza di minoranze e opposizioni politiche che esercitano un potere considerevole in determinate aree sfruttandone quindi le risorse presenti. Esse sono incapaci di costituire un congresso comune anti Saddam e peraltro non hanno un impellente interesse a realizzarlo.

Il Kurdistan vede al momento le due formazioni politiche, il PDK e l’UDK spartirsi il territorio del Kurdistan iracheno in aree ove ognuno riesce ad esercitare il potere con una notevole autonomia. L’opposizione comunista controlla la regione di Shaqlawa. La minoranza Sciita a sud è legata a Teheran e non è intenzionata a stringere legami con le formazioni curde.

Le attuali conflittualità con Baghdad sono da alcuni addirittura preferite ad eventuali nuovi ed imprevedibili scenari che potrebbero scaturire dal rovesciamento del regime di Saddam. Le forze politiche laiche come il Partito comunista iracheno, il Congresso Nazionale iracheno e il patto iracheno non vedono infatti di buon occhio eventuali ingerenze turche e iraniane nelle aree oggetto delle loro aspirazioni.

A questo scenario politico si affianca lo scenario geo-economico.

Le sanzioni ONU hanno imposto dei severi limiti alla produzione di greggio irachena. Inoltre i proventi derivati, depositati presso la Banque Nationale de Paris, vengono controllati dal Comitato 661. La difficoltà di approvvigionamento di materiali per la manutenzione delle infrastrutture petrolifere, dovuta ai parametri stringenti del dual-use, per non parlare della impossibilità di realizzarne delle nuove per compensare al calo naturale dei giacimenti esistenti, conduce al deterioramento e quindi al declino della attuale produzione dell’industria petrolifera irachena. L’esplosività della situazione politica, anche nel caso di un alleggerimento della pressione del regime delle sanzioni, renderebbe ugualmente eccessivamente rischiosi investimenti di ricerca da parte di compagnie straniere.

L’uscita di scena dalla competizione dell’Iraq a seguito delle sanzioni è stata ben gradita soprattutto dai paesi dell’OPEC. Di questi soprattutto l’Arabia Saudita (principale alleato degli USA durante la guerra del golfo) ha beneficiato dell’embargo del petrolio iracheno, con un aumento delle entrate petrolifere da 22 a 40 miliardi di dollari all’anno.

In questo contesto si inserisce la politica degli USA. La lotta al terrorismo proclamata da Bush, legittimata ancora dall’onda del consenso dopo i fatti dell’11 settembre, non può prescindere da Saddam. I suoi indiscutibili legami col terrorismo internazionale e la quasi certezza del possesso di armi di distruzione di massa individuano l’Iraq come il prossimo obiettivo. Ma diversamente da quanto avvenuto con l’Afghanistan, sostanzialmente isolato nella geopolitica del Asia centrale, l’Iraq, come si è visto, si trova al centro di interessi diversi e contrastanti, per cui la preparazione del consenso internazionale all’intervento è enormemente complicata.

È complicata per le possibili ripercussioni anti-americane che si potrebbero scatenare nelle opinioni pubbliche arabe e che andrebbero a sommarsi a quelle già scatenate dall’intervento di Sharon nei Territori, con la possibilità, neanche remota, di far vacillare i governi filo-occidentali mediorientali. È complicata per le ripercussioni che una chiusura degli oleodotti durante un’eventuale guerra potrebbe comportare per paesi come Giordania, Siria e Turchia che, come si è visto, sfruttano l’emergenza irachena per approvvigionamenti di petrolio a basso costo.

E complicata ancora in quanto il mercato internazionale del petrolio, al momento, presenta un certo equilibrio nelle quote assegnate ai vari paesi produttori. Il ritorno sulla scena di un gigante petrolifero Iraq sconvolgerebbe tale equilibrio.

Tale situazione giustifica l’esitazione americana a condurre un’azione militare risolutiva simile a quella condotta in Afghanistan, vista anche la difficoltà di individuare una fazione leader o una coalizione interna che, similmente all’Alleanza del Nord, sia disposta a votarsi al sacrificio per fare da apripista all’avanzata americana.



Possibile scenario futuro

La soluzione della questione irachena non appare di facile individuazione. Allo stesso tempo neanche il mantenimento della attuale situazione potrà essere tollerato a lungo. Il viaggio condotto nel marzo scorso dal Vicepresidente americano Dick Cheney tra le capitali arabe per raccogliere consensi ad un eventuale (allora sembrava imminente) azione americana in Iraq non ha sortito i risultati attesi. Egli ha infatti raccolto un generale dissenso e una disponibilità ad intavolare trattative solo non prima della risoluzione della questione palestinese.

Le soluzioni attuabili a questo punto da parte americana appaiono le seguenti: - un’azione militare simile a quella intrapresa in Afghanistan con la creazione di una coalizione aperta, oltre che alla Gran Gretagna, a Turchia e Kuwait, con eventuale partecipazione di forze europee. Tale azione che richiederebbe comunque il silenzio-assenso da parte dei paesi arabi punterebbe ad insediare un regime militare di transizione per condurre alla riorganizzazione dell’Iraq in chiave filo-americana. Per giungere a tale obiettivo la diplomazia americana è al lavoro per convincere i due partiti curdi rivali ad unirsi alla coalizione e costituire la prima linea dell’avanzata verso Baghdad. In cambio otterrebbero l’istituzione di uno stato curdo nel nord dell’Iraq esteso fino al bacino petrolifero di Kirkuk. Tale prospettiva convincerebbe Ankara a vincere le sue indecisioni e partecipare all’operazione con la prospettiva allettante di ottenere un proprio protettorato sul Kurdistan e quindi l’incameramento, nella sua economia interna, di quelle risorse petrolifere che adesso vengono importate nella misura dell’80%. - Lo stesso End-State potrebbe essere raggiunto con un movimento popolare che, conducendo al collasso il regime, renda necessaria la presa del potere da parte dei militari, i quali assumerebbero il controllo della situazione preparando il terreno ad un governo filo-occidentale. Ma come si è visto la soluzione appare improbabile vista l’eterogeneità delle opposizioni al regime di Saddam in termini di obiettivi, etnia, ideologia e forze esterne alle quali si appoggiano. A ciò si aggiunga inoltre la non disponibilità di ognuna di esse a perdere quel seppur limitato potere del quale godono attualmente nelle rispettive aree di influenza nel caso in cui non dovessero riuscire ad assurgere come leader della rivolta. - Un colpo di stato che parta dall’interno dell’attuale regime e che destituisca Saddam Hussein operando un radicale cambiamento nella politica irachena e ristabilendo amichevoli relazioni con i paesi arabi e con l’occidente. Questo non darebbe comunque delle risposte certe alla opposizione anti-Saddam, anche perché non si intravede al momento quale possa essere la figura adatta alla sostituzione di Saddam e neanche quali possano essere le sue mosse politiche una volta insediato Tutte le soluzioni prefigurano possibili squilibri che la regia degli USA dovrà sapientemente gestire e minimizzare in un livello di accettabilità. E presumibile comunque che alla fine si giungerà alla soluzione costituita da un’altra Desert Storm sulla base di accordi che offrano agli stati arabi adeguate contropartite di varia natura. ** ^^ ** fig.1 Carta politica dell’Iraq Superficie: 435.168 Km² Abitanti: 22.219.000 Densità: 51 ab/Km² Forma di governo: Repubblica democratica popolare Capitale: Baghdad (4.365.000 ab.) Altre città: Arbil 1.745.000 ab., Mosul 879.000 ab., Bassora 600.000 ab., Kirkuk 250.000 ab. Gruppi etnici: Arabi 80%, Curdi 15%, Turchi 2% Paesi confinanti: Turchia a NORD, Siria e Giordania ad OVEST, Arabia Saudita e Kuwait a SUD, Iran ad EST Monti principali: Keli Haji Ibrahim 3600 m Fiumi principali: Tigri 1450 Km (tratto iracheno, totale 1950 Km), Eufrate 1100 Km (tratto iracheno, totale 2760 Km) Laghi principali: Hawr al Hammar 1950 Km², Buhayrat ath Tharthar 1500 Km², Bahr al Milh 1000 Km² Isole principali: - Clima: Continentale Lingua: Arabo (ufficiale), Curdo, Turco Religione: Musulmana sciita 60%, Musulmana sunnita 35%, Cristiana 5% Moneta: Dinar iracheno

Bibliografia:

- Geopolitica e sviluppo sostenibile. Il Sistema Mondo del XXI secolo. Alberto Vallenga. Mursia 1994

- LIMES – Guerra Santa in terra santa – Gruppo editoriale l’Espresso – 2/2002

- Lezioni del 4° modulo del 3°Corso Pluritematico

Un paese martoriato dalla dittatura – www.grandinotizie.it

Dr. Franco CULEDDU

 

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