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TRA IL 1814 E IL 1815 EUROPA IMPONE A FREANCIA SEVERA CURA DIMAGRANTE

      

   

Foreign Affairs

 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

Articolo di ricerca di:

Massimo Iacopi


Un passaggio importante i cui effetti influenzano tuttora i rapporti tra Francia ed Europa

 

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DIPARTIMENTI PERSI DALLA FRANCIA DOPO NAPOLEONE


La Storia secondo Massimo Iacopi

TRA IL 1814 E IL 1815 EUROPA IMPONE A FREANCIA SEVERA CURA DIMAGRANTE

Un passaggio importante i cui effetti influenzano tuttora i rapporti tra Francia ed Europa

(Bardonecchia, 15/08/2015)

TRA IL 1814 E IL 1815 L’EUROPA IMPONE UNA SEVERA CURA DIMAGRANTE ALLA FRANCIA

Il 30 maggio 1814 i Trattati di Parigi del 1814 e del 1815 riportano la Francia all’interno delle frontiere del 1792 e del 1790. Con la fine della nazione imperiale l’Assemblea Nazionale di Parigi é costretta a ridefinire che cosa è la nuova Francia e chi sono i Francesi.

Il 6 aprile 1814, con l’abdicazione di Napoleone Bonaparte (1769-1821), i Francesi vengono a ritrovarsi senza imperatore, ma con il 1° Trattato di Parigi, firmato il 30 maggio seguente, essi perdono anche il loro impero. Il Trattato, firmato con ciascuna delle potenze belligeranti, consacra effettivamente la cessione-restituzione di ben 44 dipartimenti, creati dalla Francia dal 1792 al 1812, che si estendevano da Roma ad Amburgo per un totale di 13 milioni di abitanti, a loro volta, distribuiti su territori già appartenenti a Spagna, Italia, Svizzera, Belgio, Germania, Lussemburgo ed Olanda.

Se il trattato non vieta agli ex sudditi francesi di continuare a rimanere Francesi, i deputati dell’assemblea francese, attraverso la legge 14 ottobre 1814, impongono, a tal fine, la clausola di 10 anni di residenza nella Francia dell’interno, o per diventare di nuovo Francesi la stessa durata di residenza nei territori rimasti francesi. Le popolazioni, di fronte a questa complicazione, decidono di non servirsi di questa norma (articolo 17) che, ai loro occhi, non è altro che una clausola di stile diplomatico, estranea al diritto dei popoli a disporre di sé stessi, che sottintende, peraltro, un semplice cambiamento di “padrone”. L’Assemblea francese, rifiutando di prendere atto degli effetti di 20 anni di espansione territoriale, mette una pietra tombale sull’esperienza imperiale napoleonica. Del resto, si tratta solamente di sancire, con un ordine giuridico, uno stato di fatto militare, consumatosi a Lipsia, a seguito della campagna di Germania il 19 ottobre 1813. L’Impero napoleonico è crollato come un castello di carte nel corso delle settimane seguenti. Alla scomparsa del Ducato di Varsavia ed a quella delle Province Illiriche, si sono aggiunte, a quel punto, l’evacuazione della Westphalia del re Girolamo Bonaparte (1784-1860) e l’occupazione russa di Dusseldorf, capitale del Granducato di Berg. La dissoluzione della Confederazione del Reno (1), il 4 novembre 1813, prende atto della fine del protettorato francese sulla Germania. Il riconoscimento di re Ferdinando 7° di Borbone (1784-1833) come sovrano di una Spagna, confermata nelle sue frontiere del 1808, comporta, l’11 dicembre seguente, l’evaporazione dello stato “afrancesado” del re Giuseppe Bonaparte (1768-1844) (2). Dalla parte della Svizzera, la Confederazione Elvetica, di cui Napoleone era il mediatore, si apre ai Coalizzati il 20 dicembre, mentre viene occupato, il 24 dello stesso mese, il Principato di Neuchatel del maresciallo Berthier. Nella penisola italiana, la defezione di re Gioacchino Murat (1767-1815) (3) comporta, non solo il mantenimento del suo regno di Napoli, ma anche una minaccia sui dipartimenti romani e toscani. Agli inizi del 1814, alla Francia rimane come alleato solamente il Regno d’Italia, con capitale Milano.

Una evacuazione ordinata

Quando si parla di stati satelliti o di corone vassalle, con queste categorie vengono designati quei territori tributari, indubbiamente cruciali per il sistema napoleonico, ma comunque rimasti al di fuori della Francia. Per effetto dei loro legami con i principi Bonaparte, molti Francesi vi ricoprono delle cariche, ma con una certa reticenza. In effetti, essi erano stati fortemente invitati, nel 1811, ad adottare la nazionalità delle loro nuove patrie. In ogni caso, l’avvenire di questi paesi viene affidato alle decisioni del Congresso di Vienna (settembre 1814-giugno 1815). Stabilito, come sopra evidenziato fin dal 30 maggio 1814, l’abbandono dei 44 dipartimenti francesi assume tutto un altro significato. Non si tratta, in questo caso, unicamente di trarre le conseguenze della caduta di Napoleone, liquidando le sue conquiste, poiché con questo provvedimento la Francia perde anche i territori del Belgio, la cui annessione risultava 4 anni precedente al colpo di stato napoleonico del 18 brumaio (4). Ecco dunque il motivo per il quale l’imperatore si era ostinato a rifiutare qualsiasi pace che avrebbe sacrificato il porto di Anversa e la frontiera sul Reno: altrimenti come ci sarebbe potuti mantenere in un paese ridotto, e porsi come garante delle acquisizioni della rivoluzione, dopo essere stato incapace di difendere una delle sue conquiste ? Ma poiché le armi hanno ormai dato il loro verdetto, spetta ai sovrani vincitori alleati il compito di decidere: la Francia non solo ritrova un Borbone sul trono, ma rientra anche nelle sue frontiere del 1° gennaio 1792, prima della Rivoluzione, pur avendo inglobato le enclave del contado Venassino e di Avignone (ex dipendenza dello Stato della Chiesa), di Moulouse e di Montbeliard ed una larga parte della Savoia. Al di fuori di tali frontiere, a parte le piazzeforti francesi dal 17° secolo (Philippeville, Meriemburg, Sarrelouis e Landau) e qualche cantone dei dipartimenti di Jemappes, della Sambre, della Mosa e della Sarre, tutto il resto risulta ormai perduto. Inoltre, i nativi della vecchia Francia dovranno cessare da tutte le funzioni pubbliche occupate all’estero. Ma questa “sfrancesizzazione” del personale non maschererà, sotto altro nome, il mantenimento delle istituzioni francesi. Di fatto, in special modo nella politica interna, piuttosto che in quello che riguarda la politica estera, risulta praticamente impossibile annullare gli effetti della Rivoluzione e dell’Impero. Quale statuto accordare ai popoli “fratelli” dei dipartimenti “riuniti”, che sono stati accolti sotto il direttorio ed il consolato ? Come considerare questi uomini che per tre, sei o 18 anni sono stati contribuenti, coscritti e cittadini francesi a pieno diritto ? Indubbiamente, le popolazioni insorte dell’Olanda e delle città anseatiche hanno chiaramente manifestato il loro rigetto nei confronti di questi legami imposti, nel loro caso specifico, dal blocco continentale contro all’Inghilterra a partire dal 1806. La stessa considerazione vale, su scala ridotta, per la rivolta dei giovani fiamminghi del Dipartimento della Lys o di quelli della Toscana e della Liguria. Ovunque, altrove, nonostante il crollo dello spirito pubblico, l’ordine francese è stato più o meno rispettato fino al momento dell’evacuazione. La rivolta, nel Piemonte ed in un cinquantina di località, fra le quali Anversa, Barcellona, Genova, Amburgo o Mayence, si verificherà solo dopo la Convenzione del 23 aprile 1814 e risulterà quindi posteriore all’abdicazione di Napoleone.

La paura degli immigrati poveri

I deputati francesi, non potendo più assumere decisioni, come in precedenza, sul destino dei popoli, sono costretti, invece, ad interessarsi della sorte degli individui, in occasione delle sedute del 28 e 29 settembre 1814, che sfoceranno sulla votazione della legge del 14 ottobre dello stesso anno. Si assiste, a quel punto, al risveglio di dibattiti, tipici dei tempi della Convenzione o del Direttorio, quando si affrontavano due idee universali e dove, facendo trionfare l’idea dello Stato-nazione, i rappresentanti del popolo francese hanno posto le basi di uno Stato-impero. Sotto la Restaurazione, i loro successori sono costretti a stabilire l’interpretazione di questo fatto compiuto sul campo, vale a dire a ridefinire che cosa è la Francia e che cosa sono i Francesi. Quella che viene proposta alla votazione del 14 ottobre 1814 è una concezione ristretta della nazionalità. Per rimanere cittadino francese, occorre dimostrare 10 anni di residenza nella Francia dell’interno. La paura di un afflusso di immigrati poveri spinge allora ad imporre alla loro eventuale “rinaturalizzazione” delle condizioni talmente restrittive, che potrà rispondere a questi requisiti solo una ristretta cerchia di individui (ad esempio, 140 magistrati belgi), già inseriti nei circuiti commerciali o istituzionali del paese; in definitiva, prevale l’interesse, ben compreso da tutti, di una immigrazione selettiva di manifatturieri o di persone, diciamo “utili”. Per contro, la porta resta ben chiusa sulla faccia dei rivoluzionari di Liegi, dei clubisti di Magonza (Mayence) o dei giacobini. La stessa cosa vale per i veterani bonapartisti, che potrebbero aspirare, ed a buon diritto, ad una pensione militare, o anche solo ad una mezzo paga (demi solde). Al di là delle preoccupazioni a breve termine, quello che è in gioco è certamente l’identità di un intero paese, fra nazione, regno ed impero: gli uni, di sensibilità tradizionalista, riducono il momento espansionista ad un episodio senza domani, che non deve toccare un corpo nazionale già consolidato, gli altri – quelli che daranno vita alla spinta patriottica – inscrivono, al contrario, lo stesso momento in una dinamica storica spezzata dal caso delle armi e vorrebbero che siano riconosciuti i servizi resi nel contesto di una storia condivisa. Alcuni deputati distinguono le popolazioni incorporate sulla base del solo diritto di conquista da quelle la cui riunione è stata l’oggetto di un voto, oppure è stata avallata (si fa per dire !) dai loro vecchi sovrani (Nizza, Savoia, Belgio, Renania e Liguria). All’inverso, partendo dal principio che la libertà costituisce la conditio sine qua non della formazione di un corpo politico, il deputato Gustave Fornier de Saint Lary (1796-1870) punta l’indice sui condizionamenti militari che hanno pesato e pesano sugli abitanti dei territori annessi; questa violenza originale annulla il valore dei plebisciti e tutti gli altri segni di integrazione. Egli mette in guardia contro le conseguenze di una eventuale eccessiva “larghezza di vedute” “della quale ne risulterebbe spaventato anche il cosmopolitismo più ardente”. Il deputato Joseph Vincent Dumolard (Isere 1766-1819) replica, evocando lo spettro della decomposizione nazionale, perché anche lo stesso vecchio regno di Francia risulta costituito da provincie anch’esse acquisite o conquistate.: “Io non vedo proprio dove si andrebbe a finire con un tale sistema; avrei dei dubbi se i Fiamminghi, i Lorenesi, gli Alsaziani non si sentissero Francesi”. All’annuncio della Pace di Luneville, il 9 febbraio 1801, lo stesso Bonaparte, in risposta alle felicitazioni del Corpo Legislativo, aveva fatto risalire al Trattato di Campoformido (1797) il momento in cui “i Belgi erano ormai Francesi, come lo sono i Normanni, quelli della Linguadoca ed i Borgognoni“ ! Tuttavia, in una assemblea composta di deputati nominati sotto l’Impero, si impone una concezione ristretta, sanzionando, in tal modo, l’esame di coscienza collettivo iniziato con il “dello spirito di conquista” di Benjamin Constant (1767-1830). L’espansione repubblicana e napoleonica rappresenta, pertanto, una deviazione rispetto alla via storica, per meglio dire monarchica, della costruzione del paese: poiché sono stati i re che hanno fatto la Francia, sono francesi solo i popoli che lo sono diventati sotto un re … . Per contrasto, l’impresa imperiale è stata una “bizzarra e gigantesca riunione che, certamente non poteva essere di lunga durata”, per usare le affermazioni del deputato Joseph Pemartin (Oloron 1754-1842). Succede pertanto quello che doveva succedere: “Ogni popolo riprenda la sua precedente esistenza !”. Tutta una discendenza di storici, specialmente in occasione del Trattato di Versailles, all’indomani della Grande Guerra, ha messo in evidenza le tracce lasciate dalla Francia nei territori perduti nel 1814-1815 (il secondo Trattato di Parigi del 20 novembre 1815, dopo Waterloo, aggrava il primo trattato con il ritorno alle frontiere del 1790) e la vulnerabilità di un paese privato dei suoi limiti, cosiddetti naturali, a cominciare dalla frontiera sul Reno. Ci sarà, tuttavia, un’altra storia da scrivere o piuttosto una memoria da ritrovare che, abbandonando il prisma politico (chauvinismo, patriottismo, imperialismo), si sarebbe interessata a processi, in termini di appropriazione, di circolazione e di ricordo. Tutto questo prima che le province perdute nel 1871 non contribuiscano a far definitivamente dimenticare i dipartimenti perduti nel 1814 e prima che il completamento repubblicano dello stato nazione non respinga l’esperienza alternativa di uno stato-impero. In realtà, tale ricordo era stato conservato specialmente dai funzionari rimpatriati e dai legami amichevoli che ne erano nati, oltre che dalle abitudini assunte durante l’epoca napoleonica.

NOTE

(1) Costituita nel 1806, la Confederazione del Reno è composta agli inizi da 16 Stati tedeschi, poi diventati 35 Stati;

(2) I Francesi stabilitisi in Spagna nel 1808 con il fratello di Napoleone, Giuseppe come re, hanno dovuto fare fronte ad un movimento accanito di guerriglia coniugato con una guerra contro le truppe anglo-spagnole. Quest’ultime scacceranno definitivamente i Francesi nell’estate del 1813;

(3) Re di Napoli dal 1808, Murat decide nel novembre 1813 di schierarsi con il campo alleato, evento formalizzato dalla firma di un trattato di alleanza con l’Austria dell’8 gennaio 1814, pur giocando per proprio conto un doppio gioco e quello dell’unità italiana;

(4) Si tratta di 8 dipartimenti derivati dai Paesi Bassi austriaci e del principato di Liegi, annessi nel 1795, dopo la sconfitta austriaca di Fleurus (26 giugno 1794).


Massimo Iacopi

 

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