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STORIA DELLE PROFESSIONI. L’ARCHITETTURA SENTITA COME AFFARE DI STATO

      

   

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 Registrazione Tribunale di Rieti n. 5 del 07/11/2002

 

 

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Massimo Iacopi


Evoluzione ed affermazione della figura dell’architetto italiano nelle corti del Rinascimento

 

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MICHELOZZO DI FRA' ANGELICO


Una Ricerca di Massimo Iacopi

STORIA DELLE PROFESSIONI. L’ARCHITETTURA SENTITA COME AFFARE DI STATO

Evoluzione ed affermazione della figura dell’architetto italiano nelle corti del Rinascimento

(Assisi, 28/02/2017)

Gli architetti italiani del Rinascimento hanno cercato di servire la gloria dei principi. Diventati artisti di corte, essi hanno inventato una nuova forma d’arte, ideale, in cui i talenti del pittore e del disegnatore fanno a gara con quelli dell’ingegnere e dell’urbanista.

Le cattedrali gotiche sono state ammirate per lungo tempo come delle opere anonime e collettive. Niente di tutto questo quando si entra a S. Pietro a Roma. Vi trionfa l’affermazione orgogliosa della gloria dell’architetto: il segno dell’individualismo creatore di Donato di Angelo di Pascuccio detto il Bramante (1444-1514), di Antonio Giamberti da Sangallo il Vecchio (1445-1534) o di Michelangelo Buonarroti (1475-1564). Gli ultimi secoli del Medioevo si caratterizzano, in effetti, per l’esaltazione dell’architettura e l’emancipazione dell’architetto. Non perché quest’ultimo non abbia potuto avere, a partire dal 13° secolo, una certa coscienza del suo valore. Ma se l’architetto era famoso, esso lo era spesso nel contesto della corporazione dei tagliatori di pietre. In tale contesto, esso veniva ricondotto verso la condizione degradata delle “arti meccaniche”, per contrapposizione, nella filosofia dell’epoca, alle “arti liberali” che conferiscono nobiltà e libertà.

Io non so perché le arti che hanno i legami più stretti con le arti liberali - la pittura, la scultura in pietra ed in bronzo e l’architettura - erano cadute in un declino così lungo e così profondo” si interroga con una falsa ingenuità il grande umanista (1) Lorenzo Valla (1407-1457), uno degli “inventori” dell’idea di Rinascimento (2). Al di là dell’oscuro periodo gotico, il Rinascimento doveva restituire dignità e grandezza alla pittura, alla scultura ed all’architettura, riunite in una triade delle belle arti che trova la sua unità nell’uso del disegno. Ma l’architettura vi occupa un posto di rilievo, come arte totale, utile a tutti, non si dice infatti di Dio come il “Grande Architetto” ?

Riferendosi all’Antichità (durante la quale, in realtà, le arti visuali non hanno mai potuto accedere al rango di arti liberali (3)), gli umanisti desiderano restaurare il prestigio dell’architetto, del quale essi credono leggere la giustificazione in Platone. Anche in questo campo, il Rinascimento finge di non essere altro che un ritorno alle origini, mentre invece inventa del nuovo. Chiese, palazzi, monumenti pubblici: l’Italia del Quattrocento (4), conquistata da questa “febbre del costruire” di cui si meravigliano i contemporanei, diventa il laboratorio di numerose innovazioni architettoniche.

La storia dell’architettura italiana nella prima metà del 15° secolo ha da molto tempo incontrato il suo eroe nella persona di Filippo Brunelleschi (1377-1446): orafo, scultore, questo ingegnere erudito, si è fatto conoscere prima di tutto a Firenze come architetto (egli disegna nel 1419 i piani dell’Ospedale degli Innocenti), quindi come realizzatore e regista per l’impiego di grandi macchine teatrali per le feste civiche e religiose. Ma egli resta soprattutto come l’uomo che ha saputo raccogliere una straordinaria sfida tecnica.

Dal 1367, in effetti, la Fabbrica del Duomo di Firenze (composta da magistrati comunali in carica, con l’arcivescovo, per la gestione della costruzione della cattedrale) aveva deciso di coprire la Chiesa di S. Maria del Fiore con una gigantesca cupola. Il progetto era tanto politico quanto artistico: coronando la cattedrale con una vasta cupola, si poteva manifestare la crescita di potenza di Firenze, orgoglioso comune alla conquista di un territorio. Sul piano tecnico, l’idea era in anticipo sui tempi. Tuttavia, i responsabili erano fiduciosi nel genio creatore dell’uomo e ritenevano l’artista capace di un tale prodigio. Come issare, sul tamburo di cui si era ultimata la costruzione nel 1418, una cupola del diametro di 41 metri e di un peso stimato di 29 mila tonnellate ? Come realizzare, senza archi di sostegno le volte di una cupola che, senza pesare troppo sull’edificio, doveva svilupparsi verso l’alto attraverso la sola tensione del suo profilo ogivale ?

Nel corso degli anni 1420, Brunelleschi impone gradualmente le sue soluzioni tecniche, prima di assumere l’intera responsabilità della costruzione nel 1426. Dieci anni più tardi, il papa Eugenio 4° (Gabriele Condulmer, 1383-1447) consacra solennemente l’immensa cupola, che si staglia subito allo sguardo dei Fiorentini come un monumento protettore ed il simbolo della loro supremazia.

Brunelleschi aveva saputo dominare metodicamente tutti i problemi tecnici per mezzo di altrettante invenzioni rivoluzionarie sulle quali la Fabbrica del Duomo gli riconosce, peraltro, una forma di “proprietà intellettuale”. Queste macchine o questi procedimenti venivano adattati a ciascuna fase del cantiere: armature amovibili per rispettare l’inclinazione degli 8 lembi (spicchi) della cupola, mano a mano che cresce la costruzione con la posa dei mattoni, una grande gru a contrappeso per sollevare i carichi, un argano reversibile a tre velocità mosso da un paio di buoi: 50 anni più tardi gli ingegneri italiani - fra i quali nel 1469 Leonardo da Vinci (1452-1519), allora a soli 17 anni - ricopieranno ancora ammirati le invenzioni di Brunelleschi.

Rimaneva all’architetto a tradurre questa vittoria intellettuale in un successo personale. In effetti, al figlio di notaio, sicuro delle sue capacità e della sua cultura umanista, ripugnava di piegarsi alle regole corporative, caratteristiche del mondo artigianale. Nel 1434, a cupola praticamente terminata, egli si sente abbastanza forte per rifiutare di pagare la sua quota all’Arte dei Tagliatori di Pietra, fatto che gli costerà, il 20 agosto 1434 di andare in prigione. E’ evidente che in questo caso l’architetto è prigioniero delle contraddizioni del suo tempo. Nella Firenze dei Medici (come nella Roma repubblicana, alla quale essa fa espresso riferimento), l’opera può essere ammirata ed il suo autore può essere abbassato.

 

La magnificenza

Il caso Brunelleschi é apparso esemplare a Leon Battista Alberti (1404-72), umanista, moralista ed architetto, teorico del potere politico che, in questo stesso anno, 1434, intraprende la redazione del suo trattato Della Pittura. Alberti dedica la sua opera all’architetto e lo presenta come l’inventore della costruzione prospettica. In effetti questa, prima di servire al pittore, è primariamente lo strumento dell’architetto: gli consente di mettere sul piano le linee di un edificio posto in un certo luogo. Con la prospettiva, l’architettura diventa una scienza globale dello spazio, considerata come una struttura matematica intelligibile e misurabile: fondata sulle “verità eterne della geometria”, l’architettura si disimpegna dalle attività meccaniche e l’architetto cessa di essere definitivamente un artigiano.

Ci sono state due edizioni del Della Pittura dell’Alberti nel 1436. La prima, in lingua volgare, era destinata a sostenere la causa dell’architetto nella società urbana fiorentina. La seconda, in latino, era indirizzata al mondo delle corti principesche. Alberti la dedica a Gian Francesco Gonzaga (1395-1444), marchese di Mantova, richiedendogli l’onore di entrare al suo servizio. Una cosa abbastanza strana: perché Alberti e dopo di lui tanti altri Fiorentini, sentirono il desiderio di lasciare la loro città, che gli umanisti della corte di Lorenzo il Magnifico (1449-1492) avevano elevato al rango di “nuova Atene” ? Perché allontanarsi da S. Maria del Fiore, come scrive l’Alberti, “al di sopra dei cieli ed ampia da coprire con la sua ombra tutto il popolo toscano” ? Che cosa andavano a cercare gli architetti ad Urbino (che dopo tutto nel 15° secolo era appena una piccola città di 5 mila abitanti), a Ferrara o a Mantova, città umida dalle strade fangose che il seguito del papa Pio 2° abbandona dopo la sua visita solenne del 1459-60, affievolito dalle febbri ?

Insomma che cosa andavano a cercare  ? Essi andavano semplicemente a cercare la gloria e la magnificenza (5) dei principi. In effetti, in questi piccoli Stati dell’Italia del nord, i signori aspiravano ad esaltare il loro ancora fragile potere attraverso delle grandiose realizzazioni architettoniche. I Montefeltro a Urbino, i Gonzaga a Mantova, i Malatesta a Rimini, gli Este a Ferrara soffrivano in effetti di una carenza di legittimità. Essi non erano altro che antichi condottieri (6), capi di truppe mercenarie, i cui principati non erano in fondo che la ricompensa per i servizi prestati. In tale contesto, essi dovevano esprimere una politica di splendore per potersi affermare davanti ai re ed i grandi principi, dei quali essi desideravano essere alla pari, ma dei quali essi erano stati dei semplici impiegati.

Questi signori, quali quelli della generazione di Federico da Montefeltro (1420-82) a Urbino, di Sigismondo Malatesta (1417-68) a Rimini o di Borso d’Este (1415-71) a Ferrara, facevano di tutto per consolidare la loro immagine di sovrani saggi, umanisti ed eruditi. L’idea di magnificenza si prestava a pennello alle loro esigenze ed essi se ne fanno presto dei campioni. Costruendo palazzi, il principe vuole apparire forte e minaccioso; fondando chiese vuole sembrare pio e rispettoso; finanziando dei monumenti pubblici vuol farsi vedere come saggio governante e difensore della memoria civica.

La magnificenza, che è quasi una etica delle spese, si scontrava a Firenze con i “pudori repubblicani” dei suoi dirigenti. I Medici, questi signori che non volevano apparire come tali, avevano infatti rifiutato un grandioso progetto del Brunelleschi, pensando che sarebbe stato troppo arrogante per i Fiorentini. Nel 1444, Cosimo il Vecchio de’ Medici (1389-1464) affida all’architetto Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi (1396-1472) la costruzione del palazzo di Via Larga (oggi Palazzo Medici-Riccardi), che diventerà il modello dei palazzi patrizi della Toscana. Michelozzo, amico di Donato di Nicolò di Betto Bardi detto Donatello (1386-1466), realizza numerose opere a richiesta dei Medici (in special modo il chiostro ed il Convento di S. Marco) ed è stato, per questi potenti mecenati, l’architetto delle sintesi fiorentine, adattando le innovazioni del Brunelleschi alle attese dei notabili toscani.

 

La novità

Si potrebbero moltiplicare gli esempi per mostrare come i principi italiani sono, più degli altri, i difensori appassionati delle avanguardie in materia artistica. E’ per loro che Alberti prosegue le sue ricerche formali. A Rimini nel 1450 (al suo primo incarico di architetto), egli costruisce per Sigismondo Malatesta una chiesa che i posteri denomineranno più giustamente come Tempio Malatestiano: ispirandosi al modello del Michelozzo a Santa Annunziata (una navata molto sobria che sbocca a guisa di coro su un edificio rotondo, replica del tempio antico di Minerva Medica a Roma), Alberti fa di questa chiesa un capolavoro dell’architettura principesca. Giocando sull’alternanza di pieni e vuoti egli apre la navata con delle cappelle inquadrate da grandi arcate e proietta una facciata (rimasta incompiuta) che avrebbe dovuto essere la ricostituzione di un antico arco di trionfo.

La stessa libertà di creazione, specialmente nella scelta dei materiali preziosi e nel recupero di elementi architettonici antichi, si esprime nella chiesa di S. Sebastiano di Mantova, che Alberti disegna per Ludovico Gonzaga (1412-1478). Il monumento sorprende a tal punto che il figlio del suo committente il cardinale Francesco Gonzaga (1444-1483), ammette nel 1478 di non sapere “se questa costruzione secondo il gusto antico, dovuta al genio fantastico di messer Alberti, rappresenta una chiesa, una moschea o una sinagoga”.

Sorprende per la novità e lo straordinario e questi sembrano essere i caratteri principali dell’arte di corte. Ma quello che cercano gli architetti nelle corti principesche non è solamente l’occasione per “fare della grandi cose”, come lo scriverà nel 16° secolo Giorgio Vasari (1511-1574), ma anche ottenere la posizione sociale che le città loro rifiuta. Attraverso il servizio del principe, l’architetto conquista la sua dignità intellettuale e la sua autonomia sociale.

Basti leggere la lettera patente che Federico Montefeltro concede nel 1468 all’architetto Luciano Laurana (1420-1479). Questi viene incaricato, con delle prerogative molto ampie, di coordinare i lavori del palazzo d’Urbino, magnifica dimora principesca a dominio della città con la sua altera mole, che il duca trasforma in una specie di città ideale in miniatura. La lettera di nomina sembra quasi un manifesto: “Bisogna onorare ed incoraggiare determinati uomini che si distinguono per il loro spirito e le loro virtù, soprattutto se si tratta di quella che gli antichi ed i moderni hanno così onorato, la virtù dell’architettura, che è fondata sull’aritmetica e la geometria, che fanno parte delle sette arti liberali”. Non si potrebbero meglio esprimere più chiaramente le rivendicazioni morali ed intellettuali dell’architetto, di cui il principe si fa difensore ardente ed ... interessato.

Interessato, poiché è evidente che il principe ha tutto da guadagnare da questa esaltazione dell’architetto. In primo luogo, perché egli vi incontra il maestro d’opera dei suoi desideri: gli architetti non hanno mai smesso, per tutto il quattrocento, di migliorare e affinare il contesto della vita principesca. Alla fine del 15° secolo, la villa di Poggio Reale presso Napoli, che Giuliano Giamberti da Sangallo (1455-1516) aveva disegnato per Alfonso, duca di Calabria (1448-1495), suscita le meraviglie; il re di Francia, Carlo 8° di Valois (1470-98), facendovi una sosta nella sua marcia verso Napoli, si chiede, in una famosa lettera, se forse non si trattasse di un angolo del Paradiso Terrestre.

Ma il paradiso che l’architetto apre per il principe è anche di natura politica. Basta per convincersene di leggere il Trattato di Architettura che, Antonio di Pietro Averlino detto il Filarete (1400-1469), architetto fiorentino passato al servizio del duca di Milano, Francesco Sforza (1401-1466), scrive per il suo protettore.

 

L’ascensione sociale

Il Trattato del Filarete, testo sconcertante ed entusiasta, è allo stesso tempo una difesa ed illustrazione dell’architettura dotta ed un’opera da cortigiano, destinata al divertimento del principe. Nel corso del dialogo fra il principe e l’architetto, si seguono le tappe della costruzione di una città fantastica, la Sforzinda, decoro ideale di un potere ideale. La promozione dell’architetto spalleggia la glorificazione del principe e la città ideale sembra nascere dal dialogo amoroso fra l’arte di costruire ed il potere: “Costruire non è altro che provare un piacere voluttuoso, come potrebbe provarne un uomo innamorato; chi ne ha fatto l’esperienza sa che c’é nell’atto del costruire una tale quantità di piacere e di desiderio che per quanto un uomo ne possa fare, egli vorrà sempre farne di più”. Il committente è il padre dell’edificio - egli lo desidera lo concepisce e gli dà la vita - mentre l’architetto che lo porta, lo mette al mondo, lo cura e lo ama, ne è la madre. Questa analogia consente di fondare la metafora dell’edificio come corpo, così caratteristico dell’architettura dell’umanesimo: le proporzioni architettoniche, da Alberti a Leonardo da Vinci, si deducono da quelle del corpo dell’uomo, misura di tutte le cose.

Filerete, scrivendo il suo trattato, vi trova anche una rivincita ideologica su tutti quei “vili muratori” lombardi che hanno osato, nei cantieri milanesi, contrariare i suoi progetti e quelli del suo protettore. Il fatto supera il semplice rancore personale: le ricerche storiche hanno mostrato che i principi tentavano di promuovere, attraverso i loro grandi cantieri, una economia della costruzione, affrancandosi dalle regole delle corporazioni dei mestieri.

In questo progetto politico (ed economico: non va dimenticato che la costruzione rimane per lungo tempo la prima industria del Medioevo), il principe e l’architetto sono oggettivamente degli alleati. L’uno e l’altro hanno interesse ad aggirare la pesantezza delle corporazioni e l’architetto, liberato dai vincoli artigianali dalla sua posizione di artista di corte, riesce meglio ad imporre nel cantiere le esigenze del suo protettore.

Ecco qui un aspetto comune dei sistemi politici della fine del Medioevo: il servizio del principe rappresenta la spinta principale per l’ascensione sociale. Ecco perché l’architetto cerca di integrarsi alla famiglia del suo protettore, vale a dire alla famiglia allargata, aureola di splendore e di liberalità, che si estende su tutto il sistema della corte. Diventato familiare del principe, l’architetto accede alla forma più onorevole della retribuzione: il salario fisso. Questo non è sempre mirabolante (la corte è spesso “corta” come dicono i cortigiani ed il principe è spesso a corto di denari) e, quello che è più importante, varia a seconda la fama dell’artista.. Ma di per sé stesso esso è il segno di una posizione sociale. Nell’ideologia medievale, il salario a compenso retribuisce un opus, un lavoro manuale - allo stesso modo sono pagati gli operai e gli artigiani - mentre il salario fisso ricompensa una virtus, una capacità creativa.

Diventando un intellettuale di corte, l’architetto si allontana dal cantiere. Dei capi cantiere o ingegneri di 2° livello si incaricano di eseguire i progetti, che egli ha preparato. Lo sviluppo del disegno tecnico, favorito dal progresso della costruzione prospettiva e la diffusione della carta è ormai un fatto acquisito nel 15° secolo. Ormai l’architetto è proprio, come lo definisce il Filerete, un “pensatore disegnante”. Più tardi Raffaello Sanzio (1483-1520) potrà limitarsi a dare il concetto di un edificio per vedersene attribuire la paternità. È vero che la figura del pittore architetto, per effetto del primato del disegno nel sistema delle arti, è particolarmente onorato: più della scultura che è scontro con la materia, la pittura è un’arte dell’ideale. Il pittore di corte può agevolmente entrare nell’intimità dei principi, mentre lo scultore, chiuso nel suo laboratorio, viene descritto da Leonardo con “il viso tutto rivestito ed infarinato di polvere di marmo, come un panettiere”, come a dire, quasi un artigiano.

Questa gloria dell’architettura ricade sul principe che ha saputo riconoscerla. E’ per questo che le corti cercano senza sosta di attirare gli artisti più promettenti. Molti architetti rimangono a lungo al servizio del principe: più di 40 anni per Luca Fancelli (Luca Paperi, 1430-1502), architetto dei Gonzaga a Mantova, per i quali terminerà la chiesa di S. Andrea, per la quale l’Alberti aveva redatto il progetto. Ma la maggior parte sono degli ospiti effimeri. Questa circolazione da una corte all’altra rappresenta il vettore essenziale della diffusione degli stili architettonici nell’insieme della Penisola e spesso anche al di là di essa. La fama dell’architetto ed ingegnere idraulico Ridolfo “Aristotele” Fioravanti (1415-1486) lo porterà a lavorare a Milano, Bologna, Parma, Mantova e fino a Mosca dove lavoravano già altri architetti lombardi, come i Solari, che si ispirano alla massiccia e minacciante mole del castello Sforzesca di Milano per impostare i piani di trasformazione del Kremlino.

I prìncipi, nella ricerca perpetua di nuove idee e di talenti promettenti, si sforzano quindi di attirare, presso le loro corti, gli architetti “di cui si parla”. Nella lettera del 1468, in cui nomina Luciano Laurana, il Duca d’Urbino dichiara di averlo fatto venire “in primo luogo per la sua fama ed poi per l’esperienza e dopo che mi avevano informato del suo saper fare”. Ma il gioco della fama è complesso. In quanto riconoscendola un principe la consacra e l’amplifica. In più, sono spesso gli scritti degli umanisti che fanno la reputazione degli artisti: architetti, scrivani e mecenati sono presi in una rete di amicizie di obbligazioni ed ammirazione reciproca. Questa rete ricalca, in parte, la matassa sottile delle alleanze politiche e la circolazione degli architetti è spesso guidata dagli imperativi diplomatici.

 

Esportare i talenti

Allorché Francesco Sforza, duca di Milano, invia a Venezia, nel 1461, il suo architetto Filerete per costruire un palazzo sul Canal Grande (la Cà del Duca), egli intende suggellare un’alleanza. E questa volontà politica si legge anche nelle raccomandazioni stilistiche del prìncipe, che aspira ad una sintesi armoniosa “moderna” fra l’arte lombarda e la “moda veneziana”.

Le città non rimangono escluse da questo circuito di scambi: il caso fiorentino è a tal fine esemplare. Ci si sorprende che Lorenzo il Magnifico e, prima di lui, Cosimo il Vecchio de’ Medici si sia più preoccupato di raccomandare gli artisti fiorentini a corti straniere piuttosto che impiegarli. E’ che i Medici hanno seguito una logica continua di esportazione dei loro migliori talenti, manifestando in questo una coscienza molto chiara di quello che poteva essere una politica di propaganda culturale. Non esisteva in Italia un progetto audace o innovatore senza la presenza dei Fiorentini: allorché Francesco Sforza, nel 1451, decide di costruire l’Ospedale Maggiore a Milano, che mostra la sua splendida facciata decorata di sculture in terracotta su una pianta a croce, incentrata su una chiesa, egli chiede consiglio al suo alleato ed amico, Cosimo de’ Medici. Quest’ultimo si impegna personalmente nel progetto. Nel leggere la loro corrispondenza non esiste alcun dubbio: per entrambi l’architettura è un affare di stato.

Non si pensi peraltro che gli architetti del Rinascimento siano stati solo degli strumenti delle relazioni fra potenti: molti di loro, spostandosi dalla città alla corte hanno fatto fruttificare nell’una la gloria acquisita nell’altra. Vedasi il Bramante, Michelangelo, Raffaello, riuniti dal 1503 al 1513 a Roma per il Papa Giulio 2° della Rovere (1443-1513). L’evoluzione storica, che aveva portato l’architetto al rango di artista di corte aveva ormai completato il suo corso. Ma i sussulti politici provocati dalle invasioni straniere in Italia ed il sacco di Roma del 1527 determineranno una nuova dispersione dei talenti.

 

NOTE

 

(1) Il termine, apparso nel 19° secolo, designa il diffondersi delle idee nate della riscoperta dei manoscritti dell’Antichità nel 14° e 15° secolo in Europa. Gli umanisti pongono l’uomo al centro della loro riflessione;

(2) Questo termine appare solo nel 18° secolo; il secolo dei lumi lo consacra come simbolo della frattura nella storia della civiltà;

(3) Per contrapposizione alle arti meccaniche, esse fanno ricorso all’intelligenza e hanno per scopo la conoscenza del vero, mentre le arti meccaniche richiedono un lavoro manuale o l’utilizzazione delle macchine. Questa distinzione, fatta nel 2° secolo dal medico greco Galieno, perdura fino alla fine del Medioevo. Viene utilizzato più frequentemente il termine ars per qualificare le sette arti liberali, costituite dall’insieme del trivium (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivium (aritmetica, musica, geometria, astronomia);

(4) Questo termine designa gli “anni 1400”, ovvero il 15° secolo, considerato in Italia come l’apogeo del Rinascimento;

(5) Etica della spesa che appare come una delle qualità superiori dei principi e dell’aristocrazia dell’Italia del quattrocento. Questa ideologia è alla base del mecenatismo;

(6) Impresario di guerra, legato per contratto (condotta) agli Stati che lo impiegano al comando di un esercito mercenario. I principi del Rinascimento, come ad esempio il Duca d’Urbino, sono spesso dei vecchi condottieri.


Massimo Iacopi

 

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