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Eventi d'arte

Boldini, De Nittis, Rosso, Zandomeneghi e il francese Degas

Un’operazione commerciale con un titolo ambiguo: “Degas e gli italiani a Parigi”


Jan 28 2004 12:00AM - C. SARCIA'


(Ferrara)

29 settembre 2003, ore 16, giovedì. E’ inequivocabile, è stampato sul biglietto e, volendo, potrebbe costituire prova processuale. Quel giorno c’ero anch’io a Palazzo dei Diamanti, per visitare la mostra “Degas e gli italiani a Parigi”; “italiani” con la minuscola: un aggettivo che vuol sottintendere, spero, il sostantivo “pittori”. Ho lasciato che trascorressero 4 mesi prima di scrivere le mie impressioni. Per un verso questa è la mia vendetta contro gli organizzatori della mostra, per come trattano i visitatori ed in particolare i visitatori-giornalisti. In realtà ho solo cercato di sgomberare il campo dai risentimenti accumulati quel giorno; senza peraltro riuscirvi del tutto. Devo anche confessare che l’umore non era del tutto sereno, visto che l’ambiente ferrarese mi procura in genere ansia. Quando sto a Ferrara, raramente per fortuna, non posso fare a meno di pensare a quella sorta di gru usate lungo i moli del Po per caricare e scaricare le chiatte: “i bighi”, appunto, che mi richiamano alla mente dolorosi ricordi. Non me ne vogliano i d’Este, o gli Este che dir si voglia. Si, qualche pezzo buono c’era, ma c’era anche della spazzatura. I pittori sanno a cosa mi riferisco: i cartoni, le tavole imbrattate, le tavolozze ritoccate, gli incompiuti, le prove d’autore. Il sussiegoso titolo “Crepuscolo sui Pirenei” di Degas del 1890 ne è un chiaro esempio: c’è sintesi, c’è maestria, ma rimane pur sempre un pezzo di tavola imbrattata che ha bisogno di molta immaginazione per vederci i Pirenei e il crepuscolo. E’ evidente che è stato rastrellato tutto ciò che c’era da rastrellare. Quando un pittore scompare e sul suo nome viene mantenuta ed accresciuta una fama di autore di capolavori immortali, i prezzi salgono ed allora anche uno scarabocchio diventa opera d’arte. Quello che conta è la firma. Quando c’è. Qui le firme c’erano: Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Medardo Rosso, Federico Zandomeneghi e la ciliegina sulla torta, Edgar Degas. Di Zandomeneghi avevo visitato anni fa una mostra a Modena, di cui conservo un modesto catalogo. Deve essere un vezzo, diffuso tra Modena e Ferrara, quello di spremere soldi alla gente. Ricordo che la direzione della mostra, pur se finanziata da enti pubblici, mi ha inseguito con una lettera fino a Rieti, per reclamare un corrispettivo di poche migliaia di lire per il catalogo che mi era stato offerto gratuitamente in cambio dell’indirizzo di residenza. Che pena! Fortuna che mi ero qualificato come giornalista. Ma Ferrara è peggio. Di catalogo, manco a parlarne. Se lo vuoi devi sborsare decine di Euro. Allora chiedi una guida e pensi sia compresa nel costo del biglietto. Ma quando mai? La guida è in vendita: 30 pagine di cm.14 per 23, di cui una dedicata all’autocelebrazione degli addetti ai lavori: cinquantacinque nomi, comprese tre o quattro righe riservate a ditte ed enti. Mi viene spontaneo un titolo: “55 Cervelli per 5 Pennelli”. Ora capisco perché oltre al biglietto bisogna pagare anche la guida. Dei pittori, delle “cose” esposte, delle tonalità, delle “espressioni”, delle “impressioni”, dei paralleli, delle emulazioni, cosa dire che non sia stato già detto? Bisognerebbe proprio fare uno sforzo, perché poi non pensino che hai copiato. Allora cercherò di scrivere cose che nessun’altro ha scritto; cose che magari per buona creanza si sono taciute; comunque cose per addetti ai lavori. Non è richiesto un occhio particolarmente professionale per accorgersi che anche Degas ha sbagliato qualcosa, nella prospettiva e nell’anatomia: penso alla bruttissima posizione di una ballerina con una gamba che non si capisce da dove spunti. Si rimane invece ammirati davanti all’autoritratto del giovane Degas, il piccolo capolavoro del 1875 detto “con cappello floscio”: un eccellente traguardo da cui trarre spunti professionali. Mi pare poi di poter dire che De Nittis abbia dato ad alcuni suoi quadri un taglio più da inquadratura fotografica che da pittura “en plein air”; penso a “Corse a Longchamp”, uno studio del 1883. Del resto già dal 1840 W.F.Talbot, inventando la fotografia, aveva fornito ai pittori un ausilio per la riproduzione delle immagini, non da poco. Senza contare che l’altra novità, il cinema, introdotta dai fratelli Lumière, contemporanei dei pittori in mostra, stimolava la ricerca di inquadrature d’avanguardia. Oltretutto, si poteva risparmiare tempo senza correre rischi. Non voglio con ciò dire che un aiutino sia del tutto disdicevole; in fondo si tratta di pittori cui non servono credenziali. Chapeau! invece al De Nittis di “Paesaggio vesuviano” del 1872: una sintesi espressiva che lo riscatta ampiamente. Anche il Boldini de “La cantante mondana” del 1884 mi lascia perplesso: un’inquadratura improbabile che fa pensare più ad una scena colta appunto dalla macchina fotografica piuttosto che ad una situazione costruita direttamente sulla tela. Di Zandomeneghi conservo invece il ricordo di un artigiano della pittura ciclica incatenato alla serialità: un tenace costruttore di opere impegnative, cristallizzato nello sforzo di creare il capolavoro, senza riuscirvi. Di Zandomeneghi ho visto a Modena cose migliori. Le sculture di Medardo Rosso elevavano il tono dell’allestimento e davano alle sale d’esposizione un tocco di magica atmosfera. Mentre le poche sculture degli altri pittori si collocavano come tentativi di estendere la ricerca impressionista anche alla scultura. L’atmosfera era però guastata da una scultura di Zandomeneghi veramente brutta: un tabellone in bronzo a forma di medaglione con la figura di un violoncellista “sofferente”. Dopo aver visitato questa mostra c’è da risentirsi, e non poco, per il brutto vezzo, che ho però notato anche in altre mostre, di ammettere negli stessi orari gruppi guidati e visitatori isolati. Non c’è neanche gusto; le sale vengono invase da masse disordinate di individui allegrotti e maleducati; la guida espone a voce alta le sue teorie mentre l’uditorio schiamazza, fa domande cretine ed obietta. Un’atmosfera poco adatta alla concentrazione. Infine le luci: pessime, già scarse per illuminare i saloni e nessuna orientata per creare migliori condizioni di visibilità o per mettere in risalto i particolari. In compenso sono stati assunti un numero di guardiani, eccessivo per il compito da svolgere, che tra l’altro mi sono sembrati in buona parte alienati, specie le donne. L’augurio per il futuro è quello di poter assistere a manifestazioni completamente culturali, in cui si percepisca l’impegno delle Istituzioni ad accrescere la sensibilità per l’arte, offrendo ai visitatori ausili fruibili senza spese accessorie e assimilabili anche da profani; e di non dovere più assistere a manifestazioni mascherate da evento culturale dietro cui si nasconde invece un’operazione puramente commerciale, col paravento dei grandi manifesti e dei grossi titoli. Tutto questo mi è sembrata la mostra di Ferrara. Per finire, non ho condiviso l’impostazione ideologica data alla mostra: “Degas e gli italiani a Parigi”. Pur di richiamare visitatori, si è accettata supinamente l’onta di una sudditanza della memoria dei connazionali al francese Degas, purché fruttasse danaro. Il nome del maestro francese, in primo piano, usato come specchietto per le allodole, per incentivare le frequenze. Avranno pensato: “nessuno potrà eccepire sterili nazionalismi di fronte al nome del maestro assoluto”. Mentre gli altri, “gli italiani”, sono stati relegati nell’ombra del destino che la traduzione letterale del dispregiativo “les italiens” gli assegnava. Congratulazioni! In fondo le buone palanche suonano molto più della buona memoria.

 

 

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