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Pubblicato nella collana Autori moderni – il Tizzone Rieti anno 2004

La lunga lotta tra l'eterno e il quotidiano

L’istinto al servizio dell’intelletto


Sep 19 2004 12:00AM - C. SARCIA'


(Rieti) La casa della solidarietà e della tolleranza si costruisce sul terreno della reciprocità . La precarietà dei rapporti umani arresta il processo evolutivo dell’uomo e il suo spinto installarsi nei gangli vitali della società civile compromette inevitabilmente la capacità di saper distinguere tra ciò che divide le coscienze e ciò che genera solidarietà. Si fa un bel parlare di fratellanza, amore per il prossimo, rispetto, disponibilità, tolleranza, umiltà. Quando si parla di queste cose e si pretende che esse entrino a far parte realmente dei comportamenti sociali del cosiddetto mondo civile, si attinge alle tradizioni ed alla cultura di ben determinate popolazioni. Ma si dimentica che le tradizioni e le culture presenti nel mondo sono varie e differenti, come sono differenti i popoli e quindi anche i modi di sentire, le spinte emotive, gli obiettivi, la capacità di interagire con gli altri e di integrarsi pacificamente. La spinta operata dalla globalizzazione sfrenata ha ormai dato inizio ad un processo di integrazione tra i popoli della terra che darà lungo a conflitti e che costerà ancora sangue, sofferenze e privazioni. Anche in passato, specie in alcune aree geografiche, si sono verificati fenomeni parziali di questo tipo: ne abbiamo avuto esempi negli USA, con riguardo all’integrazione dei discendenti degli schiavi africani e dei Pellerossa, ed in Sud Africa, con il cruento e lungo processo di superamento dell’apart-heid. Alcuni processi di questo tipo si sono conclusi con la soppressione di intere etnie e delle culture ad esse collegate, mentre altri processi sono tuttora in corso in ogni parte del pianeta, dai Balcani all’Africa, da Timor Est all’America Centrale. Le civiltà odierne non potranno apprezzare la conclusione del processo integrativo globale in corso, ma, pur senza ricorrere a discorsi utopistici, è naturale azzardare previsioni pessimistiche, del resto paventate quasi ogni giorno nei consessi governativi, nelle organizzazioni internazionali di sicurezza, oltre che nei media e nei discorsi dell’uomo della strada. La società occidentale è pericolosamente ferma nella convinzione della sua superiorità rispetto alle altre civiltà del globo. Lo si afferma, a vario titolo e con vari scopi, in tutte le occasioni in cui una o l’altra fazione politica tenta di condannare comportamenti o stimolare iniziative. Il concetto di superiorità fa ormai parte della nostra costruzione mentale perché si è andato formando lentamente, nel corso delle vicende storiche ed è sostenuto dalle realizzazioni riguardanti il miglioramento della vita (scoperte, invenzioni, sviluppo agricolo e industriale, benessere, raffinata evoluzione artistica, adozione di principi giuridici egualitari). Questa convinzione è il vero problema di noi occidentali e, paradossalmente, è il principale capo d’accusa che ci viene imputato da coloro i quali, secondo le nostre istintive valutazioni, sarebbero inferiori a noi per intelligenza, razza e cultura. Il radicarsi nell’Occidente del disvalore costituito dal senso di superiorità ha causato nel tempo invasioni di territori, conflitti, sottomissione di popoli ed indebito sfruttamento di risorse. Questo processo non fu mai accompagnato da una vera e propria integrazione: le popolazioni indiane, quelle mediorientali, le neolatine e le africane furono tenute per lunghi secoli fuori dalla porta dei conquistadores che concessero esigue frange di benessere surreale (a cominciare dagli specchietti e dalle collanine di vetro colorato) e brandelli di cultura obbligatoria, peraltro non spiegata del tutto e di conseguenza non compresa (prima di ogni altra, la pretesa di convertire tutti al cristianesimo: pretesa cieca, perché incapace di considerare la diversa percezione, l’immancabile rigetto, la fisiologica opposizione). Soltanto alla fine del secolo scorso hanno cominciato ad avere cittadinanza i principi che tutelano i diritti dell’uomo, come prologo al livellamento delle culture. Ma le nazioni non erano preparate ad affrontare una rivoluzione di tale portata. Il divario culturale e sociale era eccessivo: si era appena usciti da secoli di colonizzazione selvaggia ed i paesi emergenti, lasciati praticamente a sé stessi, non erano in grado, come non lo sono tuttora, di esibire una classe dirigente adeguata. Si è verificato allora che la presa di coscienza dell’esistenza dei problemi enormi che riguardano il genere umano si è subito proposta ed imposta, nelle sedi di rappresentanza internazionale, in modo naturale ed ineludibile, senza l’intervento di un graduale processo di crescita e senza una vera e propria rivoluzione preventiva (non necessariamente cruenta), ma soprattutto per effetto del dilagare e del trasmettersi incontrollato dei soli aspetti negativi del progresso. Le sedi internazionali da cui è partito il fenomeno della rivendicazione dei diritti umani hanno prematuramente sollevato il problema. Ed è stato questo un fatto forse inopportuno, se si considera il grave danno che ha creato alla stabilità del pianeta. Gli equilibri dei blocchi contrapposti stabiliti a Yalta non si sono certo mantenuti per volontà della massa dei rappresentanti degli Stati che siedono nei consessi internazionali senza possedere un potere decisionale reale, ma sono stati la conseguenza dei veti incrociati, utilizzati dai pochi detentori del potere effettivo e quindi il frutto della negoziazione del destino delle masse incongruenti. L’accelerazione impressa quindi dalle organizzazioni internazionali alla diffusione dei principi di uguaglianza sociale e di rispetto dei diritti personali è stata quindi inopportuna, anche a causa dell’egoismo e del difetto di riflessione che ha accompagnato, fin dal suo nascere, la diffusione di questi principi. Ma soprattutto perché le massime organizzazioni internazionali sono state create con lo scopo occulto di prolungare, specializzare e legalizzare il predominio e lo sfruttamento, sotto altre forme, di una parte del mondo sull’altra. Tarda appare quindi l’ora in cui le nazioni civili si sono rese conto degli errori commessi, ma concitato e pericoloso l’avvio che è stato dato al risveglio. Diventa quindi difficile gestire un fenomeno provocato irresponsabilmente dallo stesso mondo cosiddetto civile che ora paventa a ragione una escalation rivendicativa di proporzioni non valutabili che inevitabilmente conseguirà ai fenomeni attualmente già in avanzato corso di gestazione: invasione costante e progressiva del vecchio continente, espansione della minaccia di terrorismo emulativo, organizzazione di un nemico multiforme e incombente dislocato lungo una frontiera in pratica non materializzabile, ma attestata ormai dentro i confini delle nazioni occidentali. E’ evidente che occorrono soluzioni immediate, sorrette da propositi fermi, da contrapporre ad una sorta di piovra incontrollata e incontrollabile, per effetto della sua indeterminatezza e delle sue multiformi identità, formatasi nel corso dei secoli in un brodo di ambiguità e doppiezza, per alcuni versi naturali e congenite, per altri indotte ed alimentate sempre di più dalle istanze di vendetta per i fatti storici che questi popoli non hanno dimenticato perché hanno riguardato la loro civiltà e hanno, per certi versi, ritardato il loro sviluppo. Ma tutti i buoni propositi si arenano sull’insormontabile barriera della formazione ideologica che deriva dalla storia di ogni popolo e quindi dalla sua struttura mentale e dal complesso delle caratteristiche che lo contraddistinguono dagli altri popoli: istinto naturale, intelligenza specifica, abitudini incontrovertibili, stratificazione del valore dei diritti e dei doveri, coscienza dell’appartenenza all’etnia, esigenze contingenti, radicalismo religioso esasperato, grado di evoluzione relativa. I canoni che ogni civiltà pone oggi a base dell’educazione familiare e sociale, non si modificano così facilmente come si vorrebbe pretendere. In realtà certe modificazioni possono verificarsi, ma esse intervengono in modo osmotico e reciproco e non riguardano immediatamente le civiltà contemporanee. Si tratta infatti di canoni soggetti ad una estenuante e continua modificazione, non percepibile dai contemporanei, ma forte ed a volte anche violenta, se osservata a posteriori confrontando le premesse che hanno generato i singoli fatti storici e le conseguenze sociali di questi fatti sul piano dei ritardi o dell’accelerazione dell’evoluzione sociale. In realtà questi canoni contengono un nucleo di principi che continuano ad essere affermati nel tempo e che non subiscono modificazioni sostanziali nella loro enunciazione e quindi nella loro percezione, ma vengono recepiti in differenti modi a seconda della base sociale o della formazione psicologica che si è sviluppata in un determinato gruppo nel corso dei secoli. Frutto queste dei disagi patiti, delle variazioni climatiche, della struttura dell’habitat circostante e perfino del tipo di alimentazione. Basti osservare come i canoni dettati dalla legge naturale siano stati diversamente percepiti, interpretati e tramandati dai popoli, per comprendere come nulla è assoluto; anzi, tutto ciò che vuol darsi per assoluto in realtà contiene le premesse della precarietà proprio nello stesso irrealizzabile enunciato della sua inconsistenza ideologica che deriva dalle contrastanti percezioni. Sono queste le premesse che aprono la strada alla descrizione del teatro della competizione futura. In questo quadro vanno esaminati i concetti legati alla lunga lotta che si è condotta nel corso dei millenni tra l’eterno e il quotidiano, tra l’esigenza di riferire, solennizzandoli, i comportamenti dell’uomo ai concetti filosofici assoluti e la realtà precaria della quotidianità che spinge l’individuo ad ignorare i principi o a derogarvi, per convenienza o per necessità. In effetti l’unico deterrente alla reazione istintiva nei confronti delle contingenze quotidiane, derivate dalle necessità materiali e dalle inclinazioni psicologiche, è costituito dalla volontà soggettiva dell’individuo di adeguarsi agli schemi prodotti dalla civiltà cui appartiene. E’ pur ovvio osservare come l’accettazione delle ideologie e il convincimento preventivo, e di conseguenza l’accettazione delle regole che dalle ideologie discendono, non la pedissequa applicazione della legge pura e semplice imposta ex tabula senza che sia stata preceduta e sostenuta da un adeguato processo evolutivo, si siano posti in modo diverso in ciascuna civiltà: in Occidente, come irrinunciabile compendio alla convivenza pacifica dei popoli e degli individui nella società (sia pure in seguito alla sofferta sedimentazione del processo storico complessivo); nelle culture emergenti, come spinta emotiva di sostegno alle istanze di progresso e di miglioramento della vita, anche se a danno delle civiltà più progredite. L’uomo è piccolo, perché indigente e sempre alla ricerca della soddisfazione dei suoi bisogni e mal disposto al sacrificio, specie se non è mirato al conseguimento di un beneficio, a volte anche effimero. Ebbene, quest’uomo, di proporzioni infime, soprattutto se osservato nell’economia generale della società, è talvolta capace di realizzare grandi progetti, ma necessita dell’adesione e del sostegno della massa, della quale deve sapere conquistare il consenso, se vuole portare a termine il progetto. E’ così che la massa diventa mostro ed assume le caratteristiche della grandezza, in rapporto alla piccolezza dei singoli individui di cui è composta. Ma si tratta di una grandezza che deriva dall’uso della forza e della violenza e dalla capacità di sopraffare il più debole. Manca infatti alla massa la capacità dell’argomentazione, del confronto, della dialettica, della tolleranza e della scelta. La massa è come un giocattolo a corda: prima si carica e poi si rilascia e, finché dura la corda, non si può fermare e se si ferma, la molla rimane carica e prima o poi finirà il “lavoro” che non era riuscita a completare: il teatro della vicina ex Jugoslavia ne è un esempio, ma il mondo è pieno di enclavi, di etnie frammentate e divise e di gruppi separatisti che non si rassegnano e non rinunciano alle loro identità. Eppure il rosario dell’umanità si snocciola imperterrito secondo gli schemi di sempre. Gli uomini cambiano o si rinnovano, le tecnologie progrediscono, le epoche si sovrappongono, gli ideali propugnati si modificano ed evolvono, gli obiettivi da conseguire si ingigantiscono e si spostano; ma la storia è sempre la medesima, senza novità percettibili, senza altre emozioni se non quelle effimere date dal potere e dalla ricchezza gestiti da alcuni e dalla miseria e dall’isolamento patiti da molti altri. E la molla si carica sempre di più. Prima o poi troverà le condizioni per scaricarsi ed il processo sembra già essere iniziato. Il Vico ha trattato in modo esauriente la questione dei corsi e dei ricorsi storici, ma ritengo che l’argomento non sia più proponibile nei medesimi termini. I giochi sono radicalmente cambiati e la staticità geografica e politica che sosteneva le sue osservazioni non esiste più. E’ in atto la cosiddetta globalizzazione che viaggia lungo fibre ottiche, onde hertziane e canali satellitari: il nemico non ha un esercito regolare, le dichiarazioni di guerra non hanno un vero ed individuabile mittente ed il bene da difendere non è più un territorio o una nazione, perché entrambi sono stati invasi o contaminati, conquistati subdolamente o trasformati con la violenza. Il bene da difendere è dunque ormai soltanto la vita. L’eterno appare quindi come un pretesto, come un principio inderogabile, seppur surreale ed incomprensibile, verso cui l’individuo deve essere condotto ed a cui si lega la sua emotività e che, attraverso questa, produce la volontà e la determinazione, elementi necessari al conseguimento degli obiettivi. Al contrario, la quotidianità si pone come elemento concreto, in contrasto con l’eterno, che assorbe la sfera immaginativa dell’individuo fino a che questa non venga ridotta o condizionata. Ma i condizionamenti, pur se modificano la capacità percettiva della realtà, non riescono a modificare del tutto, o addirittura a nascondere nella quotidianità, il dono della ragione. La natura dell’uomo contiene in sé la capacità di indagare ed anche quella di sostenere il peso dell’indagine fino al conseguimento di plausibili risposte. Questo aspetto è basilare nella conduzione di un progetto o nella formulazione di una valutazione; ed è un parametro smisurato che ha sempre risolto i picchi negativi della vicenda umana, riconducendo alla ragione perfino la massa spietata e selvaggia. Non si può, in questo discorso di analisi dei due elementi opposti, quali sono l’eterno e la quotidianità, sorvolare sul ruolo che la religione insieme al diritto assumono nella formulazione dei principi e nella gestione degli avvenimenti che si producono nel confronto sociale conseguente. La religione è l’evento fattuale ed ideologico di questo confronto ed invade prioritariamente la sfera sociale, quando in modo dichiarato, quando per effetto dell’innato sentire, quando per sentimento acquisito nel contatto sociale, su cui si fonda il senso di appartenenza: si pensi alle sollecitazioni di parte vaticana ad inserire nel testo della costituzione europea le “comuni radici cristiane” dei popoli europei, alla proclamazione della “guerra santa” da parte delle organizzazione mediorientali terroristiche e patriottiche in funzione anti occidentale, alle tecniche di reazione messe in atto dallo Stato ebraico per la conservazione della supremazia territoriale, alle congenite radici animistiche e feticistiche degli Africani che vengono istintivamente trasposte e inserite nella pratica dei nuovi culti acquisiti, cristiano e/o mussulmano, e negli atti concreti della vita quotidiana; non sono immuni da questo genere di istanze neanche gli individui delle civiltà orientali i quali si considerano, per atavico convincimento, “il popolo delle terre di mezzo” e si collocano tra gli dei, unici a sovrastarli, ed il resto dell’umanità, considerata giacente nel livello inferiore, appena sopra quello degli animali. E’ opportuno però un breve accenno alla sostanza della questione delle “radici cristiane” proposta dal Papa, che può essere illuminante per coloro che si ostinano a respingerla in nome di un malinteso laicismo. Il richiamo alle radici cristiane non è un fatto di ingerenza e non contiene affatto la pretesa di convertire al cattolicesimo tutti i popoli europei; non è quindi un tentativo per agganciare in qualche modo al Vaticano la nascente Europa, né di precostituire limitazioni alla libertà del Parlamento europeo di legiferare. Affermare le comuni radici cristiane significa semplicemente riconoscere la comune appartenenza delle popolazioni europee ad uno stile di vita che nasce da una medesima educazione ricevuta dalle generazioni, basata sui principi cristiani; significa quindi aver maturato una personalità in cui spiccano i principi caratteristici del mondo occidentale che sono per converso sconosciuti alle realtà del mondo islamico e del mondo ebraico. Mi riferisco a quei principi che caratterizzano i popoli occidentali ed in particolare gli Europei: la sensibilità alla pietà, la predisposizione al perdono, la posizione fortemente critica nei confronti della vendetta obbligatoria, la capacità di dialogare, l’interesse per la collaborazione e la comprensione, i sentimenti dell’accoglienza e dell’apertura, e così via. Si tratta quindi di principi comuni ai popoli occidentali, introdotti nella società dal cristianesimo, che non sono affatto estranei al mondo laico occidentale, perché non implicano necessariamente la pratica della religione cristiana, ma sono distintivi di un atteggiamento caratterizzato da umanità e solidarietà, che ripudia e considera storture i comportamenti tipici dei popoli con radici islamiche o ebraiche. Questo e non altro vuole affermare il Papa con il suo invito. Il non sancirlo nella Carta costituzionale, vorrebbe dire lasciare aperta la porta a commistioni altamente negative per il futuro della nostra civiltà. C’è anche da osservare che il ruolo del diritto nella società si è sempre confuso con quello della religione, in tutti i tempi ed in tutte le civiltà; questa confusione è presente sul pianeta ancora oggi e riguarda milioni di individui. Lungo e faticoso è stato il processo di separazione, laddove è riuscito, delle cose di Dio dalle cose degli uomini: il riferimento alla necessità di questa separazione, fatto da Cavour nel discorso tenuto in Parlamento il 25 marzo 1861, è, se vogliamo, recentissimo, specie se visto nell’economia generale della storia dell’uomo. Eppure il tentativo di ingerenza non si è mai esaurito del tutto, neanche in Italia. Purtroppo, il futuro dell’umanità, oltre che sulla normalizzazione dell’organizzazione alimentare e sanitaria e sulla ricerca di una soluzione energetica che risolva i problemi derivanti dall’inquinamento e dai guasti ambientali, si giocherà sul confronto tra le civiltà e terminerà con l’affermazione di quella più forte, ma si giocherà soprattutto sul confronto tra le religioni che rimangono l’elemento propulsore delle iniziative dei popoli, prima che sul nudo confronto tra le norme del diritto o tra le forme di governo adottate da ciascuno Stato. Ecco dunque configurarsi lo spazio per lo scontro tra le realtà di fronte alle quali l’individuo deve scegliere, in forza del grado di evoluzione raggiunto ed in conseguenza della spinta propulsiva costituita dai condizionamenti sociali rispetto all’istinto: l’eterno e la quotidianità. Quanto più forte sarà il condizionamento derivante degli ideali personali e sociali che si legano alla coscienza ed al rispetto delle regole, tanto più la quotidianità potrà essere controllata e guidata e piegata dalla forza della ragione, la sola che consente di superarne le molteplici sfaccettature per recuperare ciò che di nobile rimane nell’umanità. Diversa è la percezione di questi due elementi da parte dei cittadini di quel mondo che preme ai confini dell’Occidente e che in parte ha già invaso. C’è per fortuna un unico punto di contatto che può considerarsi comune a tutte le civiltà ed è costituito da quell’ineffabile spazio che ha sede appunto tra l’eterno e la quotidianità: quello spazio in cui l’individuo coniuga le sue necessità con quelle degli altri; laddove nasce l’esigenza dei diritti e dei doveri e dove l’anelito della religione si incontra con il bisogno della legge, senza che l’una assorba l’altra. Si tratta di uno spazio che solo il lume della civiltà può individuare e riconoscere. Quello è dunque il luogo dove far nascere, far crescere e far sviluppare la solidarietà ed è anche il luogo dove la tolleranza può acquisire una cittadinanza che, per converso, non si realizzerebbe se non fosse interamente basata sulla reciprocità.

 

 

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