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MERITI E COLPE Bene e Male: la percezione soggettiva e la tesi oggettiva e obbligatoria Sep 9 2005 12:00AM - (Rieti) La teoria binaria, che ha permesso l’invenzione del fax e della fotocopiatrice partendo dall’impostazione tecnica dei progenitori dei PC, i sorpassati cervelli elettronici a schede perforate, trae fondamento dall’ovvia considerazione che la struttura della materia, i fenomeni naturali e la vita stessa sono costantemente riconducibili alla rappresentazione di due elementi opposti ma in stretta connessione tra loro, disposti in un’antitesi scientifica o filosofica che non abbisogna di dimostrazione perché è sorretta dal pensiero logico ed è comunque correlata indissolubilmente al principio stesso della creazione: pieno-vuoto, luce-buio, bianco-nero, caldo-freddo, materia-antimateria e così via, fino a comprendere concetti astratti quali bene-male, sentimenti come odio-amore e persino il destino dell’uomo, toccato quando dalla fortuna sfacciata, quando dalla iella nera.
La percezione soggettiva del Bene e del Male si inquadra in questo contesto in modo privilegiato perché è da questi due concetti che si fanno derivare i credi religiosi, i principi etici e gli insegnamenti morali che costituiscono l’impianto di ogni società civile e sono essi stessi il riferimento per la formulazione delle leggi (regole di convivenza) e la legittimazione dei governi (autorità). I concetti astratti di Bene e di Male, nella percezione soggettiva dell’individuo, sono valutati come eventi perché si identificano in situazioni, risultati, azioni, pulsioni, ma in realtà fanno parte della dotazione ancestrale ed istintiva di ogni creatura ragionevole, sono legati quindi indissolubilmente alla natura dell’uomo fin dall’origine della vita.
Questa percezione, connaturata quindi soggettivamente all’uomo, non ha mai trovato corrispondenza effettiva e concludente nella teoria oggettiva che l’umanità nel corso del suo sviluppo ha invece costruito attorno a questi due enormi mostri che nella loro apparente semplicità hanno influenzato e condizionato, fin dal sorgere delle civiltà, le azioni di governanti e capi religiosi, ma anche ogni singolo individuo; hanno promosso le interazioni interpersonali e l’organizzazione dei rapporti sociali e però, ancora oggi, appaiono privi di un significato assoluto, rimangono cioè negletti o incomprensibili, rendendo vano e inefficace ogni tentativo di realizzare una svolta definitiva nei rapporti umani, nell’organizzazione dei gruppi sociali e nelle macrorelazioni globali.
A riguardo, deve registrarsi un contrasto assoluto ed insanabile, è inutile negarlo, tra il sentimento arcaico radicato nella natura umana, che fa coincidere autonomamente il Bene e il Male con tutto ciò che è bene e male per l’individuo, in una prospettiva assolutamente personale, e nelle situazioni che coinvolgono l’individuo, e la realtà attualizzata che giocoforza ne è il prodotto immediatamente percepibile.
Questo contrasto si svela massimamente quando si esige che l’individuo esprima una determinazione soggettiva a compiere una scelta invece che un’altra, atteso che ogni libera scelta umana è spiegabile solo con la comparazione tra etologia animale ed etologia umana o con il trasferimento dell’esperienza empirica nel contesto sociale di riferimento nel quale si legittima la pretesa dell’autorità di imporre condizionamenti psicologici per ottenere modelli comportamentali accettati e condivisi dalla comunità.
Da qui, l’esigenza di scegliere, condizionata dall’istintivo richiamo a risolvere i bisogni personali ed i contrasti con gli altri individui mediante l’esercizio del potere individuale e dalla esigenza naturale di sottrarsi alla minaccia e/o di prevalere sull’inferiorità.
Il condizionamento esercitato dall’organizzazione sociale si fonda sull’imposizione di regole e precetti la cui violazione comporta punizioni e sanzioni che i governanti di tutti i tempi costantemente erogano nei confronti dei “cittadini-sudditi”, affinando progressivamente le statuizioni dei predecessori o sovrapponendone di nuove, nel convincimento, sostenuto dalla condizione privilegiata di essere comunque i detentori del “potere”, di dover a tutti i costi risolvere ciò che i predecessori non sono riusciti a risolvere nel corso dei millenni e che comunque non sarà mai possibile risolvere in modo definitivo.
In altre parole, coloro che esercitano l’autorità, senza distinguere tra monarchi assoluti, dittatori o capi eletti democraticamente, ritengono di essere legittimati, dalla discendenza della Casata, o perché “chiamati” da Dio, o perché eletti dal popolo, quindi legittimati erga omnes a condizionare la natura degli individui assoggettati, adoperandosi per coartarne la volontà o per modificarne le aspirazioni e le naturali inclinazioni, e inducendoli ad uniformare le loro azioni, anche quelle dipendenti dai loro istinti naturali, ai comportamenti imposti dal modello organizzativo adottato dal gruppo sociale di origine.
L’impianto operativo obbedisce quasi sempre ad un modello in grado di realizzare una soggezione speculare delle naturali inclinazioni di ciascun individuo, alla tabula legislativa elaborata dall’archiatra detentore del potere e variamente strutturata nel periodo storico di riferimento, nella prospettiva di assecondare le esigenze della collettività nel senso percepito dall’autorità, senza tener conto delle esigenze personali.
Paradossalmente, è mediante l’evoluzione di queste elaborate procedure che si aggregano le comunità umane e che si sviluppa in seno ad esse l’organizzazione sociale localistica. Ma la pretesa di realizzare fino in fondo il condizionamento degli individui secondo modelli maturati attraverso le spinte emotive dei capi, dei saggi e dei sacerdoti è anche responsabile del ritardo dei popoli nel loro cammino verso l’integrazione globale; altre ineluttabili responsabilità di questo ritardo vanno anche individuate nella assoluta immodificabilità dei mattoni naturali che formano la psiche umana ed informano il sentire soggettivo, mediante i quali ogni individuo classifica gli eventi e i comportamenti propri e altrui come Bene o Male a seconda del beneficio o del danno che personalmente ne può ricevere.
Durkeim considera più che altro delitti l’uccidere, il ferire e il rubare e minimizza le altre devianze umane qualificandole di “minore gravità”. In effetti le tipologie di violenza qualificate da Durkeim come delitti assumono significato specifico di Male assoluto e universale in ogni civiltà ed i governi di ogni epoca sono stati concordi nel perseguirli con maggiore fermezza rispetto alle devianze ritenute minori.
Il concetto dell’uccidere e del ferire va però esteso ad una generalità di casi che si inseriscono nelle tipologie degli atti di violenza contro la persona, mentre il concetto del rubare va esteso a tutta una serie di atti che sono assimilabili alle violenze contro la proprietà. Purtroppo nel tempo le leggi hanno applicato delle deroghe a questi principi, peraltro non del tutto condivisibili, come ad esempio si osserva nella tutela del possesso. In questo caso la deroga giunge fino a rendere pressoché inefficace il diritto di proprietà, e la deroga trova la sua massima espressione nell’istituto dell’usucapione che in sostanza realizza la dispersione dei valori che dovrebbero tutelare in assoluto il patrimonio dell’individuo, spazzando via la possibilità di conculcare il diritto naturale della proprietà che è secondo solo al diritto alla vita. Comunque, anche nella tutela dell’integrità della persona umana, la legislazione in generale lascia ampie sacche di sottovalutazione della rilevanza morale, etica e giuridica che dovrebbe sostenere gli aspetti sostanziali del diritto alla vita e all’integrità fisica. Questo fenomeno si è potuto verificare solo con l’acquiescenza dei governi, oltre che sotto la spinta di movimenti minoritari che sono riusciti a far passare come legali delle abnormità, solo grazie all'astensionismo che ormai colpisce endemicamente le società. Il cosiddetto progresso ha sensibilizzato nell'istinto delle masse la consapevolezza degli errori e degli abusi sui quali si realizza la convivenza sociale, incoraggiando la non partecipazione alle vicende dirette ad interferire con il senso comune. Ciò, come un atto di ribellione e con la consapevolezza che non potrà essere punito. La responsabilità della formazione di queste immense nicchie di dissociazione cronica dalla cosa pubblica, ossia dall'interesse comune, è da attribuire interamente alla politica. Valga per tutti l’esempio della legalizzazione dell’aborto, diffusamente adottata dai cosiddetti popoli civili, che esaminata sia nel cointesto statistico che in quello morale e biologico, assume addirittura aspetti di genocidio. Nell’attuale Cina, invece, per limitare le nascite si è resa obbligatoria per legge, ed imponendola coattivamente, la soppressione sistematica dei feti di sesso femminile.
Al contrario, i popoli di religione islamica, e mi dispiace farlo rilevare, tutelano l’integrità del feto molto di più di quanto abbiano fin qui fatto i popoli occidentali. Ma se i sentimenti di approvazione per questo particolare, si tramutano invece in sentimenti di riprovazione quando si osserva che gli stessi popoli islamici scadono nella pratica selvaggia dell’impiegare l’individuo alla stregua di un'arma di distruzione, un'ama inventata appositamente per portare lo sterminio in seno alle pacifiche comunità occidentali, con lo scopo finale programmato di terrorizzare i popoli per poi sottometterli o sterminarli.
In questo caso i concetti di Bene e di Male si alterano, escono fuori da qualsiasi canone, escono fuori persino dal canone della percezione soggettiva ancestrale. Così, i concetti di pietas o di caritas, che fanno parte della natura umana, quali la cura per i minori, il rispetto per le donne e gli anziani, vengono mortificati, annullati, attraverso il condizionamento psichico, il plagio e la privazione del sapere, della cultura... cosicché possiamo dire che il male peggiore per quei popoli è costituito dalla stessa morale religiosa che dovrebbe praticare l'insegnamento del rispetto verso gli indifesi ed invece inculca l'odio. Nello specifico, addirittura inventando un comandamento divino e sorreggendolo con improbabili benefici post mortem che qualsiasi intelligenza libera da condizionamenti e pregiudizi giudicherebbe come solenni corbellerie. Insomma, la vita che rappresenta il Bene supremo di ogni individuo, viene sciupata in modo del tutto innaturale per uccidere altri uomini. Intendiamoci, non sacrificata, come può avvenire in un conflitto di contrasto ad un invasore, né giocata nel rischio di conseguire un beneficio anche se delittuoso, ma dissolta,m sciupata, annientata per realizzare la distruzione di un “nemico” statico del tutto inventato, che non ha manifestato intenzioni offensive. Peraltro una distruzione che appare come un capitolo di un'eterna, irriducibile vendetta e della quale il volontario suicida non avrà neanche la cognizione e la percezione, figuriamoci la soddisfazione, perché coinciderà specularmene con la distruzione cruenta di sé stasso.
La bomba umana è un suicida volontario, politicamente motivato e psicologicamente determinato a divenire il martire della definizione coranica, utile idiota che soddisfa in parte l’immaginario collettivo della sua gente, ma soprattutto soddisfa le attese dei fanatici che attuano attraverso questi soggetti deboli il piano strategico generale. Piano strategico che passa attraverso gradi collaudati e definiti: la paura, la sottomissione morale e fisica, le barbare esecuzioni. Questa strana specie di suicidi, abusivamente chiamati kamikaze offendendo la nobile tradizione militare giapponese che si proponeva di colpire il nemico armato contro il proprio popolo, e si attuava quindi nel contesto del combattimento, è quanto di più incomprensibile una civiltà abbia mai potuto concepire. L’impiego di questo mostruoso genere di “arma” destinata a colpire individui inermi intenti ad eseguire pacifiche azioni quotidiane è forse più temibile di un’atomica perché contro di essa non esistono efficaci difese. Il soggetto “bomba umana” non ha rispetto per la propria vita, quindi ogni presidio etico o morale, compresa la vita degli “infedeli” che rappresentano il suo bersaglio, è per lui privo di qualsiasi valore e significato, semmai è il mezzo per ottenere la glorificazione divina.
La produzione di quest’arma non richiede investimento di capitali perché è affidata alla sola persuasione esercitata dagli ulema, dagli aiatollah e dai mullah nelle moschee e nelle scuole coraniche, le madrasse, diffuse ormai in tutto il mondo. E’ subdola come un gigantesco cavallo di Troia perché si insinua silenziosamente, nelle nostre comunità, purtroppo con l’acquiescenza cieca e demenziale delle autorità occidentali, con il consenso dei parlamenti, persino delle gerarchie cattoliche e con il sostegno delle organizzazioni politiche, pacifiste, filo-palestinesi e no-global. Ed è diventata ormai una gigantesca metastasi che non ha più paura di inneggiare apertamente allo jiahd ed è pronta soffocare come una piovra il mondo occidentale.
Le azioni criminali di New York, Madrid e Londra sono solo episodi dimostrativi che si ripeteranno, e che possono essere ripetuti contemporaneamente alla stesa ora del medesimo giorno in molti paesi occidentali.
Salta chiaramente agli occhi la diversa percezione del Bene e del Male esistente tra le due realtà, quella occidentale e quella islamica. I popoli occidentali, al netto dei loro governi, hanno finalmente compreso, anche se in ritardo, l’incombenza del pericolo arabo-islamico. Purtroppo da più parti si vuole sostenere che non deve confondersi il terrorismo con l’Islam, ma ormai i comportamenti individuali e governativi sono condizionati da una minaccia che mai come adesso si paventa pericolosa e incontrastabile.
E’ di questi giorni la discussione sul relativismo, avviata qualche anno fa dall’allora cardinale Ratzinger e sostenuta dal Presidente del Senato italiano, Marcello Pera.
Il riferimento di Ratzinger è diretto naturalmente al relativismo dei comportamenti nei confronti della fede, mentre quello di Pera afferma più che altro la responsabilità sociale dell’individuo. Entrambi i discorsi riguardano un modo nuovo di intendere il “rapporto” etico e il sentimento morale. L’argomento è diventato d’attualità con l’ascesa al soglio pontificio di Papa Ratzinger ed è stato riproposto con maggiore forza proprio in questi giorni dallo stesso Bendetto XVI alla Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) a Colonia, quando ha messo in guardia i giovani dal pericolo del relativismo della fede e da Marcello Pera al Meeting di Comunione e Liberazione (CL) di Rimini, allorché ha auspicato e teorizzato, un radicale ritorno all’influenza della morale religiosa nella politica dei governi, oltre che nella pratica quotidiana.
La “proposta” di Pera ha sollevato, com’era prevedibile, un mare di proteste. Figuriamoci! Ma lasciamo da parte gli attacchi a Pera, soprattutto quelli di chi ha riesumato Cavour per additare il Presidente del Senato al pubblico ludibrio e valutiamo serenamente la portata sociale di richiami così attuali e coinvolgenti nel contesto descritto, che riguarda l’attualità sociale di milioni di individui.
Clausewitz ha spiegatato che i principi difensivi consolidati nella pratica attuata dagli eserciti di tutti i tempi vogliono che la progettazione e la realizzazione di un sistema difensivo, per sperimentata e concorde dottrina, deve concepirsi e concretizzarsi in una dotazione di mezzi, persone ed apprestamenti di potenza almeno doppia, se non superiore, a quella che prevedibilmente sarà adottata dal nemico. Capace comunque di contrastarne l’avanzata, arrestarne la forza ed esaurirne l’offesa. C’è dunque da chiedersi, come potranno i governi occidentali, i nostri governi, contrastare l’attuale nemico ormai dichiaratosi tale, quello islamico, già schierato in casa nostra ben oltre le sue tradizionali frontiere, i cui ideali sono dichiaratamente sorretti da una fede religiosa devastante e da un fanatismo politico bigotto, poco osservante degli accordi internazionali, per nulla interessato ai principi democratici di rispetto degli individui e delle regole, con la semplice opposizione dei principi di democrazia, di libertà e di uguaglianza? I nostri principi non saranno mai adottati nei loro sistemi di governo, nei loro tribunali e nella loro organizzazione amministrativa. Vediamo in questi giorni in Iraq come le realtà politiche locali, non solo sunnite, si adoperino per rallentare se non bloccare il processo di democratizzazione del paese, pretendendo che la costituzione (la prima, non la nuova) tragga i suoi fondamenti dal Corano e non dai trattati internazionali sui diritti umani. Dopo la corsa esasperata alla laicizzazione della famiglia e delle strutture governative, ultimamente accelerata dalla falsa esigenza di “non offendere gli “ospiti” islamici (per fortuna graditi solo da una minoranza di cittadini), dovremo finalmente renderci conto che questi nostri principi, frutto di un’evoluzione lenta ma ben radicata e che costituiscono l’ossatura portante della nostra civiltà, sono utilizzati da questa specie di “nemico” per attuare indisturbato la penetrazione-invasione del nostro territorio, sfruttando astutamente le garanzie assicurate dalle nostre stesse leggi agli individui in quanto tali, anche se non provvisti di cittadinanza. Ciò che muove i flussi di immigrazione è la determinazione di attuare la cancellazione della nostra civiltà e soprattutto della religione cristiana e la sostituzione delle regole sociali e del Cristianesimo con le loro regole sociali e con la religione mussulmana.
La storia del resto si ripete. I Cristiani hanno per due millenni sostenuto la loro tesi che è quella di aver corretto tutte le storture della religione ebraica, accusando gli Ebrei di essere rimasti fermi alle origini, di continuare impunemente ad attendere la venuta del Messia e negando cittadinanza al Cristo crocifisso. Dal canto loro i Mussulmani, venuti circa 800 anni dopo i Cristiani, ritengono di avere a loro volta perfezionato le storture della religione cristiana e perciò stesso si ritengono custodi e detentori della Verità.
Dopo i formidabili attentati che a partire dal 2001 hanno insanguinato il mondo, diventa sempre più evidente che si tratta di selvaggi che rifiutano l’evoluzione del pensiero e delle abitudini e affermano una visione statica dei rapporti individuali e sociali che non tollera commistioni con le altre civiltà. La visione islamica della vita, delle regole e dei rapporti con l'ancestrale che devono guidare la vita sociale, è in effetti rimasta, con qualche lieve diversa sfumatura, quella arcaica adottata dai popoli che alcuni millenni fa adottarono le Tavole della legge ricevute, si disse, direttamente da Dio.
Lo testimonia il fatto che essi, dopo oltre mille anni, fanno ancora riferimento ai Crociati e continuano a definirci infedeli, quindi oggetto “privilegiato” di torture, stermini e distruzioni, come se il tempo non fosse passato.
In assenza di un processo evolutivo morale ed etico, ogni individuo sarebbe obbligato a seguire un sistema comportamentale e sociale del tutto simile a quello degli animali nel quale, come abbiamo visto, le azioni sono suggerite direttamente dalle necessità contingente, ed il Bene e il Male sono tali in quanto soggettivamente rappresentano un beneficio o un pericolo per l’incolumità fisica soggettiva, per il sostentamento proprio e per la continuazione della stirpe.
Nel mondo islamico, ad esempio, la vendetta è Bene, il saccheggio è Bene, la lapidazione è Bene, mentre il Male consiste nella diversità della genie, nella religione altra, nel sistema di governo democratico, nella lingua occidentale e nei principi di democrazia, libertà, libera determinazione, articolazione del pensiero, confronto, comunicazione tra i popoli. Come si fa a sostenere la necessità dell'integrazione da tra due così diverse realtà? Tuttavia, se approfondiamo lo studio sul sistema che governa le civiltà islamiche, scopriremo che gli Islamici hanno a loro modo costituito strutture di formazione della persona e di aggregazione delle comunità, sono guidati dalla forza degli ideali fondati sulla la potenza morale e sul sostegno etico, conoscono il concetto di autorità, hanno sviluppato una coscienza e coltivato persino la solidarietà, sono capaci di sostenere il sacrificio (fino al martirio, come stiamo vedendo), si accontentano di pasti frugali, di abbigliamenti approssimativi, di ricoveri fatiscenti. Questa condizione non procura loro sofferenza, ma è accettata con naturale accondiscendenza. Il problema consiste nel fatto che i loro obiettivi, per quanto semplici ed elementari, non coincidono con quelli occidentali, anzi sono addirittura opposti, diversi ed inaccettabili perché prevedono la distruzione della nostra civiltà.
Vale la pena di verificare alcune considerazioni, per potere ancor meglio comprenderre come il Bene e il Male non siano altro che un pretesto cui ciascuno può attribuire significati concordati o interpretazioni personali e soggettive di pura convenienza.
Al punto di “progresso” in cui si trovano le società cosiddette occidentali, è facile condannare il sistema sociale islamico nei suoi aspetti di vita quotidiana, nelle scelte di applicazione della giustizia, nella conduzione dei rapporti tra Stato e cittadini, quindi nell'ingerenza totale della religione nella cosa pubblica e privata. Ma se ci riportiamo al tempo in cui anche le società occidentali erano governate da regimi ecclesiastici che obbedivano alle prescrizioni teologiche emanate dal Papato di Roma, potremo riscontrare profonde analogie con quello che è oggi il sistema islamico di governo dei popoli. Il diritto canonico si niforma ai 10 comandamenti, ma sorgono comunque motivi di interpretazione per giungere a soluzioni condivise dalle gerarchie ecclesiastiche. Così la violazione di un semplice principio etico quale può essere il “Non desiderare la donna degli altri”, dove già è aberrante presupporre che possa esistere una sanzione del desiderio, che è puro pensiero, non materializzato da atti concreti e che dovrebbe rimanere nella disponibilità dell'individuo, diventa invece il mezzo per concepire tutta una serie di norme di diritto sostanziale, accompagnate da pene che, in tempi bui come quelli vissuti dalle comunità europee tra il Medioevo e l’Ottocento, possono passare senza ostacoli attraverso l’imposizione della clausura, attraverso il rogo, la tortura, la decapitazione, il carcere a vita, la deportazione, ecc. Ebbene, quando nelle madrasse, cioè nelle scuole coraniche, sorte anche in Italia come funghi, con buona pace della riforma scolastica, insegnano alle adolescenti che non devono indossare la gonna, che non devono smaltarsi le unghie o mettere il rossetto, che non devono sedersi accanto ai maschi e che devono indossare il velo, c’è poco da meravigliarsi. Non dimentichiamo che anche in Italia, fino a qualche decennio fa, le donne non erano ammesse in chiesa senza velo e nel meridione rossetto, smalto, gonne corte e frequentazioni maschili erano considerate segno di devianza grave (il comune sentire dei Meridionali non ha ancora del tutto superato questo stadio).
Del resto “le donne della Chiesa cattolica”, ossia le suore, sono obbligate a portare il velo come è d'obbligom per le “donne islamiche”. Il fatto è che nel mondo islamico non c’è la differenza tra le suore e le altre donne che c’è nel mondo occidentale: tutte le donne sono uguali davanti ad Allah, pertanto tutte le donne devono osservare comportamenti coerenti con la fede che professano. Non fa una grinza. E vogliamo anche ricordare che ai ladri le autorità islamiche recidono la mano? Da noi chi ruba, oltre a qualche trascurabile fastidio, viene immediatamente posto in libertà, con licenza di dedicarsi nuovamente alla sua attività preferita. Ma la confusione tra Bene e Male si materializza soprattutto nel Parlamento italiano, dove una schiacciante maggioranza di politici si dichiara più che altro favorevole all’immigrazione selvaggia ed è convinta della possibilità di realizzare nel lungo termine un’integrazione che in realtà è pressoché impossibile. Ebbene, quegli stessi parlamentari sono contrari ad una revisione delle leggi sulla prostituzione, sull’aborto e sulle altre leggi che hanno favorito la degenerazione dei costumi. Come possono pensare costoro che gli islamici possano integrarsi in un clima di malcostume dilagante assolutamente lontano dalla interiorizzazione delle loro regole e dei loro comportamenti, obbligati insieme dalla loro fede e dalle loro leggi e dai loro costumi? Questi rappresentanti più di sé stessi che del popolo, non hanno alcuna idea della realtà che li circonda e rappresentano anzi essi stessi un pericolo per la civiltà occidentale, ancora di più del pericolo rappresentato dalla lenta ma inesorabile penetrazione-infiltrazione degli Islamici in Europa e nel mondo occidentale. La giornalista Lilly Gruber, parlamentare europea, ha affermato in questi giorni che il fenomeno dei cosiddetti kamikaze è la conseguenza della scarsità di posti di lavoro nei loro paesi. Nessun commento. Forse una interpretazione personale in chiave austro-ungarica del secolo passato. In alcuni paesi islamici vige la lapidazione. Il nostro codice fino a qualche decennio fa prevedeva il duello come pratica consentita a certa condizioni e il delitto d’onore. Per quest'ultimo, comminava pene irrisorie ai trasgressori. Un precetto questo che di civile aveva poco e niente. Ecco come il concetto, il significato, di Bene e il Male può cambiare nel giro di pochi anni e nella medesima società. Di certo i popoli islamici sono indietro rispetto a quelli occidentali, ma quel che non si digerisce è il fatto che progressi in materia di adozione del sistema democratico in quei paesi se ne registrano ben pochi. Sono popoli fermi al Medioevo, la religione mussulmana non li aiuta affatto e l’integralismo non è stato mai minoritario, anzi cresce e coinvolge i governi ed accusa i moderati di essere essi stessi nemici dell’Islam.
In genere l’attenuazione della devianza sociale si consegue mediante la realizzazione di un maggior controllo del cittadino da parte dei governi, mentre la capacità di aggregazione, finalizzata al perseguimento del Bene sociale, aumenta con l’instaurarsi dell’abitudine all’ordine ed alla disciplina e con l’accrescimento del sentimento di solidarietà.
Il grande padre dell’etologia, Konrad Lorenz, ha messo a punto degli schemi relazionali di gruppo che hanno grande valore anche per spiegare la cognizione che ha l’individuo umano del Bene e del Male. Frans de Waal, sulle orme di Lorenz, ha registrato le condizioni necessarie per lo sviluppo della moralità nel gruppo, il valore del gruppo, l'aiuto reciproco, i conflitti interni, osservando che i conflitti all’interno del gruppo devono essere risolti attraverso un equilibrio degli interessi individuali e collettivi. Equilibrio che può realizzarsi in due differenti livelli:
- tra due individui, nell’interesse di ciascuno;
- nel gruppo, con l’intervento di individui con spiccate capacità, che agiscono d’iniziativa, nell’interesse della comunità.
Anche in questa esperienza appaiono necessari i concetti di Bene soggettivo e di Bene sociale: il primo è basato sull’equilibrio delle capacità tra soggetti interagenti o sulla prevalenza di un soggetto sull’altro; il secondo è basato sull’esigenza di salvaguardare il mantenimento dell’organizzazione sociale affinché in seno ad essa si possano sviluppare la cooperazione e la solidarietà.
Per ogni specie si pone in natura il problema dell’estinzione; ed ogni specie sviluppa sistemi di adattamento che tendono a sottrarre gli individui e la comunità stessa ai pericoli naturali, per garantirne all’infinito la riproduzione della specie e la sopravvivenza della stirpe. E’ del 1907 uno studio di Ernest Seton, che all’epoca fu seguito da altri analoghi studi, in cui si afferma che in fondo l’instaurazione delle leggi nei gruppi umani fa parte di un processo naturale che contribuisce alla conservazione della specie. Tra i vari sistemi di conservazione delle stirpi prevale dunque quello dell’organizzazione sociale, più spiccato nelle comunità umane, ma riconoscibile anche nelle comunità animali.
Il mezzo educativo tiene conto della capacità di interiorizzare un sistema da parte dell’individuo. L’interiorizzazione, ossia l’acquisizione dell’abitudine ad assumere determinati comportamenti nelle corrispondenti situazioni, assume nell’uomo la forma dell’abitudine. Il conseguimento dell’abitudine è dunque la garanzia che ha ogni società di poter affidare all’individuo compiti di natura sociale, con un rischio di devianza calcolato e sopportabile. La probabilità di devianza è correlata ad una serie di fattori personali ed ambientali e può essere dunque prevista con anticipo.
Da questa esperienza è derivata la pratica amministrativa della selezione attitudinale che include, oltre alla ricerca dell’idoneità, la formulazione di un quadro qualitativo morale e psichico del soggetto. Partendo da una massa di individui interiorizzati, che hanno cioè acquisito l’abitudine al rispetto delle leggi, il processo selettivo dovrebbe in generale registrare un minor numero di errori.
Dall’osservazione dei comportamenti animali, emerge un quadro sconfortante. L’interiorizzazione è generalmente parziale e la sua assimilazione si esprime solo in presenza dell’ente umano da cui dipende il sostentamento o la sanzione. L’animale che si imbatte in un fenomeno nuovo fa un rapido calcolo e valuta Bene o Male ciò che può conseguire o ciò che deve aspettarsi, in rapporto diretto con l’evento, facendo prevalere il diritto naturale sull’interiorizzazione ogni qualvolta si verifichi un stato di convenienza o di sconvenienza sociale che lo coinvolga.
In una gabbia divisa in due da una rete ospitavo da una parte una coniglia e dall’altra una cavia. La coniglia era ghiotta di barbabietole da zucchero e dopo aver rosicchiato la propria porzione, saltava nella gabbia adiacente per mangiare la parte della cavia. Un giorno l’ho rimproverata, costringendola a tornare nella sua gabbia. Bene, in seguito ho potuto osservare che l'animale aveva immediatamente interiorizzato sia il divieto di “rubare” la barbabietola dell’inquilino confinante, sia il fatto che in caso di violazione sarebbe stata di nuovo rimproverata; infatti da quella volta, non si azzardò più a saltare nella gabbia della cavia in mia presenza, però quando entravo nel magazzino, osservandone non visto il comportamento, ho visto che si ergeva sulle zampe posteriori e dopo essersi assicurata che non ero in zona, saltava nella gabbia della cavia e ne mangiava la porzione (sicuramente con soddisfazione, ma stando in guardia per prevenire un mio intervento); infatti, quando mi sentiva ritornare, rientrava nella gabbia per sottrarsi al rimprovero.
I gatti hanno una capacità di interiorizzazione superiore a quella del coniglio, e sono in stretta misura più affidabili, ma quando si tratta di cibo anche loro non vanno troppo per il sottile. Comunque si adattano in breve tempo, dopo tre-cinque giorni, alle situazioni nuove, quali ad esempio il cambio del luogo ove ricevono il pasto o lo spostamento della cassetta per i bisogni. Ad ogni cambio marcano la nuova area di competenza, vi stazionano durante la giornata in attesa del pasto, vi depositano gli escrementi, vi dormono e vi cacciano. I gatti sono anche in grado di associare alle parole ed al tono di voce della persona che li custodisce gli umori della stessa, quando favorevoli, quando avversi o quando indifferenti. Alla direzione del cammino del loro custode associano l'atto preparatorio del pasto, avviandosi inutilmente alle ciotole, ma subito comprendono che non è l'ora e si accovacciano assistendo alle sue attività senza ingerenze. Gli animali in genere sono comunque più affidabili degli uomini nei rapporti sociali tra individui, all’interno del gruppo e nei rapporti con l’uomo, malgrado le difficoltà di ottenere una efficace interiorizzazione. Ciò dipende dal fatto che gli animali, a differenza dgli uomini, non subiscono le ideologie nelle forme assolute dell’integralismo di cui è capace l’uomo. Le ideologie acquisite dagli animali combaciano specularmene con i concetti di Bene e di Male, nella purezza della loro percezione. Ma spiccato è il senso della gelosia che è percepito comunque come fattore di Bene, con tutte le implicazioni di pericolosità che può generare (soppressione di piccoli bambini lasciati soli incautamente nella sfera del loro dominio. Quando i concetti di Bene e di Male acquisiti dagli animali coincidono con gli analoghi concetti maturati dagli individui umani, si realizzano delle convergenze stupefacenti; ed è in questi casi che l’interesse dell’uomo per gli animali assume valori di affidabilità superiori a quelli concedibili ai propri simili. Nei rapporti tra uomo e uomo, si forma sempre la riserva mentale, dopo le esperienze negative dei tradimenti subiti in ambito materiale, ideologico e personale. Pensiamo ad un domestico che fugge con l’argenteria del padrone, ad un sacerdote che si spreta e fugge con una parrocchiana, ad una moglie che tradisce o abbandona il marito, al ribaltone di una parte politica nei confronti degli alleati. Gli esempi di tradimento sono molteplici e quotidiani e la loro incidenza sull’integrità dei rapporti umani accende lumi di chiarezza sul continuo modificarsi dei significati di Bene e Male a seconda delle spinte emozionali e della minore capacità dell’animale interiorizzato di tradire l’amico uomo. Le osservazioni di Lorenz mi aiutano pertanto a concludere circa l’influenza dell’interiorizzazione sul comportamento sociale. Per quanti sforzi faccia l’individuo, sotto la spinta sociale, per interiorizzare comportamenti, obblighi, divieti, è sempre latente in lui il limite posto dalla natura, per cui le azioni ed i fatti vengono istintivamente percepiti come Bene o Male in funzione dell’influenza che essi esercitano sulla sua sfera d’interesse. L’assenza di controllo e la certezza dell’impunità vanificano lo sforzo della comunità di elevare il tono morale ed etico degli individui e di migliorare il tenore dei rapporti umani in seno alla società.
E’ di questi giorni la pubblicazione di una tesi accademica di un gruppo di ricercatori inglesi, che ha suscitato perplessità negli strati del “politically correct” di tutti e due i “mondi”. Lo studio condotto dall’equipe, guidata dal prof. Henry Harpending, relaziona sul Journal of Biosocial Science che il popolo ebreo, in particolare gli Ebrei ashkenazi, ha maturato un livello di intelligenza superiore rispetto agli altri gruppi etnici ed alle altre civiltà presenti sul pianeta, perché vittima più di altri gruppi, per secoli, di pogrom e discriminazioni.
A sostegno di questa originale tesi viene portata l’alta percentuale di premi Nobel conquistati dagli Ebrei nello scorso secolo con le scoperte scientifiche e le invenzioni che hanno elevato le condizioni di vita del genere umano e con la formulazione di teorie ideologiche, sociali e politiche che hanno rivoluzionato l’organizzazione mondiale ed i rapporti tra Stati, governanti e cittadini, molto di più di quanto abbia realizzato la rivoluzione francese (Albert Einstein, Sigmund Freud, Leonard Bernstein, Saul Bellow).
Nella tesi si fa anche la comparazione dei risultati conseguiti dagli Ebrei nel periodo delle persecuzioni naziste e bolsceviche con quelli conseguiti dagli Ebrei liberi insediati nello Stato d’Israele. In entrambe le situazioni, gli scienziati ebrei hanno conseguito risultati in numero superiore e di livello maggiore rispetto a quelli conseguiti dagli scienziati appartenenti ad altri paesi liberi o ad altre etnie.
Secondo la tesi del Prof. Harpending questi traguardi potrebbero essere il frutto degli stimoli ricevuti da questo popolo durante le persecuzioni subite nel corso dei millenni. Questa immane epopea avrebbe indotto negli individui una elevata capacita di sviluppo intellettuale e generato una esasperata necessità di evoluzione e di generazione di sistemi di sopravvivenza e procedure di sopportazione e reazione che hanno incrementato le doti della ragione e la capacità di sintesi e in una parola hanno consentito un eccezionale sviluppo della loro intelligenza.
Bisogna comunque fare attenzione a non confondere lo sviluppo dell’intelligenza con l’evoluzione delle specie teorizzata da Darwin. Il processo d’incremento dell’intelligenza non fa cessare le inclinazioni istintuali naturali nell’individuo; semmai le specializza e le esaspera. Per dirla con una definizione che tenga conto dei “fenomeni” primordiali della comparsa della materia, della strutturazione dell’universo e dello sviluppo della vita, fenomeni tuttora incomprensibili all’uomo, l’accrescimento dell’intelligenza sostiene, non elimina, le dotazioni naturali ed ataviche poste a base della sopravvivenza, che peraltro sono inscindibili dal fenomeno in se stesso (paura, bisogno, spirito di conservazione, riproduzione della specie). Nessuna illusione, dunque, che quel qualcosa che Darwin ha chiamato evoluzione delle specie possa avere evoluto in una minima parte, di pari passo con la funzionalità degli arti, l’adattamento al clima ed alle latitudini e lo sviluppo delle specializzazioni, anche gli istinti dell’essere proto-umano. Semmai questi processi li hanno modificati in peggio, non nella direzione evolutiva teorizzata da Darwin.
Domenico Rea ha scritto: “Come un napoletano passa da qualche parte, svelle, rompe, smonta, dissacra, imbruttisce, rende putrido e inabitabile. Sta male se non lo fa. L’uomo napoletano, povero o ricco, nobile o plebeo, si porta addosso una sorta di vandalica malattia ereditaria. E’ una rogna attaccata al suo cuore, al suo istinto di calpestare, imbrattare, deturpare, sfregiare il bello. Io ho detto sempre di mandare a scuola di rieducazione civica tutta Napoli.
Molti uomini di cultura, pensatori, osservatori, si sono interessati a questo fenomeno, tutti concordando sulle caratteristiche negative del popolo napoletano: Montesquieu, Fucini, Leopardi, Freud, De Sade, Bocca, Dumas, Dickens. Eppure le occasioni offerte ai napoletani nel corso dei secoli non sono diverse da quelle offerte ai popoli vicini.
E’ evidente che hanno giocato condizioni ambientali che hanno reso più reattiva l’intelligenza dei napoletani, senza modificarne gli istinti, ma specializzandoli in negativo, con i risultati che tanti osservano. Le capacità naturali si affinano dunque, si specializzano, a seconda della portata dell’ostacolo che incontrano, ma non si modificano, e soprattutto non scompaiono.
E’ impensabile la prospettiva che in futuro l’essere umano rinuncerà, oltre che ad aggredire, uccidere e depredare, anche a difendersi, alimentarsi e riprodursi.
Come può facilmente comprendersi, il legame tra le condizioni esterne che si verificano indipendentemente dalla volontà di un soggetto e l’elaborazione del fenomeno dell’auto-protezione in senso lato, producono nell’individuo la predisposizione a compiere atti adeguati e coordinati in opposizione all’evento che li stimola e la cui proibizione da parte dell’autorità piuttosto che ottenerne il controllo, ne specializza l’esecuzione in termini di disegno tattico ed organizzazione, accrescendo di pari passo le facoltà deduttive e creative che sono altra cosa rispetto all’istinto naturale.
San Tommaso ha lasciato delle riflessioni che giovano in parte a sviluppare i concetti fin qui espressi. Dice San Tommaso: “I limiti dell’autorità umana che presiede la vita di un gruppo coincidono esattamente con i limiti del bene comune che questo gruppo ha diritto e volontà di raggiungere. Tocca all’autorità far si che ogni membro del gruppo raggiunga la propria perfezione, non dilatandosi, ma proporzionandosi e inserendosi nella compagine del gruppo; imparando perciò a occupare il proprio posto ed osservando il proprio ruolo.”
Questi concetti non sono difformi da quelli che la più antica organizzazione sociale di riferimento per le organizzazioni sociali, quella militare, professa e pone a fondamento della convivenza produttiva che organizza le comunità militari: i concetti di ordine e di disciplina. I regolamenti militari definiscono questi concetti “abitudini”. L’ordine è l’abitudine di mettere ogni cosa al suo posto e di fare ogni cosa al tempo dovuto; la disciplina è l’abitudine di rispettare le gerarchie e di compiere il proprio dovere.
Si potrebbe pensare che di questi concetti ai Napoletani di Rea non ha mai parlato nessuno. Il problema è molto più articolato, ma ciò non toglie che il contenimento degli istinti naturali nell’uomo va realizzato mediante una formazione costante e controllata che induca l’individuo ad acquisire l’abitudine a comportamenti socialmente accettabili.
In effetti, non si può teorizzare una evoluzione della specie umana che conduca al “miglioramento” dei rapporti sociali, nel senso progettato dai governanti detentori e gestori dell’autorità, ed alla scomparsa degli istinti a favore della “ragione”, dove la ragione si identifica nei comportamenti voluti dalle leggi e dalle regole sociali (peraltro in continua trasformazione) ed elaborati dai capi che reggono i destini delle comunità. Si può invece ammettere che si verifichi un progresso dell’intelligenza, ma in funzione di servire meglio le esigenze naturali dell’individuo che sono e rimangono inscindibili dalla sua natura.
Nel “futuro” dell’uomo non dovrebbe dunque esserci nulla di nuovo oltre quello che è già avvenuto. Questa analisi punta a dimostrare che molto è ancora possibile fare, ma questo progetto appare oggi utopico, in quanto investe la determinazione di molti governanti e richiede un impegno delle strutture sociali in direzioni diverse da quelle intraprese dalle attuali civiltà. Un tale impegno poi non risolve il futuro dell’uomo, perché deve essere riproposto, sempre con maggiore energia e con una capacità di presa più determinata, nei confronti di ognuna delle generazioni che si succederanno. Infatti, se diminuisse il flusso di controllo dell’attuazione del progetto, riemergerebbero immediatamente i contrasti fra la concezione oggettiva e il sentimento soggettivo del Bene e del Male. Si possono migliorare i rapporti sociali, si possono indurre gli individui ad integrarsi in un sistema controllato, ma non si può modificare la natura dell’uomo, una natura che nel pensiero sociale potrebbe definirsi “selvaggia” ma che in astratto non è né Bene, né Male, ma semplicemente ciò che la “natura” ha previsto che sia. A proposito di integrazione... per dimostrare che in moltissimi casi essa è improponibile ed irrealizzabile, basterebbe studiare l'evoluzione dei gruppi Rom, sostanzialmente ferma da secoli (per no dire millenni), benché gruppi stanziali siano stimolati ad accedere all'istruzione, benché la loro vita in fin dei conti si adatta al modello locale, in realtà essi conservano lo spirito ribelle, le abitudini randage, l'istinto di appropriarsi delle cose altrui, la tendenza ad elemosinare, cioè a vivere da parassiti. Solo qualche individuo ha trovato in sé la capacità e l'energia di integrarsi, vive e lavora in seno alla comunità, ed ha acquisito buona parte dei costumi correnti e dei valori di riferimento. Possiamo manipolare una specie floreale, modificarne il profumo o farlo sparire del tutto, possiamo modificarne i colori, renderla fertile o sterile, aumentarne la capacità riproduttiva, ma la base fondamentale e strutturale, le reazioni alla luce, al freddo, alla siccità, rimangono immodificabili perché fanno parte di un “progetto” che non è stato né pensato né realizzato dall’uomo ma ha avuto origine da qualcosa di incomprensibile che molti, sia pure in diverso modo e con differenti finalità, si ostinano ancora a chiamare Dio.
Ciò che rimane da fare è dunque impostare in modo diverso le regole della convivenza. Le esperienze negative vissute dall’uomo nel corso dei millenni fino ai nostri giorni, anziché suggerire l’adozione di soluzioni educative innovative, non riescono a produrre altro che innumerevoli polizie, diverse tipologie di boia, pene sempre più articolate, leggi penali sempre più specifiche e attualizzate, carceri di massima sicurezza, specializzazione degli organi giudicanti, incentivi al pentimento a alla delazione, intercettazioni, registrazione degli spostamenti delle persone e dei capitali; ma nulla in realtà concludono e nulla di più ottengono dall'individuo, tranne quello che gli viene imposto dalle leggi e che è costretto a fare sotto la minaccia di sanzioni e sotto il controllo di altri individui particolari. Tutti i provvedimenti citati non rappresentano né una minaccia, né un deterrente: l’individuo si adatta ai nuovi criteri ed elabora tecniche di sopravvivenza sempre più sofisticate e specializzate e continua a deviare dalle regole, continua a ferire, uccidere e rubare. Infatti i livelli di criminalità sono costantemente in aumento anzi, a causa del dilagare dei fenomeni di crisi globale e di globalizzazione delle persone, notizie e dei beni, sono diventati del tutto incontrollabili: si pensi all’esportazione del fenomeno mafioso col relativo proliferare del commercio di droga e prostituzione, agli hacker informatici, all’immigrazione clandestina, al terrorismo islamico e al fanatismo religioso, all’inquinamento terrestre ed atmosferico.
Nessuno riuscirà mai a modificare l’istinto dell’individuo fino a costringerlo ad agire secondo i principi che la società impone perché li considera costitutivi della “ragione”; ma l’individuo naturale medio continuerà a contrastare questi principi ogni volta che verranno opposti all’esercizio del suo libero arbitrio, a dispetto di tutte le leggi, di tutti i tribunali e di tutte le polizie, perché la sua “ragione” personale non coincide con la “ragione” ufficiale dell’autorità costituita e con la “ragione” del diritto concordato, ma si nutre della coerenza del diritto proto-naturale che per alimentare le esigenze primarie dell’essere in quanto tale ed in quanto arbitro dei destini propri e della propria stirpe.
Traggo dal “Discorso sull’Autorità” di G.Cattaui de Menasce (Editrice Studium) alcune riflessioni contenute nei documenti del Concilio Vaticano II (Dichiarazione Dignitatis Humanae) e nelle riflessioni di San Tommaso: ”La vita sociale e politica ci offre numerosi esempi di disastri provocati da riformatori fanatici, logici, e perfezionisti. Essi vogliono introdurre nella legge positiva e porre sotto il potere dell’autorità sociale tutti quei doveri e quelle proibizioni che riguardano la legge morale. Dimenticano così che uno dei requisiti giustamente richiesti dalla legge positiva consiste nella possibilità che la legge ha di essere osservata nella maggioranza dei casi. La legge troppo perfetta, conduce gli uomini ad una situazione morale peggiore di prima. Ricordiamo le conseguenze del proibizionismo negli USA, figlio di un sillogismo pericoloso che è nel patrimonio morale americano : la nascita del gangsterismo organizzato.”
Occorre forse immaginare un sistema di interventi educativi, organizzati di concerto fra gli Stati, sostenuti da controlli capillari ed incentivati massimamente con corrispettivi statali nella logica del “do ut des”, produttori di un fattore sostanziale ed imprescindibile: “l’abitudine” (l’abitudine al rispetto delle persone, degli animali, delle cose, delle leggi; l’abitudine all’ordine materiale ed all’ordine morale; l’abitudine alla solidarietà, al dovere, al sacrificio). Soltanto creando le condizioni perché l’individuo non abbia alcuna possibilità di sfuggire alla scuola dell’abitudine, potranno migliorarsi i rapporti sociali si potrà in qualche modo determinare una inversione di tendenza nella maturazione e nella coordinazione del processo educativo. L’obiettivo dovrebbe essere quello di abituare i soggetti alla convivenza ed alla selezione degli eventi Bene e Male nell’ottica sociale concordata dal contratto sociale. Il metodo dovrebbe essere quello di adattare i soggetti al monitoraggio dei propri comportamenti (in parte siamo già su questa strada) ed alla certezza che da quel monitoraggio dipenderà con assoluta certezza il loro benessere futuro o la perdita della libertà, ma soprattutto la certezza della pena; facendo prevalere il desiderio di benessere e di libertà, di cui la società dovrà farsi garante, sul richiamo istintivo che è connesso alla sua natura e che deve essere condizionato dalle dotazioni conseguite con l’esercizio e quindi con l’abitudine. A questo processo l’individuo si può assoggettare solo se sarà certo di avere ben riposto il suo affidamento, se i detentori dell’autorità risulteranno credibili, non come quelli che si sono alternati nella storia, sul conto dei quali possono essere rilevati i medesimi comportamenti di devianza che essi stessi con le leggi si proponevano di contrastare. Un teologo del Cinquecento, il Mariana, osserva in proposito che “la delega in bianco del proprio potere fatta dal popolo ed accettata dal Principe deve essere ritenuto un atto di temerarietà da parte del Principe”. C’è uno spazio ben definito e purtroppo molto limitato, nel quale i soggetti preposti alla formazione del cittadino devono operare. Lo spazio, appunto, che il processo di sviluppo della personalità umana ha realizzato, tra quelle che sono le esigenze dell’essere primordiale presenti in ogni creatura naturale (la paura, i bisogni, la conservazione, la riproduzione, ecc.) ed i costrutti mostrati, insegnati, assecondati ed in sostanza imposti, nel contesto di educazione, controllo e responsabilità che si inquadrano nel merito e nella colpa, quindi nel premio e nella pena e in definitiva nei più ampi concetti di Bene e di Male, ma soprattutto di garanzia da parte dei governi che l’assuefazione alle leggi ed alle regole riserverà a ciascun individuo una cura ed un’attenzione che lo solleveranno dagli esiti delle reazioni della loro naturale inclinazione che si palesano molto di più quando l’individuo sa di essere inosservato o incontrollato, o si trovi in presenza di una ristretta cerchia di adepti, senza elementi della comunità preposti al controllo nei quali occasionalmente potrebbe imbattersi, in assenza di monitoraggio, arbitro di sé stesso e degli altri.
Occorre anche considerare che le abitudini acquisite nel corso dell’esistenza di un individuo non si tramandano e non si trasmettono ai posteri, né si trasferiscono alle successive generazioni attraverso il DNA. Però, vivere in un gruppo familiare, operativo, sociale, in cui la somma delle abitudini degli individui che lo compongono, unitamente agli esempi di solidarietà, genera un clima di ordine e di rispetto delle regole, è fondamentale, per non dire essenziale, per la formazione sociale dei nuovi soggetti che vi si inseriscono. L’esercizio dell’ordine, della solidarietà e del rispetto delle regole favorisce la nascita della coscienza e del senso di responsabilità; ed è infatti la coscienza l’alleato più produttivo della società, quello che mitiga le inclinazioni e coarta l’istinto, che impedisce il comportamento anti-sociale, che arresta la devianza e contrasta l’atto criminoso.
Il viaggio verso l’edificazione di una società senza crimini, osservante delle regole e fondata sui precetti etici è ancora molto lungo. I sostenitori dell’etica, gli osservatori dell’etologia umana e tutti coloro che si affannano a discettare di bene e male, giusto e ingiusto, opportuno ed inopportuno, si sono sempre chiesti, peraltro senza mai giungere ad una convincente conclusione, se per operare una plausibile qualificazione umana e sociale dell’individuo, abbiano maggior rilievo i suoi meriti o le sue colpe. Invero meriti e colpe possono essere attribuiti all’individuo in quanto egli esterni pubblicamente le proprie inclinazioni mediante atti che ne definiscono la formazione sociale, l’impegno nella comunità e la capacità di solidarietà. La comunità osserva, rileva, valuta, classifica. Quindi emette decisioni, attribuisce meriti o colpe, a seconda della corrispondenza tra le azioni dell’individuo e le aspettative della società. A margine di questa incessante attività compiuta dalla società attraverso i suoi organi, bisognerebbe poter stabilire quanto sia rilevante e produttivo che un individuo in pubblico osservi i principi generali della convivenza e venga come tale classificato soggetto sociale equilibrato, tollerante, utile e produttivo; quando poi sappiamo che in privato, o meglio quando lo stesso individuo sa di non essere osservato da alcuno o di essere osservato da pochi, dai quali non teme alcun attacco, o di poter sfuggire agevolmente alle maglie dei tutori della legge, egli probabilmente disattenderà le regole, o peggio vi contravverrà, talvolta fino a delinquere.
L’ovvietà degli esempi è necessaria per ricondurre l’argomentazione fino alla foce della comprensione. C’è una varietà di esempi che si possono fare, in una scala di valori che, per quanto diversi, sono tutti collegati alla premessa: pensiamo all’automobilista fermo al semaforo che si netta le narici o che sbadiglia a tutto campo; pensiamo ancora all’automobilista (categoria fervida di spunti per la valutazione sociale dei comportamenti) che supera il limite di velocità o non dà la precedenza, o guida pericolosamente o conversa al cellulare; pensiamo ai rapinatori, ai borseggiatori, ai cleptomani, agli scassinatori; pensiamo ai pedofili; pensiamo infine alle madri che eliminano i figli, oppure ai figli ed ai genitori che riescono proditoriamente a sterminare la propria famiglia con consapevole freddezza. E’ quindi possibile assumere che ogni essere umano, fuori dal controllo o dall’osservazione dei suoi simili, è talvolta portato a compiere atti che l’etica definisce scorretti e non è raro, anzi, che l’essere assuma comportamenti o compia pratiche di varia natura che si discostano dai principi generali della convivenza civile, tanto da aver ispirato in tutti i tempi la formulazione di dottrine e la enunciazione di teorie nel campo della psicologia, del diritto e della legalità.
La società è un organismo informe e indefinito, governato da due opposte tendenze: quella teorica, costituita dalle leggi, da cui discende la pretesa dell’osservanza dei principi posti a base della civile convivenza; quella pratica, che è prodotta dall’incontro tra la natura dell’uomo, governata dagli istinti, e la ragione, che si è formata in ciascun individuo attraverso l’assimilazione delle regole vigenti nel gruppo di appartenenza e attraverso il conseguimento dell’abitudine a rispettarle. Quando l’incontro tra queste due modalità, che caratterizzano la reazione dell’individuo all’impatto sociale, avviene senza scontri, ossia all’interno di una comunità che ha concorso nel suo insieme alla formazione dei soggetti, in misura radicale e con metodologie primarie, nell’individuo si generano aspirazioni che a loro volta producono azioni coerenti con le regole adottate dalla comunità. Un arguto adagio popolare vuole che la “buona educazione” consista in quell'insieme di regole che si osservano quando si è al cospetto degli altri e si disattendono quando nessuno ci osserva. Se provassimo noi stessi ad «indossare» questa definizione, troveremo che essa si attaglia benissimo alla nostra indole; e non è neanche il caso di fare degli esempi. Del resto, l’osservanza delle regole contiene nel suo germoglio più recondito una elevata dose di sottomissione patologica orientata a contrastare i desideri e le tendenze naturali. Aggiungerei, anzi, che l’esercizio di eludere le regole della cosiddetta “buona educazione”, può anche prescindere dalla presenza in loco di altri individui: è appena sufficiente non conoscerli o essere certi di potere eclissarsi prima di essere riconosciuti. Ancor di più il fenomeno si scatena quando l’istinto obbedisce ad una tendenza naturale che riemerge di fronte a situazioni di bisogno: dover salire su un autobus affollato; patire la fame o la sete; essere inseguiti da un malintenzionato; paventare un ignoto pericolo (terremoto, inondazione, incendio).
E’ noto che per l’individuo, considerato nella sua dimensione assoluta e collocato in una situazione particolare, le regole fissate dalle società di ogni tempo, non hanno valore definitivo. Le regole cambiano a seconda del momento ed a seconda di chi le progetta. Il codice penale attualmente in vigore, in determinati casi ed in contesti particolari, esclude addirittura la punibilità: il caso più eclatante è quello della “legittima difesa”.
Legittimare un comportamento generalmente considerato asociale qual è quello dell’uccisione di un altro individuo, è in alcuni casi accettato dall’etica morale nel senso che, uccidere qualcuno per “legittima difesa” è giustificabile e persino auspicabile. Il duello, mantenuto nella noistra legislazione fino al dopoguerra, rimane nell’immaginario maschile e in quello femminile, sia pure in diverso modo, un mezzo affascinante di risoluzione delle controversie; infatti i film di cappa e spada e i western e gli incontri di pugilato e di lotta in genere vengono seguiti con interesse e continuano a raccogliere molto consenso. In definitiva la massa dei tifosi delle manifestazioni calcistiche è composta di individui simili agli spettatori delle corride o delle platee che assistevano alle lotte tra gladiatori nell’antica Roma. Abbiamo così modo di osservare che lo spartiacque tra il Bene e il Male viene ad essere costituito da un sottilissimo e fragile filo, soggetto a spezzarsi continuamente, ora per un motivo ritenuto lecito dalla società, ora perché, come vedremo più avanti, l’individuo valuta istintivamente la convenienza a deviare in rapporto alle probabilità di restare impunito. Si consideri ad esempio che, da alcuni anni, quasi tutti i codici delle civiltà contemporanee non contemplano il reato di adulterio. E’ evidente che la società, attraverso le sue rappresentanze politiche, con il degenerare dei costumi, si è auto-assolta da questo reato che, tuttavia, continua a creare disagio sociale e fornisce un contributo elevatissimo al deterioramento dell’istituzione familiare e quindi della società stessa.
La rappresentanza politica sociale, prevalentemente l’ala che si definisce progressista e riformista, argomentando in vario modo circa il diminuito senso comune del pudore, e passando gradualmente attraverso l’acquisizione, nel corpo legislativo, di istituzioni come la separazione coniugale e l’accettazione nel consesso sociale della coppia non sposata o “di fatto”, i cosiddetti “compagni”, ha gradualmente rinunciato a perseguire il reato di adulterio, relegando i sentimenti di disapprovazione che tuttora esso provoca in una gran parte delle coscienze, in un ambito volutamente ignorato e suscita sentimenti di riprovazione che di fatto non sono mai venuti meno nel comune sentire. Ciò è tanto più vero in quanto la cronaca quotidiana ci offre continuamente spunti che lo dimostrano.
Non tutti i popoli della terra convengono su questo tipo di “liberalizzazione”: alcuni lapidano ancora l’adultera, come del resto è avvenuto per millenni fini ai secoli recenti, in quasi tutte le civiltà. In quasi tutti i paesi islamici, ad esempio, l’adulterio della donna viene ancora sanzionato con la lapidazione, cioè con una pratica tribale antichissima che, al solo pensiero, fa rabbrividire chi è provvisto di una “coscienza”. La civiltà di quei popoli, seppur tecnologicamente avviata a tenere il passo con i paesi più progrediti, se non altro come utilizzatrice dell’ingegno altrui, comunque capace di esprimere potenzialità ideative, è rimasta legata ad un proprio modo di sentire, giunto fino alle recenti generazioni per atavica trasmissione degli elementi culturali primitivi legati alla conservazione dell’integrità della stirpe, e non accetta di mutare le proprie regole sociali sopprimendo una pratica, tramandata dalle lontane generazioni, che in definitiva serve si a soddisfare il bisogno di vendetta del coniuge tradito davanti agli altri individui della comunità, ma serve anche a garantire più che possibile l'integrità della famiglia. Nella civiltà islamica, si è radicato un comune sentire sociale che ha assunto maggiore peso rispetto a quello esercitato dalle regole adottate nel resto del modo civile.
L’istinto a deviare dalla norma e di concepire disegni utili ad aggirare la regola è connaturato nell’individuo. Quello di mantenere un profilo legale riconosciuto dagli altri, dall’opinione pubblica, ma più ancora dai soggetti preposti al mantenimento dell’ordine pubblico, è uno sforzo continuo di auto imposizione che consente al soggetto di compiere valutazioni concomitanti alle azioni del vivere, scegliendo i comportamenti che meno si discostino dalle aspettative degli editti e dei proclami dei governanti, o che possano passare inosservate, o che possano rimanere ignorate perché prive di tracce e testimonianze.
Il progresso sociale ha costruito intorno all’individuo dei modelli di aspirazione e di speranza, frutto dell’esperienza coniugata con l’intelligenza e con la ragione, che vengono offerti in modo generalizzato alla comunità ed imposti in modo specifico al singolo; questa funzione della convivenza si propone di alimentare la permanenza di strutture ideologiche atte a colpire l’immaginazione dei soggetti fino a convincerli, quando dell’opportunità, quando della necessità, quando dell’obbligatorietà, di seguire comportamenti standardizzati che, da un lato lo tengano al riparo dalle sanzioni o dalla riprovazione della comunità, e dall’altro tengano al riparo la comunità stessa dal disordine che consegue all’inosservanza del precetto anche da parte di uno solo degli individui suoi componenti.
In realtà ogni individuo mantiene intatta la sua radice morale di selvaggio che ha caratteristiche di indeformabilità e di inattaccabilità. La teoria darwiniana della evoluzione delle specie si frantuma di fronte all’inoppugnabile prova dell’assoluta immodificabilità della natura umana. Ogni creatura si porta dietro un bagaglio di istinti naturali che è un unicum inscindibile dalla sua stessa ragione di esistere: la conservazione delle specie, quindi le ragioni dell’accoppiamento (il piacere del sesso dovrebbe essere considerato null’altro che un trucco della natura per indurre l’individuo a riprodursi), la sopravvivenza ed i più elementari bisogni naturali, quindi la necessita di difendersi ed offendere, di cacciare, di predare, d’impadronirsi, di accumulare; ed ogni tentativo di incanalare l’istinto, di condurlo lungo tracciati concordati tra i promotori dell’organizzazione sociale, è destinato, nella maggior parte dei casi, a fallire. Vediamo la contesa israelo-palestinese di cui non si vede sbocco alcuno se non quello dell’annientamento di una delle parti. Ma, non illudiamoci. La restituzione della Striscia di Gaza in corso in questi giorni sarà con ogni probabilità in futuro motivo di nuovi e più accesi scontri ed oltre al surriscaldamento del fronte palestinese, appagato dall’iniziativa di Sharon, si verificherà anche l’apertura di un fronte interno con gli ortodossi radicali sfrattati e privati di una parte consistente della loro vita e delle radici che avevano trovato impianto a Gaza per iniziativa di precedenti governi.
A metà strada tra la foresta impenetrabile della psiche di ogni creatura umana e la fatua costruzione eretta dai promotori dell’evoluzione e dai loro continuatori, c’è il grande fiume della vita umana, che trasporta i detriti della storia dell’umanità ed i relitti della quotidianità, della solitudine, della disperazione, della follia, dell’interesse personale, preminente rispetto all’interesse degli altri, diversi.
Talvolta emerge un individuo che compie un atto eroico e l’attenzione della massa degli individui, amorfa per definizione, viene catturata dalla fantasia e ciascuno pensa di poter emulare, all’occorrenza, quel cittadino modello; ad esempio la cattura di un criminale che ha violato le regole, il salvataggio di qualcuno in procinto d’annegare, un atto generoso verso chi soffre.
La condizione, l’ostacolo, l’imposizione, non modificano il pathos, che è diretta conseguenza della naturale inclinazione, la quale, a sua volta, si produce nell’intelletto dell’individuo come supremo corredo della necessità di salvaguardare innanzitutto la stirpe. Il maturarsi ed il progredire dell’intelligenza, possono talvolta, operare una qualche, sia pure impercettibile, trasformazione dell’istinto, ma occorrono processi di enorme durata, lunghi quanto è durata la specializzazione degli individui e la maturazione dell’intelligenza.
Nella realtà naturale, l’inclinazione a delinquere di ogni individuo, più o meno sviluppata a seconda dell’incidenza sulla stirpe della minaccia e del bisogno, è, in quanto tale, un’invenzione della società. Ogni volta che l’individuo compie un atto contrario alla regola concordata dai membri della comunità, questi sente di compiere solo in apparenza una deviazione. Il concetto di devianza non fa parte della natura dell’uomo; i suoi “ricordi” ancestrali, mediante l’elaborazione di un piano di reazione e di contrasto, esorcizzano la paura del buio, la paura di rimanere soli, la paura di dover subire una violenza.
In questo consiste l’evoluzione dell’essere, prima che agisca ogni altro influsso esterno, nella capacità di maturare azioni sempre più elaborate per contrastare la minaccia o confortare il bisogno. Nel corso dei millenni, lungo il dipanarsi della vicenda umana, l’azione dell’individuo ha sempre preceduto il sorgere della regola. Financo le scritture bibliche, che sono uno strumento efficace per lo studio dell’evoluzione del pensiero e della ragione e per la formazione della società, offrono una lampante conferma a questa tesi.
Il peccato originale, nella narrazione che se n’è fatta alle genti, fin dalle origini della cultura, assume autonomamente la figura di precetto rivolto a tutelare l’esigenza sociale di proteggere il pudore e tutto ciò che vi si connette a livello di rapporti umani e sociali. Altro elemento fondamentale che, nell’evolversi della storia biblica, assume valore di precetto assoluto, è quello della narrazione dell’uccisione di Abele da parte del fratello Caino. Entrambi gli episodi, tramandati dalla tradizione come fatti rappresentativi dell’esistenza di una realtà temibile qual è quella divina, vengono trasmessi come modello che influisce sulla regolazione dei rapporti tra gli uomini e Dio fin dal sorgere della civiltà umana; in realtà, attraverso una lettura più aderente alle esigenze della convivenza, che la civiltà giudaica e quella cristiana hanno comunque già fatto, risultano essere un sistema di imposizione della regola mediante un’azione di convincimento indolore e super partes il cui oggetto è l’esistenza di una realtà extra umana, potente e padrona, creatrice di tutto, capace ed in diritto di infliggere punizioni; un’entità soprannaturale, in grado di pronunciare anatemi contro chiunque nella comunità si voglia arrogare il diritto di provvedere personalmente all’amministrazione della giustizia, anche di quella parte di giustizia che lo riguarda immediatamente e direttamente.
Alla fonte della storia biblica troviamo ampi resoconti degli espedienti inventati nell’antichità dalle comunità umane per condizionare il comportamento degli individui nei rapporti interpersonali e nel gruppo.
Risale ai tempi d’Israele l’espediente del biasimo e dell’elogio indirizzati all’individuo in base al suo atteggiamento nei confronti della “torah” ossia della legge divina costituita dai dieci comandamenti. Lo scopo era quello di spingere il popolo di Dio alla fedeltà. L’insegnamento della torah veniva anche sminuzzato in forma di massime e proverbi, per fare meglio assimilare i concetti legandoli ad un enunciato specifico con una conclusione interiorizzabile. Il Siracide in particolare definiva la legge come “sapienza autentica” ed il profeta Ezechiele annunciava una evoluzione della legge, un sogno impossibile del quale ancora oggi la società civile attende la realizzazione, da precetto esterno all’uomo, impresso su tavole di pietra, la legge sarebbe diventata sentimento impresso nei cuori e questo sentimento si sarebbe sublimato nella piena conoscenza di Jahvé. Il passaggio attraverso le fasi di evoluzione dell’istinto primordiale è lungo e non si è ancora concluso. Occorreranno altri millenni perché la natura dell’individuo umano possa subire modificazioni tali da convincerlo liberamente e senza l’imposizione della legge e dell’autorità a delegare ad altri fuori di lui, ad un’istituzione o ad una macchina, il compito di provvedere alla sua sicurezza, al suo sostentamento, alla difesa dei suoi beni e della sua famiglia e di tutelarne le esigenze della sopravvivenza e del piacere sessuale, ma soprattutto di salvaguardare il suo onore, la parte più antica e radicata della natura dell’uomo intorno alla quale ha ruotato la sua distruzione e la sua rinascita; è il sentimento dell’onore che libera l’orgoglio, che sprona alla ricerca e alla scoperta, ma che genera anche l’interesse alla conquista e al dominio. La devianza dell’individuo non è quindi altro che la sommatoria degli ostacoli e delle reazioni conseguenti agli ostacoli disseminati lungo la strada tracciata dalle condizioni naturali e ambientali in cui si è sviluppata la vita in genere ed in particolare quella umana.
Si è fatto cenno all’evoluzione delle specie teorizzata da Darwin che riguarda l’adattamento e la progressiva trasformazione delle forme viventi all’ambiente, al clima, alle risorse, alle minacce. L’aspetto che la teoria di Darwin però non affronta e non spiega è quello specifico della evoluzione dell’intelligenza, che è considerato un fenomeno legato alla semplice evoluzione materiale delle funzioni e delle capacità.
Non spiega Darwin come si sviluppa la capacità di collegare alle facoltà sensitive i pensieri e la capacità di elaborarli fino a prefigurare un evento non ancora accaduto, che riguardi un pericolo incombente o un bisogno latente. Queste capacità non sono soltanto umane; anche gli animali, come si è osservato da più parti in svariati contesti, sono in grado di collegare l’osservazione al pensiero e risultano capaci di produrre un’azione perseguendo una finalità predeterminata. Ebbene, nel verificarsi di questi fenomeni, tipici in genere delle creature viventi cerebro-dotate, non c’è spazio per i concetti di lecito ed illecito, di Bene e di Male. Le azioni dell’individuo sono tutte lecite, perché sono il risultato di un processo mentale naturale che ne ha prefigurato l’accadimento, in stretto rapporto con il calcolo di evitare un danno o di soddisfare un bisogno ed hanno quindi il ragionevole scopo di conseguire un obiettivo determinato e necessario. L’obiettivo determinato, riguardando esclusivamente un’esigenza dell’individuo, non può che essere lecito, perché rappresenta l’unico mezzo idoneo a soddisfarlo. Di fronte ad una società necessariamente cruenta, le narrazioni bibliche non hanno fatto altro che precedere l’idea stessa introdotta dalla comunità di darsi delle regole per contrastare il pericolo dell’autodistruzione. La conseguenza di un progressivo, tangibile, sviluppo dell’intelligenza ha parimenti sviluppato la capacità di difendersi e di aggredire.
Dall’elaborazione dei deludenti risultati conseguiti dall’uomo in questa prospettiva, nasce un prodotto, innovativo rispetto alla fase primordiale, che si discosta dal sistema della semplice narrazione di alcuni fatti tipicizzati e delle conseguenze che tali fatti avrebbero comportato, consistenti nelle punizioni che Dio, onnipotente, onnipresente ed in seguito anche misericordioso, avrebbe inflitto agli uomini. Questo nuovo prodotto è costituito dalla rivelazione della legge che, secondo la tradizione, è stata scolpita sulle Tavole da mano divina e consegnata a Mosè sul Monte Sinai; questa rivelazione rappresenta un fatto straordinario, frutto di un’intuizione intelligente, avanzata e moderna.
Le Tavole della Legge sono, in pratica, un codice di comportamento di ampio respiro, cui tutti gli uomini devono uniformarsi, frutto dell’esperienza umana maturata fino a quel punto, applicabile a tutti i casi di conflitto che rappresentavano un ostacolo alla convivenza pacifica ed al progresso ed in grado i risolversi di per sé o mediante l’intervento di garanti autorevoli (capi famiglia, capi tribù, anziani, sacerdoti). Quindi, una geniale invenzione che fissava dei principi rigidi, validi ancora ai nostri giorni (la cosa che risulta più stupefacente), che ha consentito al genere umano di superare gli enormi problemi naturali ed ambientali che le popolazioni hanno dovuto affrontare nel corso dei millenni. Le Tavole della Legge sono quindi il mezzo per equilibrare i rapporti umani e per stabilire le regole della convivenza. Questi precetti hanno innovato definitivamente il sistema “giuridico” umano, proponendosi come fonte primaria del diritto. Il diritto precedente era costituito dalla narrazione biblica la cui funzione era quella di porre l’individuo al cospetto della comunità coi suoi pregi e coi suoi difetti, sollevando la comunità stessa da ogni obbligo di assumere la responsabilità del controllo dei suoi comportamenti; tale controllo era infatti delegato a Dio che veniva illustrato come figura temibile e onnipotente posto a vigilanza dei comportamenti di ciascun uomo, in grado di distribuire premi o punizioni a seconda dei meriti e delle colpe di ciascuno. L’individuo, a quel tempo, era considerato un fanciullino che poteva essere condizionato dalla comunità attraverso i soli mezzi della speranza della ricompensa o del timore della pena. Le Tavole della legge rappresentano quindi un salto di qualità e sono il primo vero stadio dell’evoluzione dell’uomo, che rende espliciti i concetti di Bene e di Male, adattandoli definitivamente ed in modo irreversibile al contesto della convivenza e dello sviluppo sociale; parallelamente vengono attribuite le responsabilità delle azioni al singolo il quale dovrà risponderne da ora in avanti, non solo a Dio, ma anche alla comunità ed al gruppo sociale di appartenenza.
La comunità costituita, intesa come soggetto sociale, non accetta infatti la devianza dell’individuo. Nella fase biblica l’individuo, dovendo rendere conto del suo operato soltanto all’Onnipotente, si sottrae facilmente al controllo degli altri individui; egli in realtà non riesce a percepire del tutto l’immanenza di Dio, perché essa sfugge ai suoi sensi. Le Tavole della Legge obbligano l’individuo ad osservare i comandamenti che vi sono scolpiti e la società diventa testimone presso Dio del comportamento osservante e delle deviazioni di ciascun individuo.
In ogni contesto immaginabile, è sempre e comunque la società a stabilire quel che è lecito e quello che è riprovevole. Con l'avvento del Cristianesimo si verifica l'ulteriore stadio della responsabilizzazione dell'individuo, il quale oltre che a Dio ed alla comunità-società. dovrà anche rispoindereal sacerdote al quale dovrà confessare le proprie devianze dalla legge divina. Malgrado tutto questo, le regole continuano ovunque ad essere violate, perché soltanto le regole sono cambiate nei millenni, ma l'individuo è rimasto sempre quello primordiale, coi suoi pregi e i suoi difetti, col suo personale senso del Bene e del Male, non sempre coincidente con quello scelto come modello dalla società. Quando l’individuo è posseduto dall’impellente bisogno di soddisfare un proprio soggettivo bisogno, anche se la legge lo indica come illecito, questi è portato a violarla perché stima che, ricorrendo determinate circostanze, difficilmente la sua violazione potrà essere rilevata e sanzionata.
Gli uomini sono in realtà tutti simili tra loro, ma la diversità delle razze e la diversità dei costumi, sono comunque segni di distinzione notevoli. L’intelligenza dell’uomo moderno non è comunque diversa da quella dei suoi predecessori; è verosimile, semmai, che l’uomo abbia accresciuto le sue capacità, producendo nel corso dei millenni tecnologie compatibili con l’ambiente ed avanzate rispetto alle precedenti; attraverso queste tecnologie ha scoperto leggi naturali universali che ne hanno meglio qualificato la competenza e la consapevolezza. Al cospetto degli eventi storici e naturali l’uomo ha poi sviluppato un modo di sentire comune che, in parte, solo in una piccola parte, è frutto dell’educazione ricevuta dal cotesto circostante; per il resto, e per la più gran parte, è il risultato dell’elaborazione degli istinti primordiali ereditati e quindi radicati nella sua stessa natura. Nessuna convenzione o legge umana potrà quindi cancellare dal sentire naturale degli uomini la gelosia, il pudore, l’invidia, la generosità, l’avidità, il rancore. Queste capacità espressive naturali in origine non hanno una collocazione qualitativa nell’ambito del Bene o del Male, ma sono presenti in ogni individuo, sia pure in misura diversa e strettamente personale e ciascuna di esse viene esaltata o costretta in base al grado di interferenza esercitato dalla comunità.
L’uomo si adatta per convenienza ed utilitarismo alle regole sociali, ma quando realizza, nella sua immaginazione, l’opportunità soggettiva di poter compiere un atto perché lo ritiene un suo irrinunciabile diritto, specie se valuta di riuscire a rimanere impunito, agisce senza troppo preoccuparsi delle conseguenze sociali del suo atto. In questo, gli individui di tutti i tempi sono esattamente uguali e le statistiche sull’aumento o sulla diminuzione della criminalità costituiscono semplicemente una raccolta di dati relativa ad un luogo e ad un periodo, con valore d’indagine storico e sociale, senza riflessi che realmente possano incidere sul livello di acquisizione interiore della norma giuridica. La lotta alla criminalità, seppur condotta con sofisticati sistemi di repressione, non contiene alcuna possibilità reale di condurre il genere umano nel suo complesso verso una redenzione dell’individuo fino alla realizzazione della creatura ideale, etica, morale e spiritualizzata di cui si sono occupati senza molti successi i filosofi di ogni tempo.
La comunità umana, nel suo complesso, tende verosimilmente a consolidare il suo fondamentale etico all’interno del gruppo sociale e quindi a concordare e/o imporre le regole che dall’etica si fanno discendere. Tali regole sono destinate a sanzionare i comportamenti ritenuti inaccettabili in rapporto al contratto sociale. Ma i comportamenti naturali dell’individuo sono generati da un bulbo di natura dicotomica il cui sviluppo è per naturale inclinazione orientato ad aggirare le regole in favore dell'istinto. L’istinto è per definizione una dote primordiale. La comunità è concorde sull’esigenza che l’istinto venga imbrigliato nella espressione dell’autocontrollo; ma l’esercizio dell’autocontrollo è conseguenza dell’abitudine. Tuttavia, anche nella più radicata abitudine è latente la possibilità della degenerazione. Tanto i rapporti sociali, quanto gli eventi, producono inevitabilmente effetti nei confronti della sfera d’interesse dell’individuo ed a seconda della sua esposizione egli sarà più o meno disposto ad agire secondo gli schemi delle regole sociali.
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