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La Storia è una maestra che non perdona

LA SCOMPARSA DI UNO STATO LA JUGOSLAVIA INVENTATO A TAVOLINO ALLA FINE DELLA GRANDE GUERRA

Nel 1945 altre annessioni contro la volontà di popoli diversi per etnia religione e storia


28/03/2010 - Massimo Iacopi


(Assisi PG)

Nel 1999, ventuno anni fa, la guerra nell’ex Jugoslavia arriva al capolinea, grazie agli interventi armati votati dall’ONU, risultati decisivi. Tra gli altri provvedimenti, il territorio denominato Kossovo, abitato comunque da due differenti etnie, serba e albanese, viene posto sotto l’amministrazione ONU mediante l’impiego di un Presidio armato, tuttora presente. Le questioni etniche sono spesso servite come strumento di lotte sanguinose. Scopo di questa analisi è quello di ricordare, nel contesto della caduta dei regimi comunisti d’Europa, le responsabilità degli attori ed il processo di decomposizione dello Stato. Scomparsa di un paese artificiale, sogno “piemontese” della Serbia, attraversato da molteplici linee di frattura: etniche, religiose, ideologiche, che non poteva durare e che, tra l’altro, nel quadro della pulizia etnica, “fiore all’occhiello dei popoli balcanici”, aveva introdotto una pratica di eliminazione di massa cosiddetta delle “foibe”, tristemente patita, soprattutto dalle popolazioni italiane residenti in Istria, a Fiume e a Pola. Si racconta che, alla vigilia dello scoppio delle ostilità in Jugoslavia, era il 1991, alcuni osservatori, alla domanda circa la stabilità del paese, rispondevano concordi: “Se la Jugoslavia scoppia, se ne vedranno delle belle”. Questa espressione, vista in retrospettiva, sulla base degli eventi che si sono poi verificati qualche mese più tardi, conferma, in maniera ampia ed ironica, i timori che gli osservatori esterni presagivano circa la possibilità di implosione del paese. In effetti, nel giro di poco tempo, la scomparsa della Jugoslavia ha assunto la forma di una falsa evidenza: la Jugoslavia era scomparsa perché questo “mosaico di popoli, di religioni e di culture” non era una costruzione affidabile. Si trattava di uno “stato artificiale”, creato a seguito della 2^ Guerra Mondiale e della nuova configurazione dell’Europa e voluto, in special modo, dai Francesi ed in seconda battuta dagli Inglesi e dai Sovietici. La ricostituzione del paese balcanico aveva precipuamente una funzione anti italiana … ma anche lo scopo di disporre di uno stato potenzialmente in grado di controllare, indirettamente la regione balcanica, rivelatasi da sempre instabile e pericolosa. Purtroppo, una volta archiviata la quarantennale cappa di piombo del regime comunista, sono riemersi gli antichi conflitti e le ataviche divisioni etniche e confessionali, insieme all’odio accumulato negli anni della reggenza Titina, che hanno portato ad un inevitabile conflitto di tutti contro tutti. Certo, era auspicabile che si dimenticasse d’un colpo quanto l’idea di Jugoslavia aveva pervaso tutto il XIX Secolo. Uno stato federale di circa 24 milioni di abitanti, nel 1991, che dopo la rottura con Mosca aveva costruito un modello di socialismo originale (peraltro non molto difforme da quello d’oltre Cortina), rappresentava il risultato di una lunga storia di lotte per l’emancipazione politica condotte nell’ambito degli Imperi Austro-Ungarico e Ottomano. Più che il carattere artificiale dello stato jugoslavo occorre esaminare in primis il contesto politico dell’Europa agli inizi degli Anni ‘90, alla caduta dei regimi comunisti in Europa. Dopo gli interventi dissuasivi ONU e NATO, di contrapposizione e di sorveglianza, tuttora in corso, nei territori contesi dalle fazioni etniche storicamente nemiche, ci si è rapidamente abituati alla scomparsa della Jugoslavia. Forse perché tale evento ha coinciso con la fine della guerra fredda e con la caduta della cosiddetta Cortina di Ferro (ragionevolmente a causa del rifiuto, radicato nella mentalità occidentale europea, delle utopie pseudo progressiste e delle lotte ideologiche che “regolavano” la vita dei popoli in quelle regioni). Ma forse anche perché, in fondo, l’isolamento della Jugoslavia dalle vicende storico-politiche europee e sovietiche, scelto, voluto e mantenuto da Tito, non ha lasciato tracce nella memoria collettiva dei popoli europei. Tutto questo a maggior ragione nella memoria della maggioranza del popolo italiano, cui l’immagine di Tito e della Jugoslavia rammentano, tuttora, soltanto le foibe, i massacri degli italiani, l’occupazione e lo scippo dell’Istria, di Pola, di Fiume e l’occupazione di Trieste.  L’isolamento della Jugoslavia, quanto agli effetti della scarsa attenzione italo-europea per quei territori è pari soltanto a quello dell’Albania, anch’essa rimasta isolata da Europa e Russia a causa della scelta di porsi sotto la “protezione” cinese che, a dire il vero, non sortì alcun effetto sul progresso della piccola Nazione delle Aquile, se non quello di creare sfaticati, affamati, delatori e delinquenti. I conflitti jugoslavi, per le loro forme, allo stesso tempo nuove ed arcaiche, determinano storicamente il fenomeno della “crisi del pensiero sulla guerra”, messo in evidenza dallo storico Stefano Audoin Rouzeau (1955 - ), consistente nell’incapacità di comprendere le ragioni dei conflitti contemporanei, nei quali gli attori risultano molteplici e male identificati ed in cui spesso gli esiti positivi di natura militare non implicano automaticamente la vittoria politica.

1^ Fase: la Croazia

Il 25 giugno 1991, sulla base della crisi politica della Federazione jugoslava, le repubbliche di Slovenia e di Croazia dichiarano separatamente la loro indipendenza. Il tentativo di ripresa del controllo sulla Slovenia da parte delle autorità federali, si dimostra un conato puramente formale e si concreta in appena qualche giornata di combattimenti sporadici intorno alle caserme. Ma la guerra vera scoppia in Croazia il 30 agosto seguente, con l’attacco alla città di Vukovar (odierna Slavonia orientale nei pressi della frontiera con la Serbia), bombardata senza sosta da forze che portano ancora il nome di Esercito Popolare Jugoslavo, ma, di fatto, passato sotto il controllo del Governo di Belgrado. La crudeltà dei combattimenti e l’intensità delle distruzioni colpiscono emotivamente tutti gli osservatori stranieri presenti. Tuttavia l’attenzione degli osservatori internazionali rimane ancora focalizzata su Mosca, dove risulta appena sventato un colpo di stato che avrebbe potuto riportare al potere i comunisti conservatori. Dopo la conquista del 18 novembre 1991 delle macerie di Vukovar da parte dell’esercito jugoslavo, il bilancio fra morti e scomparsi appare immane. Più di 20 mila persone lasciano la regione in condizioni drammatiche. Da questo momento, la disintegrazione della Federazione jugoslava esce dal contesto delle guerre convenzionali: feriti, malati e rifugiati vengono mitragliati nell’ospedale, torturati e giustiziati sommariamente, fra i quali almeno 264 civili, secondo il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (TPIJ), che incomincia ad istruire uno specifico fascicolo a partire dal 1995. Il 3 gennaio 1992, entra in vigore il 15° cessate il fuoco fra la Croazia e quello che rimane della Federazione jugoslava (Repubbliche di Serbia e Montenegro), dove il leader uscito dai ranghi del partito comunista, Slobodan Milosevic (1941-2006) è riuscito nel corso del 1989 ad imporre la sua autorità. L’accordo definitivo viene negoziato fra i mediatori della Comunità Europea, i cui stati membri sperimentano la loro capacità di operare di concerto. Essi riconoscono, il 15 gennaio seguente, l’indipendenza slovena e croata, sollecitando anche la Bosnia-Herzegovina ad organizzare un referendum di autodeterminazione. La Macedonia otterrà il suo riconoscimento internazionale nel 1993. Dalla fine degli anni 1980, Milosevic strumentalizza a suo vantaggio il malessere sociale, la crisi del partito unico (Lega dei Comunisti jugoslavi) e del sistema federale. Di origine montenegrina, uomo grigio d’apparato del partito comunista, ma indiscutibilmente fine tattico, egli si è messo alla testa delle aspirazioni delle minoranze serbe del Kossovo e della Croazia. Nel 1990, mentre, “de facto”, la Lega dei Comunisti jugoslavi (il partito unico al potere) si è dissolta, vengono organizzate elezioni multipartitiche in ciascuna delle sei repubbliche jugoslave. Con l’eccezione della Serbia e del Montenegro, i risultati sanzionano la vittoria delle formazioni anticomuniste, che, nel caso della Croazia e della Bosnia Herzegovina, pretendono rappresentare un popolo su basi etniche.

Fase 2^: la Bosnia Herzegovina

La 2^ fase del conflitto si apre in Bosnia Herzegovina il 6 aprile 1992 con l’intervento di forze irregolari provenienti dalla Serbia e di quelle di una “repubblica serba” autoproclamata della Krajina (regione della Croazia), sostenute dall’esercito federale e da milizie locali che iniziano ad assediare la capitale Sarajevo. A partire dal novembre 1990, la repubblica serba della Krajina risultava governata da una coalizione di tre partiti nazionalisti concorrenti che avevano sovvertito i pronostici e battuto i partiti detti “cittadini” sulla base di un tacito accordo: una inattesa alleanza fra il Partito Democratico Serbo (SDS), guidato dal poeta e psichiatra Radovan Karadzic (1945- ), l’Unione Democratica Croata (HDZ), legata al partito al potere a Zagabria ed il Partito d’Azione Democratico (SDA), diretto da Alija Izebegovic (1025-2003), che intende difendere gli interessi dei “Mussulmani”. (Di fatto, è solo dagli anni 1970 che questa categoria di cittadini poteva essere considerata come nazionalità e nel 1994 il loro nome verrà rimpiazzato con il termine “Bosniaci” (Bosnjaci)). La santa alleanza bosniaca salta nell’ottobre 1991, dopo l’attacco a Vukovar ed a Dubrovnik (Ragusa) da parte dell’esercito federale jugoslavo: i deputati dei partiti SDA ed HDZ adottano un memorandum sulla sovranità della Bosnia Herzegovina, contro il parere del partito nazionalista di Radovan Karadzic, i cui rappresentanti fanno secessione per formare una loro propria assemblea nella stazione di sci di Pale, sulle alture di Sarajevo. Agli inizi del mese di aprile 1992, l’offensiva delle forze provenienti dalla Serbia ha come obiettivo le popolazioni civili e vengono perpetrati massacri in diverse località dell’est della Bosnia, in particolare a Bijeljina, Foca e Zvornik, facilitati dalla carenza di resistenza armata locale organizzata.

Di fronte all’ampiezza della coordinazione di queste azioni armate, gli USA, la conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE) ed il Consiglio dei Ministri della Comunità Europea, attribuiscono all’esercito federale jugoslavo la responsabilità degli eventi in corso. Belgrado nega qualsiasi responsabilità, giustificandosi con il fatto che si tratta ormai di una “guerra civile” su un territorio che sfugge ormai ad ogni sua giurisdizione. Gli USA di George Bush senior (1924-2018) cerca di disimpegnarsi. Gli Europei in cerca di unità di indirizzo, effettuano un tentativo di intervento, ma il loro fallimento nell’arrestare l’escalation della guerra nel corso del 1991-1992 li costringe a rivolgersi in direzione dell’ONU. Quest’ultimo decreta un embargo sulle armi su tutto il territorio ex jugoslavo, sanzioni economiche contro la Serbia ed il Montenegro, come anche l’invio di Caschi Blù in Croazia, inizialmente e quindi in Bosnia, nel corso del 1992. L’interminabile assedio di Sarajevo (aprile 1992-settembre 1995), amplificato dai media di tutto il mondo, viene percepito dai contemporanei come il simbolo di un conflitto postmoderno, che coniuga il disfacimento di uno Stato, fenomeni di milizie e presenza internazionale sotto l’egida dell’ONU, al quale la nuova era post guerra fredda sembra attribuire un ruolo più importante che mai. Ancora una volta l’incomprensione si mescola con l’orrore. Durante l’estate del 1992, i giornalisti occidentali denunciano l’esistenza di “campi” sui territori controllati dalle forze della autoproclamata “Repubblica dei Serbi di Bosnia Herzegovina (Serpska), dove le massicce esazioni ricordano violenze che si pensavano sradicate dal continente europeo. Le persecuzioni condotte dai vincitori, secondo criteri etnici, danno nascita alla nota formula della “Pulizia etnica” (1). Agli inizi del 1993, l’offensiva condotta da forze che si riconoscono in una “Repubblica croata d’Herceg-Bosna”, contro obiettivi civili e militari bosniaci, contribuisce ad apportare una confusione supplementare nell’interpretazione del conflitto. Numerose testimonianze confermano il sospetto sulla esistenza di un accordo esplicito riguardante la spartizione della Bosnia Herzegovina fra i presidenti Milosevic della Serbia e Franjo Tudjman (1922-1999) della Croazia. L’apparente impotenza internazionale e le violenze, specialmente contro i civili di tutte le regioni, la crescita dei discorsi etnico nazionalisti provocano dibattiti e mobilitazione in tutta l’Europa. L’assedio di Sarajevo dura più di tre anni e la guerra in Bosnia Herzegovina si conclude nell’autunno 1995 con l’armistizio del 12 ottobre. La spinta degli USA, la cui politica internazionale ha subito un cambiamento dopo l’insediamento alla Casa Bianca, nel gennaio 1993, del democratico Bill Clinton (1946- ), è stata essenziale (2). La NATO, con l’avallo dell’ONU, ha dato inizio alle operazioni di bombardamento aereo, incentrate sulle forze separatiste della repubblica serba autoproclamata, che circondavano Sarajevo e controllavano dal 50 al 70% del territorio della Bosnia Herzegovina. Gli Accordi di Dayton, negoziati dalla diplomazia americana e conclusi sotto patronato di diversi stati europei (vengono formalmente firmati a Parigi il 14 dicembre 1995), prendono in considerazione una situazione de facto della Bosnia Herzegovina in due entità federalizzate. Qualche tempo prima, fra il maggio e l’agosto 1995, l’esercito croato, sostenuto ufficiosamente dagli USA, riconquista i territori secessionisti della Krajina, provocando l’esodo, questa volta, di più di 200 mila civili serbi.

Fase 3^: il Kossovo

Gli accordi di Dayton non hanno riguardato la questione del Kossovo, popolato, per più dell’80%, da Albanesi e che, alla fine degli anni 1980, veniva percepita come la minaccia più pericolosa per l’unità jugoslava. Di fatto, la questione era diventata un problema interno alla Federazione delle Repubbliche della Serbia e del Montenegro. Dopo la soppressione dell’autonomia di questa provincia, avvenuta nel marzo 1989 da parte di Milosevic, sul luogo si era costituita, con l’aiuto della diaspora albanese, una società parallela in un clima di viva repressione. Il conflitto ha inizio nel 1998 con la comparsa di una organizzazione armata clandestina, l’Esercito di Liberazione del Kossovo, che conduce una guerriglia sistematica contro i simboli dello Stato. Dopo mesi di infruttuosi negoziati con Milosevic, la NATO interviene nel marzo 1999 senza il mandato dell’ONU, obbligando Belgrado a cedere dopo 78 giorni di bombardamenti, dichiarati come mirati, ma in realtà accompagnati da terribili effetti secondari. Le forze di Belgrado, impotenti di fronte all’attacco aereo, effettuano, durante questo periodo, esazioni particolarmente gravi contro la popolazione albanese, di cui circa la metà (intorno ad 1 milione di persone) vengono cacciate dalle loro case. La decomposizione effettiva della Jugoslavia è praticamente durata tutto il decennio 1990: dall’estate del 1990, momento in cui la protesta della minoranza serba di Croazia (contro lo statuto che le era stato accordato dal nuovo governo di Zagabria) si trasforma in ribellione armata (“crisi di Knin”), fino al giugno 1999, quando il Kossovo viene posto sotto amministrazione ONU. La Jugoslavia ha certamente continuato ad esistere nominalmente fino al 2003, momento in cui lo stato successore ha assunto la nuova denominazione di Serbia-Montenegro, mettendo fine ad una finzione, quella della continuità statale con il vecchio Stato comune. La decomposizione è quindi proseguita con l’indipendenza del Montenegro (2006) e quindi con quella del Kossovo (2008), il cui riconoscimento da parte della Serbia risulta ancora oggi oggetto di trattative politiche. 20 anni più tardi, questa decomposizione è ancora all’opera nella difficile ricostruzione della narrazione su questo passato recente.

La missione trappola dei Caschi Blù

La crisi jugoslava è marcata dall’idea che una “comunità internazionale” ha il dovere di impedire o di fermare il dramma. Orbene, non solo la presenza dei soldati della pace in mezzo ad un conflitto deflagrato non ha impedito nulla, ma, molto spesso, ha aggravato la situazione. La crisi è risultata particolarmente sensibile nel luglio 1995, quando la città di Srebeniça, nella Bosnia orientale, viene conquistata dall’esercito della repubblica serba autoproclamata (Serpska), guidato da generale Ratko Mladic (1943- ). Questa località, nella quale si sono rifugiati migliaia di Bosniaci, era stata dichiarata Zona di Sicurezza, demilitarizzata e posta, dal 1993, sotto la protezione dell’ONU. Incapaci di mantenere il controllo della città, i Caschi Blù lasciano entrare i soldati di Mladic. Gli assalitori, a quel punto, danno il via ad un massacro di circa 8 mila persone di origine mussulmana. Un atto che il TPIJ qualificherà, qualche mese più tardi, come deliberato “genocidio”. I militari della missione dell’ONU hanno molto spesso evidenziato l’inadeguatezza dei loro mezzi e dei loro compiti, l’obsolescenza delle concezioni della guerra applicate al caso concreto e delle Regole d’Ingaggio (ROE), nonché l’assurdità del loro mandato (3). Con un compito di mantenimento della pace in un contesto di guerra aperta, i Caschi Blù si sono spesso trovati nella trappola dell’alibi dell’attendismo politico, fino ad essere stati presi, diverse volte, in ostaggio ed umiliati. Quando i gradi più elevati hanno tentato di far rispettare il loro mandato con la forza, essi sono stati spesso richiamati all’ordine dalla stessa ONU, come lo ha evidenziato nel 2007, Sir Rupert Antony Smith (1943- ), Comandante della Forpronu in Bosnia Herzegovina nel suo libro, proprio durante l’ultima fase del conflitto. Più di 20 anni dopo, il trauma subito dai soldati stranieri coinvolti continua ad essere raccontato nelle testimonianze, che denunciano le perversità ed i preconcetti di questo intervento, che, nei fatti hanno spesso aiutato proprio la violenza delle fazioni (4). Al momento dei fatti, si è sovente parlato di impotenza (5), ovvero del fallimento della Comunità internazionale. Alla fine dei conti, solo l’intervento umanitario è stato l’intervento più visibile ed efficace: fra questi l’istradamento ela distribuzione dell’aiuto, che è risultato la principale missione dei Caschi Blù, composto da militari di molte nazioni europee. La disintegrazione della Jugoslavia avviene nel momento in cui la Comunità Europea - diventata Unione Europea nel 1993 dopo il Trattato di Maastricht - cerca di affermare la sua capacità di essere non solamente un contesto pacifico, ma anche un nuovo orizzonte di attese positive, specie di fronte al crollo del comunismo reale, che lascia, a sinistra, un vuoto ideologico. Ma, in queste condizioni, tutta la regione risulta propizia per diventare uno spazio di proiezione delle paure degli Europei. Ritornano a galla i discorsi stereotipati che assimilano i Balcani ad un territorio arretrato e barbaro, nel quale il tempo si è fermato e dove il frammischiarsi dei popoli non può essere che la sorgente di nuovi atavici conflitti. Questi discorsi trovano forza, come lo dimostra la storica bulgara Maria Todorova (1949- ), nella storia lunga delle relazioni che gli Occidentali mantengono con questo spazio periferico, sottomesso agli interessi delle potenze e degli imperi europei (6). L’analogia con le forme di esazione, i simboli del periodo nazista e della seconda Guerra Mondiale, risultano onnipresenti e rinforzano questa interpretazione, suscitando, l’imperativo categorico di agire per lottare contro il ritorno dei vecchi demoni. In ogni caso, la mobilitazione internazionale non ha di certo impedito che il bilancio degli anni di guerra fosse molto pesante: la sola Bosnia Herzegovina lamenta più di 100 mila morti, di cui la metà civili). Queste guerre sono state segnate da una operazione di assedio, che si credeva ormai relegata ad altre epoche del passato, da massacri di civili (soprattutto agli inizi del conflitto, fra il 1991 ed il 1993), da un massacro nel 1995, qualificato come “genocidio”, da milioni di rifugiati e di sradicati e da distruzioni massicce del patrimonio culturale e storico. Questo conflitto segna anche la fine della fiducia nelle forme di intervento internazionale immaginate nel dopo 1945, specialmente quella di Caschi Blù. Anche l’innovazione giuridica del Tribunale Penale Internazionale per la Jugoslavia (primo del genere, prima di quello del Rwanda e prima della creazione della Corte Penale Internazionale dell’Aja, nel corso del 2002) ha mostrato, con ogni evidenza, i suoi limiti. Costituito nel 1993 per impulso franco americano, questo Tribunale, che ha la sua sede in Olanda, è apparso piuttosto, come una ammissione di debolezza, piuttosto che un mezzo effettivo di risoluzione della crisi. Esso ha effettivamente funzionato solo a partire dalla messo in stato di accusa dei più alti dirigenti della federazione jugoslava, in particolare del generale Ratko Mladic e di Radovan Karadzic nel 1995, quindi Slobodan Milosevic nel 1999. Peraltro, esso ha visto i suoi effetti limitati, da un lato da forme di strumentalizzazione politica, di cui è stato oggetto (come anche nel contesto del processo di integrazione degli Stati successori della Jugoslavia nell’Unione Europea a partire dal 2000) e dall’altro per la logica giuridica applicata, che ha privilegiato la responsabilità individuale e non collettiva o politica dei crimini commessi.

Guerra civile o guerra d’indipendenza ?

Il dibattito sulla “natura” del conflitto risulta doppiamente marginalizzato da quello sulle responsabilità. Altrove, al di fuori della Serbia, l’idea di “guerra civile” è stata a lungo contestata come un modo di negare la responsabilità degli attori istituzionali. Ma la concezione ampia della “guerra civile” che si imposta nello studio delle relazioni internazionali negli anni 2000 designa il caso specifico un conflitto infra-statale, dove possono intervenire attori istituzionali e che spesso possiede una dimensione internazionale e multi statale (7). Da parte loro le autorità croate hanno parlato di guerra patriottica (domovinskki rat) e questo termine si è imposto, sia nelle commemorazioni ufficiali, sia nell’insegnamento della storia. Dal punto di vista degli Stati secessionisti si tratta quindi di una guerra d’indipendenza. Risulta tanto più difficile spiegare i motivi di questa guerra, proprio perché i suoi attori sono male identificati. Occorre considerarvi l’intervento di Stati, delle loro forze armate, di milizie (locali o politico mafiose), di militari o di civili ? In effetti, gli uomini mobilitati hanno avuto statuti diversi: militari di carriera, coscritti, riservisti, volontari - spesso solo per il fine settimana - o ancora miliziani nazionali o internazionali. La percezione di questo conflitto si è anche modificata con la trasformazione della concezione della guerra: negli anni 1990, i giovani arruolati vengono visti come “giovani” o padri di famiglia, piuttosto vittime che soldati. Se la qualificazione di “conflitto etnico” rimane, per certi aspetti, improprio, risulta incontestabile che la politicizzazione delle entità etniche è stata un fattore decisivo. In questo processo, i dirigenti politici ed intellettuali hanno svolto un ruolo di primo piano. In effetti, è a nome del “popolo” che Milosevic ha ottenuto l’adesione di milioni di cittadini in Serbia e nel Montenegro, in Bosnia Herzegovina ed altrove. Ma questo campione della “causa dei Serbi”, in un contesto di sfaldamento dei riferimenti della società socialista, ha costantemente giocato sulle ambiguità fra l’accezione etnica e sociale del termine “popolo” (narod). In questo atteggiamento, egli risultava sostenuto da un buon numero di scrittori e di intellettuali che hanno esaltato una identità serba, allo stesso tempo nostalgica di un passato glorioso e segnata dalla retorica del vittimismo, basato sulla paura del declino delle minoranze serbe nel Kossovo o nella regione della Krajina (Croazia). Ma essi non sono stati i soli. Dalla fine degli anni 1980, mobilitazioni collettive vengono orchestrate o sfruttate dai differenti poteri, in Serbia, nel Kossovo, in Croazia ed anche in Slovenia. Il presidente croato Tudjiman, vecchio partigiano e generale comunista, convertito nel corso degli anni 1980 al nazionalismo dagli accenti mistici, venati di revanchismo, non aveva esitato, dal suo arrivo al potere nel 1990, a rimettere in auge i simboli dello stato croato ustascia, alleato dei nazisti, in particolare la bandiera a scacchiera rossa ed argento e la kuna (corona) come moneta. Slobodan Milosevic, nei tredici anni del suo regno incontrastato sulla Serbia e di quello che rimaneva della Jugoslavia (1987-2000), ha utilizzato la finzione della continuità fra la Jugoslavia e lo Stato della Serbia-Montenegro, per rivendicare i suoi diritti sull’eredità del vecchio stato, ma anche per fare accettare la sua politica di repressione delle pubbliche libertà e delle minoranze e per giustificare l’entrata in guerra in nome della “difesa del popolo e della Jugoslavia”. A sostegno dell’argomento etnico e per giustificare il crollo del paese, sono circolate, durante il conflitto, numerose carte di attestazione di nazionalità, anche in Europa. Esse sono comunque da prendere in considerazione con grande cautela. I diversi popoli balcanici hanno una lunga storia di coesistenza e di meticciato nell’ambito dell’insieme imperiale austro-ungarico, ancora attivo in una parte della penisola agli inizi del 20° secolo. Le carte di nazionalità sono state emesse dopo censimenti che hanno testimoniato una scelta fatta dai cittadini fra le categorie fluttuanti (fra queste proprio i mussulmani). Peraltro, queste carte, spesso approssimative e facili da essere manipolate politicamente, danno minore importanza ai centri urbani, luoghi di incontro e di meticciato e le stesse carte ignorano la categoria “jugoslava”, introdotta nel 1961. Quando dette carte risultano abbastanza precise, esse consentono di mettere in evidenza la grande eterogeneità etnica rappresentata dallo spazio “jugoslavo”. Le categorie etniche, anche se mutevoli nel tempo, non sono, in ogni caso, delle pure finzioni. I rapporti fra questi gruppi, in particolare nelle zone di forte mescolanza., come la Bosnia, risultano, da lunga data, marcati dalla competizione per il possesso delle terre, per il potere nell’amministrazione o nell’Esercito, come anche dall’esistenza di reti concorrenziali di associazionismo, come le associazioni culturali, sportive o religiose. Tutto questo non vuol dire, comunque, che le differenze etniche e le appartenenze nazionali siano state primordiali nei rapporti sociali della Jugoslavia della fine degli anni 1980. E’ il contesto del crollo del paese e quindi del conflitto aperto che ha poi lasciato lo spazio libero per il radicamento “dell’etno-ideologia”. Rimane comunque da comprendere, qui come altrove, come la politicizzazione della guerra e le strutture comunitarie etniche o religiose abbiano potuto svolgere un ruolo decisivo nei “crimini contro il vicino”, specie nella Bosnia Herzegovina (8).

Le cause del crollo

Lo sconvolgimento della fine del comunismo nell’Europa dell’Est e nell’URSS sono dunque la causa più immediata della destabilizzazione politica, economica e sociale che prelude alla guerra. La dissoluzione, dal gennaio 1990, della Lega dei Comunisti della Jugoslavia determina, come nei regimi vicini dell’Europa centrale, un vuoto politico e l’assenza di alternative politiche a livello federale, mentre l’organizzazione di elezioni multipartitiche in ciascuna delle repubbliche genera la crisi aperta della Federazione jugoslava. Gli anni 1980 sono stati difficili. La crisi economica e sociale si è aggravata con la crescente difficoltà di acquisire nuovi crediti ed investimenti. Se, in precedenza, la Jugoslavia li otteneva abbastanza facilmente presso l’URSS, gli USA o altri paesi occidentali, in quanto stato non allineato, l’arrivo al potere a Mosca di Mikhail Gorbacev (1931- ), nel 1985, ha reso meno strategica la sua posizione sul piano internazionale. L’ultimo tentativo di salvare la Federazione è stata la riforma economica e monetaria del 1989-1990, che ha introdotto l’economia di mercato, intrapresa dall’ultimo governo federale guidato da Ante Markovic (1924-2011). I provvedimenti hanno indubbiamente consentito di controllare l’inflazione e di stabilizzare provvisoriamente l’economia, ma la riforma è stata sabotata dalle forze che desideravano la fine della Federazione, vale a dire dai governi di quasi tutte le repubbliche.

Le responsabilità di Tito

Ma il crollo non sarebbe stato così rapido senza una decomposizione lenta del sistema, derivata dal fallimento maggiore dei dirigenti comunisti e dello stesso fondatore della seconda Jugoslavia nel 1945, Josip Broz Tito (1892-1980) nella democratizzazione del regime. In effetti, Tito, autocrate e staliniano prima di sfidare il suo protettore russo, ha cercato di mantenere il suo potere personale, al prezzo di diverse virate ideologiche, fino a diventare garante ultimo dell’unità jugoslava (9). Dopo la sua rottura con Stalin nel 1948, Tito punta sul mantenimento delle forme di proprietà privata e delle libertà culturali, artistiche ed individuali, come anche su una forte autonomia di gestione delle imprese, in particolar modo per dare soddisfazione all’Occidente. Il modello originale del socialismo viene costruito, a poco a poco, ed acquisisce le sue patenti di nobiltà quando Tito si afferma come leader dei “Paesi non allineati” sul piano internazionale, in occasione della conferenza costitutiva del movimento a Belgrado nel 1961. Tuttavia, sul piano interno, quanto su quello internazionale, l’autogestione viene spesso condotta con molta improvvisazione ed opportunismo, con un gusto per la riorganizzazione permanente per eliminare gli oppositori interni, fatto che, peraltro, contribuisce, con il passare degli anni, alla sclerosi del sistema. Tale stato di fatto porta a trasformare l’apparato dello Stato in una guscio vuoto per appetiti privati, rendendo, in tal modo, fittizia la partecipazione dei lavoratori. Allo stesso tempo, la repressione politica, diventata strumento di governo, tiene sotto mira tutti quelli che contestano il potere del Partito e del suo capo. Agli inizi degli anni 1970 la risposta che Tito fornisce alle richieste di democratizzazione del paese, passa inizialmente per un maggiore potere alle repubbliche. La riforma costituzionale del 1974 completa la federalizzazione già rilevante del paese, in particolare in materia di sicurezza interna, di sviluppo economico, di educazione, di affari culturali, con il rischio di accentuare in maniera irreversibile, le differenze fra le repubbliche e, soprattutto, di alterare la loro mutua solidarietà. Mantenendo il sistema di governo del partito unico, Tito riesce ancora a controllare il potere delle burocrazie locali. Dopo la sua morte nel 1980, il paese verrà governato da un comitato presidenziale, composto di rappresentanti delle unità federali che, però, non sarà più in condizioni di riformare il sistema. Determinate pratiche politiche per assicurare l’equilibrio fra i popoli si sono rivoltate, i fin dei conti, proprio contro lo stesso Partito, specialmente con il provvedimento della “chiave nazionale”. Questa misura, instaurata nel 1974, in seno alla Lega dei Comunisti, quindi nel Parlamento della Bosnia Herzegovina (nei quali alcuni seggi venivano riservati per ciascuno dei popoli serbi, croati e mussulmani), è quella che ha poi consentito l’affermazione dei partiti nazionalisti nel 1990. A tutto questo vanno aggiunti i lutti non ben regolati dopo la presa di potere da parte dei Comunisti che hanno riattivato lo stato jugoslavo al termine della seconda Guerra mondiale. In effetti, fra il 1941 ed il 1945, una terribile guerra civile aveva devastato l’antico regno di Jugoslavia, smembrato fra lo stato indipendente della Croazia (diretto dagli Ustascia, alleati della Germania nazista) ed i territori occupati dai nazisti e dai loro alleati (Italia, Ungheria e Bulgaria). Tale situazione è stata anche alimentata dalla lotta fra i movimenti di resistenza fra loro concorrenti (comunisti e nazionalisti). Negli anni 1990, si è potuto ancora constatare a che punto le memorie dolorose della seconda Guerra Mondiale erano rimaste sotto le “ceneri”. Un argomento altrettanto grave come il numero delle vittime nei campi di concentramento diretti dagli Ustascia non era stato ancora chiarito.  Nel 1991, una volta scoppiata la guerra, la spartizione dell’eredità è stata un altro potente motore alla base dei contenziosi. Comandanti di guerra, trafficanti e reti di influenza hanno lottato per mantenere o appropriarsi delle risorse pubbliche. Come ovunque nei vecchi paesi comunisti, la prima metà degli anni 1990 ha visto il nascere di fortune private sulle spoglie del sistema precedente. Nel caso della Jugoslavia questa lotta costituirà ulteriore benzina per il conflitto.

Uscite dalla guerra

20 anni dopo il ritorno alla “pace”, le forme assunte dalle uscite dalla guerra determinano anche la maniera di interpretare gli avvenimenti. Malgrado le centinaia di lavori sull’argomento, resta ancora una sensazione di opacità. La storia della Jugoslavia nel 20° secolo ha tendenza ad essere reinterpretata alla luce di questi esiti, ad esempio il conflitto o la competizione dei popoli che la componevano e molto meno sulla base di una idea culturale prima di essere politica, ovvero quella di unificare e di raggruppare gli Slavi del Sud. Un’altra strada, sopra esaminata è stata quella di interpretare i conflitti degli anni 1990 come scontri “etnici” o nazionali, quando la politicizzazione delle appartenenze etniche è stata spesso e piuttosto una conseguenza dei conflitti e della maniera in cui è stata imposta la pace. In tal modo, nella Bosnia Herzegovina, l’etnicizzazione dei rapporti sociali si è considerevolmente rinforzata nel contesto della divisione del paese in due entità e della decentralizzazione messa in atto dagli Accordi di Dayton: con le sue conseguenze in maniera di educazione, di mobilità delle persone o di funzionamento politico. Ovunque nella regione, il marasma economico e l’assenza di prospettive di una vita migliore contribuiscono ad accrescere questo processo. A tutto questo va aggiunto il bilancio spesso molto debole dei molteplici interventi internazionali nella gestione del dopo guerra, specialmente nella Bosnia Herzegovina e nel Kossovo.

Il paese scomparso gioca oggi un ruolo ambiguo nella memoria dei cittadini degli stati successori. Mentre le storiografie ufficiali ne hanno fatto un facile elemento (capro espiatorio), colpevole di tutti i mali del presente, la cosiddetta “jugonostalgia”, diffusa ed ambivalente risulta, a sua volta, onnipresente. Dagli anni 2010, una nuova corrente di storia sociale e culturale indaga nuovamente sul periodo socialista (10). Uno dei suoi obiettivi è una lettura alternativa a quelle di tipo escatologico che considerano la guerra come il seguito logico della Jugoslavia. Questi storici si interessano alla vita quotidiana dei cittadini ordinari, alle particolarità del regime socialista e approfondiscono l’argomento dei passaggi complessi fra la rottura dei legami sociali e le rivendicazioni nazionaliste, la richiesta di democratizzazione ed il ripiegamento dello spirito comunitario, allo scopo di mettere in particolare risalto gli elementi che hanno determinato l’esplosione della violenza.

NOTE

(1) Krieg Planke A., “Purification etnique, une formule et son Histoire”. Edizioni CNRS, 2003;

(2) Sulla politica estera americana e la dissoluzione della Jugoslavia vds: Mandel M.Morire per Sarajevo ? Gli Stati Uniti e la dissoluzione della Jugoslavia”, Edizioni CNRS, 2013;

(3) Smith Rupert, “L’utilità della forza. L’arte della guerra oggi”, Economica, 2007; e gen. Morillon, “Credere ed osare. Cronache di Sarajevo”. Grasser, 1993;

(4) Ancel G.,Vento glaciale su Sarajevo”, Le Belles Lettres, 2017 (fra le ultime opere apparse sull’argomento);

(5) Hassner P., “La violenza e la pace. Dalla bomba atomica alla pulizia etnica; Esprit, 1995; Seuil, 2000;

(6) Todorova Maria, “Immaginario dei Balcani”, Oxford University Press, 1997 e Edizioni EHESS, 2011;

(7) Relazioni Internazionali n. 174 e n. 175 (2018), dedicato alle guerre civili del 20° secolo;

(8) Bougarel X., “Bosnia, anatomia di un conflitto”, La Decouverte, Paris, 1996;

(9) Pirjevec Joze (sloveno), “Tito, una vita”, 2011 e Edizioni CNRS, 2017;

(10) Vds, ad esempio i lavori di Hannes Grandits sul turismo; di Igor Duda sull’educazione socialista, di Radina Vucetic sulla americanizzazione della cultura, ancora quelli di Goran Music e Rory Archer sulle mobilitazioni operaie in Serbia negli anni 1980.


 

 

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