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L’ACCORDO OCSE PER LA TASSAZIONE DELLE MULTINAZIONALI Un’imposta buona per tutte le nazioni che si profila essere invece un maneggio americano 20/01/2021 - Massimo Iacopi (Assisi PG) OCSE CONTRO GAFAM Il 1° luglio 2021 la quasi totalità dei paesi membri dell’OCSE hanno firmato a Venezia l’accordo per la tassazione sulle società multinazionali che entrerà in vigore il 1° gennaio 2023. L’ Accordo di Venezia che interessa tutti ì Paesi membri dell’OCSE (1) è stato firmato da 130 dei 139 membri della struttura. Presentato al pubblico come una “svolta storica”, l’Accordo prevede l’applicazione di un tasso minimo di imposta del 15% sulle società multinazionali a livello mondiale, ma sussistono dubbi sulla validità delle norme attuative. Per la stragrande maggioranza dei commentatori questo testo, costringendo le imprese multinazionali a pagare alle finanze pubbliche la giusta contribuzione loro guadagni, rappresenterebbe un grande passo avanti verso quella tanto attesa “giustizia fiscale” internazionale ed, allo stesso tempo, assumerebbe il crisma di simbolo della vittoria del multilateralismo sugli “egoismi” di alcune nazioni iu n particolare. Quest’analisi, indubbiamente accattivante, risulterebbe nei fatti doppiamente falsa. Da un lato essa non tiene conto del fenomeno di equità territoriale e di incidenza fiscale, la cui conoscenza risulta, tuttavia, indispensabile se si vuole correttamente valutare la giustizia - interstatale ed interindividuale - di una riforma fiscale di questo tipo. Dall’altro canto essa non tiene conto dei reali rapporti di forza internazionali che sottintendono l’accordo del 1° luglio 2021 che nella realtà appare molto meno cooperativo di quanto si voglia far credere. In fin dei conti ci si deve chiedere se debba considerarsi “giusta” l’imposizione di una tassa minima mondiale in capo alle multinazionali ? Per le piccole nazioni sovrane, sprovviste o debolmente dotate di fattori di produzione, l’assenza di un tetto minimo di tassazione e la libera fissazione di tassi d’imposta appaiono, di norma, come il mezzo per attirare a sé il capitale finanziario ed umano necessario al loro sviluppo ed a quello delle rispettive popolazioni. E’ proprio quello che hanno esattamente capito e rivendicato, più o meno direttamente, i nove paesi fiscalmente recalcitranti dell’Accordo: Irlanda, Ungheria, Estonia, Kenya, Nigeria, Barbados, Saint Vincent, le isole Grenada, Perù e Sri Lanka (già Ceylon). Da quel momento, evidentemente, l’introduzione di un tasso minimo mondiale d’imposta sulle società riflette, in primo luogo, la volontà dei grandi Stati di preservare il loro vantaggio competitivo e la loro manna fiscale, che, nei fatti, non esprime una reale operazione di giustizia nei confronti dei piccoli Paesi di piccole dimensioni e dei Paesi con un debole spazio di mercato. La legge di ripercussione fiscale ci insegna, peraltro, che i contribuenti designati come soggetti imponibili dalla legislazione, raramente sono gli stessi che contribuiscono veramente nei fatti al finanziamento delle spese pubbliche. In effetti, poiché di norma il Paese più forte economicamente scarica parte della sua imposizione sul più debole, si ha ragionevolmente ragione di pensare che l’incremento che ci si aspetta dalle entrate fiscali (qualche miliardo di euro per l’Italia) sarà, nei fatti, pagato dai salariati meno qualificati di queste grandi imprese internazionali o dai loro stessi consumatori, per mezzo di bassi salari e mediante l’aumento dei prezzi di vendita, allo scopo di non intaccare i margini di guadagno precedenti. Gli spiriti più attenti avranno già capito, a questo punto, che la fiscalità, come tutte le questioni politiche, riveste in primo luogo una dimensione geopolitica. Par fare un esempio: Janet Hellen, Segretaria al Tesoro degli USA, ha ottenuto dagli Europei che volevano continuare a tassare unilateralmente le società del GAFAM (2) americano, la rinuncia ai loro liberi diritti di imposizione. Il richiamo alla giustizia fiscale è diventato, di colpo, meno assillante e propagandistico da parte di Washington nel momento in cui si è trattato di proteggere i gioielli industriali americani. Lo spirito naif di numerosi osservatori europei, che dopo aver maledetto Trump, lodano Biden, risulta ancora una volta più sorprendente e genera solo confusione. Lo scambio commerciale é certamente più cortese con “Joe” e il potere di ritorsione appare certamente meno ostentato che con “Donald”. Eppure, la finalità rimane la stessa: America First !... Non è un caso che la riforma dell’imposizione mondiale delle società, dopo aver “pascolato” per lunghi anni nelle praterie dell’Ovest, sembra adesso essere arrivata al sodo, proprio nel momento in cui gli USA hanno deciso di aumentare il tasso nazionale d’imposta sulle loro società nazionali. L’amministrazione americana si assicura in tal modo entrate fiscali supplementari, ottenendo, nel contempo di limitare significativamente i rischi di delocalizzazione e di disturbo per le sue multinazionali che teoricamente non dovrebbero ricevere all’estero trattamenti fiscali più vantaggiosi. Insomma: Vittoria su tutti i fronti ! E dire che con questo interessato pseudo trattamento di favore, qualcuno continua ancora ad affermare che gli Americani sono nostri alleati ed amici. Forse, amici del giaguaro!... NOTA (1) OCSE. Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico; (2) GAFAM. Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft.
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