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SI VIS PACEM PARA BELLUM L’avvertimento dello scrittore romano Vegezio inascoltato dall’Europa dei soldi e dei cavoletti 15/05/2022 - Massimo Iacopi (Assisi PG) SI VIS PACEM PARA BELLUM L’attualità della guerra russo-ucraina ripropone il solito dilemma dell’umana esistenza: sono le armi che rendono possibile la guerra o è l’uomo con le sue pulsioni più oscure che la conduce a prescindere ? I Romani a proposito avevano già sentenziato e l’immagine del vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro ci anticipa la fine del “pacifico” che inerme, crede di vivere nell’Empireo dei Santi. L’Europa, nonostante i buoni auspici dei “pacifici”, riscopre, suo malgrado, la storia profonda dell’uomo e soprattutto, la realtà sempre immanente dei conflitti. Qualche tempo fa, un mio amico di tendenze “pacifiste”, dopo aver letto un mio articolo, dove concludevo con un monito e la locuzione latina dello scrittore romano Vegezio “SI VIS PACEM, PARA BELLUM”, con un tono di disgusto e di sdegno, mi classificò come uno che ama la guerra per il solo fatto di essere un militare di carriera ed in particolare di essere una appassionato di storia e studioso dei conflitti che ne hanno determinato gli eventi. Una vera delusione, piuttoisto che un'amicizia, questo personaggio, prigioniero di luoghi comuni e preconcetti, evidentemente appartenente ad una generazione che ha brillato per un certo tipo di propaganda bizzocca e casereccia. Studiare i conflitti e la conflittualità, che tra l’altro si esprime in maniera molteplice e variegata, non implica necessariamente amare la guerra, ma, specie da parte di un professionista, significa tentare di comprenderli e costituisce, quindi, un modo di prepararvisi e di premunirsi, ma non certo di favorirne il loro accadere. Con l’invasione dell’Ucraina, la cosa è netta: la guerra è una realtà anche in Europa. Ho inteso troppo spesso, nella stragrande maggioranza dei media, che si tratta del primo conflitto in Europa dal 1945, occultando, più o meno volutamente, le guerre della Yugoslavia, del Kossovo, della Serbia e quella dell’Irlanda del Nord. Ma, per non andare tanto lontano, basterebbe ricordare solo quella del Donbass, iniziata sin dal 2014 e quasi del tutto occultata sotto una montagna di attualità e di “vaccini”. Infine, quanti commentatori hanno divulgato, senza alcuna critica preventiva, i comunicati del governo ucraino oppure si sono azzardati a pronunciare, specie se incompetenti, commenti definitivi su un conflitto, annunciato, ma che occorre analizzare con grande prudenza, almeno sino a quando dura la nebbia della disinformazione, che accompagna la stessa guerra. Nell’esaminare un conflitto di questo genere è necessario, da parte di tutti, dare prova di umiltà: riconoscere che ci si può sbagliare, quando è il caso, non sottostare alla tirannide dei commentatori dell’immediato, mentre è risaputo che tante analisi, per essere corrette, hanno bisogno di decantazione per dissipare proprio la nebbia; occorre essere diffidenti nei confronti delle informazioni propalate e dei discorsi ufficiali, in quanto la manipolazione è un fatto reale, sia in un campo, come nell’altro. Quello che si può dire di un conflitto, allorché questo si sviluppa, è che esso assomiglia ad un grande tappeto pieno di buchi, dei quali si cerca di decifrarne il senso. Lo spirito di Difesa. Quando arriva la guerra, è ormai troppo tardi per farvi fronte. La pace e la libertà hanno un costo, che si chiama Dissuasione. Investire in un esercito necessita un vero sforzo finanziario e culturale, che occorre realizzare prima delle guerre e non certamente durante, perché, in tal caso, il costo sarebbe decisamente molto elevato e dai dubbi risultati. Si tratta di creare ed intrattenere in una Nazione un vero “spirito di difesa”, che si basa su un humus culturale che, da solo, educa i giovani al bene comune e spinge anche ad arruolarsi nell’esercito e di farvi carriera. (e non, magari, solo a cercarvi un semplice posto di lavoro, che tale non è !). Ebbene, questo spirito di difesa nasce dalla conoscenza della storia di una nazione, delle sue vittorie e della sue sconfitte. Esso presuppone la disponibilità di istituti di formazione, scuole e licei, di professori, educatori sensibili ed appassionati, di luoghi di memoria, dove è marcata la storia militare, che, in fin dei conti, è la storia della formazione culturale di una nazione, della sua costruzione e della sua sopravvivenza. Qualcuno si domanda oggi se, in caso di guerra, il nostro esercito disporrebbe di un quantitativo sufficiente di munizioni. E’ indubbiamente una domanda molto importante e pertinente, per la quale evito di azzardare risposte, ma, nel contesto generale di questo discorso, la domanda appare vana. La chiave dello spirito di difesa non si basa su un semplice problema tecnico (che peraltro ce ne sarebbero numerosi), ma su un problema culturale di fondo. Ma allora, siamo necessariamente obbligati ad avere a portata di mano la spada se vogliamo sopravvivere, visto che l’Europa, da cui ci attendevamo molto, non ci ha fornito, nello specifico, neanche una risposta?... Il vero problema posto dalla guerra dell’Ucraina è quello di sapere se noi, in caso di guerra (cosa che non possiamo escludere a priori, nonostante la nostra volontà di pace), saremmo pronti a fare i sacrifici necessari per respingere l’aggressore (e qui si aprono altri problemi sui quali non mi soffermo) o chi ci arreca danni irreparabili, al fine di respingere le minacce di un avversario e per imporci nella difesa dei nostri interessi primari. Ma anche qui si apre un nuovo problema: nella nostra Carta Costituzionale, i nostri cosiddetti Padri costituenti si sono ben guardati dal dirci, oltre a meritorie dichiarazione di principio, che esistono anche interessi della nostra Nazione, che vanno sempre attualizzati e che dovrebbero essere una guida di riferimento per chi ci governa. Per parlare, in parole più semplici e dirette, siamo noi pronti, ad esempio, a mettere da parte i confort delle nostre abitazioni per il disagio del fango e del sangue?... Tutti, a parole (ma poi neanche tutti), ora fanno dichiarazioni ammirate per il coraggio degli Ucraini, che difendono la loro Nazione. A dire il vero, molti, in effetti, per l’agognata pace, sarebbero persino quasi felici di una rapida resa degli Ucraini (specie non fornendo loro le armi per difendersi), non perché sono filo Putiniani (anche se, in effetti, molti lo sono), ma perché rifiutano ideologicamente, in cuor loro, il fenomeno guerra e, soprattutto, di guardare in faccia la realtà. Quanti nostri connazionali sarebbero pronti, oltre a comode dichiarazioni di principio, a morire, non tanto per Essi stessi, ma per qualcosa di più grande di Essi, quello che presuppone uno sforzo collettivo ? Un paese, che si è rinchiuso nella paura (spesso indotta !) dopo due anni di pandemia è in condizione di sopportare la prova del fuoco?... Questo tipo di guerra non si conduce con attestazioni di facciata, né con mascherate, sceneggiate, sbandierate, fiaccolate o con sit in. La guerra non è solo l’affare dei militari (essi non sono gli unici delegati al cosiddetto “lavoro sporco”), la vera guerra, quella di un paese attaccato, ha, da sempre, coinvolto i civili che vi partecipano a pieno titolo, nelle retrovie, nel lavoro delle fabbriche, nei campi e nella resistenza psicologica ed attiva, anche con il rischio della propria vita. Pertanto, continuare nella tiritera dei media sulla morte di civili in Ucraina (per colpa dei militari, come se la morte dei militari in combattimento fosse semplicemente un fenomeno naturale) appare stucchevole e quasi di cattivo gusto (come al solito, da noi ci sono sempre morti di prima e di seconda categoria, a seconda del punto di osservazione). Di norma, si loda molto lo sforzo ed il sacrificio nello sport, ma questi valori, stranamente, si dissolvono quando si devono applicare alla vita civile. Noi non amiamo certamente la guerra e la storia lo dimostra, ma il migliore mezzo per evitarla non è solo quello di incrementare i diritti civili, ma anche quello, certamente meno semplice, di prepararvisi e non di negarne l’esistenza. D’altronde, la storia stessa ha sempre dimostrato che gli Unni, i Longobardi e tanti altri popoli considerati Barbari hanno fatto duramente e brutalmente ricordare a chi l’aveva dimenticato che la difesa non si può delegare e che la realtà del mondo è ben altra. In definitiva, sembra più logico ed opportuno ricordare a tutti, in un mondo, sconvolto ancora oggi da 167 guerre in atto, che per difendere la propria identità e la propria cultura, occorre predisporsi ad avere ancora la spada a portata di mano.
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