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LA LOTTA MILLENARIA TRA DEMOCRAZIA E AUTOCRAZIA Le manovre Russe per trasformare la Russia da Nazione Democratica in Impero Autocratico 18/10/2022 - Massimo Iacopi (Assisi PG) Chi ha distrutto l’Impero austroungarico ? Senza dubbio l’idea di Nazione, nata dalla rivoluzione francese. Con la benedizione delle Grandi Potenze, che hanno saputo strumentalizzarla. Da quel momento, si mette in moto una logica implacabile di cui ancora oggi non si finisce di scontarne le conseguenze. Nello sfondo del conflitto ucraino molti hanno voluto vedere anche un rinascere occulto dello scontro fra Impero e Nazione, nel contesto delle aspirazioni russe e della globalizzazione americana. Lo sviluppo degli Stati nazione (1) nell’Europa del XIX secolo ha posto fine all’esistenze degli Imperi (2) austro ungarico, russo e turco, sorretti da un’altra logica politica. Questa, molto più antica e specifica, specialmente nei domini austriaci e turco, non era certamente una logica nazionale, ma multinazionale o imperiale. Essa non aveva come scopo una corrispondenza assoluta fra un territorio, un popolo unito da valori ed una lingua comune ed un governo. Questa logica accetta, al contrario, la presenza nel suo ambito di popolazioni diverse, per cultura, per religione e per origine, in poche parole, diverse nazionalità che non è necessario rendere uniformi o omogenee, ma che, peraltro, in caso di tensioni ed incomprensioni, tale situazione potrebbe implicare la possibilità che le stesse nazionalità rivendichino la loro indipendenza. Nel 1910, l’imperatore d’Austria-Ungheria, Francesco Giuseppe d’Asburgo Lorena (1830-1916), regna sul 23,9 % di germanici, il 20,2% di Ungheresi, 12,6% di Cechi, il 3,8% di Slovacchi, il 10% di Polacchi, il 7,9% di Ruteni (vicini agli Ukraini), ma anche sul 2,6% di Bosniaci mussulmani, il 6,4% di Rumani ed il 2% di Italiani. Nessuna di queste nazionalità risulta dominante, all’opposto di quello che avviene nell’Impero russo. D’altronde la Costituzione austroungarica del 1867 prendeva già atto di questa situazione. “Tutti i popoli (dell’Impero) sono uguali – recitava - ed ogni popolo ha un diritto inalienabile a conservare ed a coltivare la sua nazionalità e lingua”. Questa liberalità, tuttavia, non deve essere idealizzata. L’Austria-Ungheria della Belle Epoque resta una monarchia bicefala che comprende due diversi governi (3). E l’intolleranza dell’Ungheria nei confronti dei gruppi nazionali posti sotto il suo potere contrasta con la comprensione manifesta da parte dell’Austria nei confronti dei sui popoli: Budapest persegue una politica di magiarizzazione linguistica delle sue minoranze slave, rumene e germaniche, che ricadono nella sua giurisdizione. L’Ungheria si concepisce, all’opposto dell’Austria, come un insieme nazionale da formare. Anche nello spazio propriamente austriaco, il riconoscimento dei diritti linguistici delle nazionalità non soddisfa tutte le loro aspirazioni: le autorità amministrative locali trasgrediscono spesso le norme costituzionali in materia scolare o amministrativa, senza che le istanze giuridiche se ne facciano necessariamente carico. “Autonomia personale” Rimane il fatto che queste restrizioni non invalidano gli aspetti essenziali della convivenza. Alla vigilia della guerra 1914-15, la legittimità imperiale, che prevale ancora nell’Europa centrale, fa si che la maggioranza dei sudditi degli Asburgo rimanga refrattaria al nazionalismo di stato. A dire il vero, la maggior parte dei sudditi si interroga sulla loro stessa identità politica e sulla loro primordiale appartenenza, ivi compresi gli Austriaci più vecchi, come lo scrittore viennese Robert Musil (1880-1942) lo racconta con nostalgia: questi si sentivano come gli abitanti di un paese indeciso, che essi avrebbero potuto denominare “Kakanie”, con riferimento alle sigle K e K (“Kaiserlich un Koniglich”, ovvero “imperiale e reale”) che designava l’apparato di sovranità articolato fra Vienna e Budapest (4). In più l’Austria-Ungheria in quel momento rappresenta un luogo di riforme innovatrici tendenti a consentire la coesistenza di nazionalità culturali diverse nello stesso insieme politico. Queste riforme trovano la loro ispirazione nelle riflessioni degli austromarxisti, dei quali l'ex cancelliere Karl Renner (1870-1950) diviene il portavoce. Questi formula un progetto di “autonomia personale” che consiste nel separare gli affari economici e la politica generale (difesa, diplomazia) da un lato, che spettano al governo centrale, dalle questioni linguistiche e religiose dall’altro lato, la cui gestione dovrebbe effettuarsi al di fuori da qualsiasi principio di collegamento ad un territorio o ad una circoscrizione amministrativa (5). La paura del bolscevismo La più significativa di queste proposte ha persino conosciuto un inizio applicativo. A partire dal 1910 i Cechi ed i germanofoni della Moravia raggiungono un compromesso linguistico e politico che conduce ad una autonomia, allo stesso tempo nazionale ed individuale, per ciascun gruppo. La Bucovina e la Galizia seguiranno la stessa strada. I grandi stati nazioni come la Francia, la Gran Bretagna o la Germania osserveranno queste esperienze con la più perfetta indifferenza. All’alba della conflagrazione mondiale e fino al 1917, la loro politica europea viene caratterizzata da un identico disprezzo per le rivendicazioni delle piccole nazionalità. A loro modo di vedere, le unificazioni italiana e tedesca avevano concluso la fase della formazione dei paesi indipendenti capaci di assumere una sovranità effettiva. L’equilibrio del continente sembrava richiedere un tale atteggiamento, nel momento in cui sembrava pericoloso “accendere il fuoco” nei Balcani, dando ascolto alle velleità separatiste di qualche attivista scontento, così come appariva in Austria Ungheria. Tuttavia tutto cambia nel 1917, quando la rivoluzione russa mette avanti lo spettro della legittimità di una nuova politica. All’improvviso, presso i dirigenti delle potenze antagoniste europee, lo spavento del contagio comunista diventa prioritario su tutte le altre paure ed essi cercano, da questo momento, di scoprire l’antidoto a questo pericolo. Nell’urgenza del momento essi riescono a trovarne uno solo: quello che consiste nell’utilizzare i micro-nazionalismi come un “taglia fuoco” nei confronti della minaccia rivoluzionaria, laddove appare più temibile: in Europa centrale ed orientale. E’ in tal modo che, nell’improvvisazione, le grandi nazioni si predispongono al fiorire di un nazionalismo (6) attivo, che pur tuttavia alla vigilia della guerra avevano cercato in tutti modi di respingere. Già dal 6 agosto 1914, l’imprudente governo di Vienna aveva creato un Legione Polacca comandata dal generale Josef Pilsudski (1867-1935), un vecchio agitatore rivoluzionario, deportato a suo tempo in Siberia dallo Zar di tutte le Russie (7). Poi gli Austro-tedeschi avevano restaurato nel 1916, nelle regioni che avevano conquistato, un “Regno di Polonia” che, pur costituendo uno stato satellite, veniva a rivestire un enorme valore simbolico. Il 9 febbraio 1918, le potenze centrali riconoscono l’indipendenza della Repubblica democratica dell’Ucraina, concludendo con la stessa un trattato di pace separato. Lo stesso mese, esse consentono ai Paesi Baltici di realizzare, sotto la loro protezione, una secessione di fatto. E, certamente in una maniera meno diretta, la Germania favorisce la formazione, attraverso l’Armenia, l’Azerbaigian e la Georgia, di una Federazione Transcaucasica, costituita il 22 aprile 1918. Da parte degli Alleati, l’atteggiamento che essi avevano mantenuto dal 1914 al 1917 tendeva a far fronte al pericolo di instabilità, che un rimaneggiamento delle frontiere avrebbe potuto comportare nell’Europa del dopo guerra. Per di più, in Boemia, come anche in Croazia ed in Slovenia, era evidente che la massa della popolazione, come anche le aristocrazie locali, erano orientate a mantenere la loro fedeltà agli Asburgo. Lo stesso Eduard Benes (1884-1948), uno dei padri della futura Cecoslovacchia, aveva dichiarato qualche tempo prima: “Si parla spesso di un collasso dell’Austria. Per quanto mi riguarda, io non ci credo. I legami storici ed economici che legano i popoli austriaci sono decisamente molto forti, da poterne provocare il loro collasso “(8). Ma l’attendismo poteva rimanere un atteggiamento possibile, nel momento in cui esso implicava il rischio di lasciare i paesi nemici a smembrasi il vecchio impero russo, senza agire allo stesso modo nei confronti dell’Austria ? Potevano le vecchie potenze alleate apparire meno “democratiche” dell’avversario, trascurando il diritto dei popoli a disporre di sé stessi ? Le esitazioni dureranno a lungo. Il presidente del consiglio francese, Georges Clemenceau (1841-1929) avalla inizialmente i contatti allacciati nell’aprile 1917 con Vienna in vista di una pace separata, che avrebbe preservato l’impero a condizione ed al prezzo di determinate riforme. Ma qualche mese più tardi egli si unisce all’ipotesi del suo smantellamento, riconoscendo nel giugno dello stesso anno il Consiglio nazionale ceco, insediato a Parigi, come l’embrione di un futuro governo indipendente. Il primo ministro britannico, David Lloyd George (1863-1945), più sensibile, per contro, al rischio di una possibile destabilizzazione dell’Europa, rimane ostile a questa idea fino all’estate del 1918. L’8 gennaio 1918, la dichiarazione in 14 punti o scopi di guerra del presidente americano Woodrow Wilson (1856-1924), dimostra che gli USA non desiderano toccare l’Austria, nonostante la sua ambigua formulazione (9). Certamente il suo decimo punto esprime l’augurio che delle riforme, accettate dai “popoli dell’Austria-Ungheria”, possano assicurare la sua sopravvivenza. Ma tutte le ipotesi secessioniste devono comunque essere considerate, nel caso probabile in cui i dirigenti nazionalisti sostenuti dalla Francia e gli USA respingessero le riforme presentate dal governo di Vienna, ormai alle strette. Il processo diventa da quel momento irreversibile. I capi della Repubblica cecoslovacca, proclamata a Praga il 28 ottobre 1918, non hanno più alcun motivo di fare attenzione al Manifesto dei popoli, pubblicato dodici giorni prima dal giovane imperatore Carlo 1° d’Asburgo (1887-1922), successore di Francesco Giuseppe dal 1916. Da quel momento appare chiaramente che ci sono da un lato gli Alleati, per i quali l’indipendenza di alcuni popoli e l’ingrandimento territoriale si trova a portata di mano e dall’altro lato i paesi vinti, votati al sacrificio. La Serbia, la Romania, ma anche la Grecia, la Cecoslovacchia e la Polonia figurano fra la prima categoria, mentre l’Austria, l’Ungheria, la Bulgaria, la Turchia, la Germania o ancora - per effetto di una dolorosa assimilazione giustificata dalla loro appartenenza anteriore all’impero asburgico - la Croazia e la Slovenia rientrano nella categoria dei vinti. La parte austriaca dell’antica Austria Ungheria si riduce a quel punto dai 28 agli 8 milioni di abitanti e la stessa Ungheria dai 21 agli 8 milioni. La lezione viene ben compresa dagli “attivisti jugoslavi”, che decretano l’unione di Serbi, dei Croati e degli Sloveni della vecchia Austria-Ungheria e decidono senza l’avallo delle stesse popolazioni la loro annessione al regno di Serbia, incrementato, a partire dal 22 novembre 1918, del principato del Montenegro. Quasi simultaneamente, il 22 novembre 1918, il generale Pilsudski passa nel campo degli Alleati, per instaurare la Repubblica Polacca, sotto lo sguardo compiacente della Francia e degli USA. Frustrazioni nazionali Ben altro è il contesto della nascita della Repubblica d’Austria. Poiché gli Austriaci sono iscritti in testa alla lista dei vinti, gli Alleati non tengono in alcun conto la loro volontà di integrazione al “Reich tedesco”, espressa peraltro attraverso dei plebisciti ufficiali organizzati spontaneamente un po’ ovunque ed in special modo a Salisburgo o nel nord Tirolo. Nel dicembre 1918, essi si oppongono al tentativo di secessione dalla Cecoslovacchia degli abitanti germanofoni della regione dei Sudeti della Boemia, repressa con l’appoggio della Francia. Più tardi ancora, nel settembre 1919, in virtù di una identica parzialità, l’abate Andrej Hlinka (1864-1938) si vede trattare da nemico quando richiede che i suoi compatrioti slovacchi vengano consultati sulla loro annessione al governo di Praga. Per quanto concerne l’Ungheria, essa perderà la metà del suo territorio e della sua popolazione a vantaggio della Jugoslavia e della Romania. L’opportunismo dei vincitori della 1^ Guerra Mondiale non ha prodotto in nessun momento l’effetto previsto. La ristrutturazione dell’Europa centrale tendeva nell’immediato ad allontanarla dalle tentazioni rivoluzionarie, orientandola verso uno sfogo nazionalista. In luogo di tutto questo, si assiste alla comparsa della febbre bolscevica in Germania ed in Ungheria. Per quanto riguarda gli altri paesi del centro e dell’est dell’Europa che erano sfuggiti a questa situazione, essi avevano intrapreso un percorso di instabilità e di autoritarismo, ben diverso dalle attese democratiche del presidente Wilson e dominai, inoltre, dall’esasperazione di particolarismi, infinitamente più violenti di quelli presenti nell’impero degli Asburgo. Lo storico Eric Hobsbawm (1917-2012) osserva in effetti che “quasi tutti i nuovi stati costruiti sulle rovine dei vecchi imperi erano altrettanto multinazionali delle vecchie “prigioni dei popoli che essi rimpiazzavano … “ (10). I 6 milioni di Serbi ortodossi, sebbene vengano a costituire una minoranza nella nuova Serbia, essi pretendono di dominare in nuovo regno unificato di fronte ad una entità equivalente di Croati e Sloveni cattolici, a circa 1 milione di Mussulmani bosniaci, a 500 mila germanofoni, 250 mila Ungheresi, 200 mila Rumeni ed altri. Da parte sua, la Romania risulta rumena solo per due terzi ed in Cecoslovacchia, i Cechi costituiscono la metà della popolazione. Insieme agli Slovacchi essi rappresentano il 65% della popolazione di fronte ai 3 milioni di germanofoni, i 700 mila Ungheresi e 500 mila Ruteni o Ukraini. Questo incredibile miscuglio conta poco di per sé stesso, di fronte alle azioni repressive condotte da questi nuovi stati, infinitamente meno tolleranti dall’Austria e che hanno contribuito ad esacerbare gli odi nel periodo fra le due guerre. Quello che conta è il fatto che i principi democratici dei trattati non smetteranno di essere violati. In certuni paesi viene persino condotta una “purificazione etnica”, il cui orrore supera largamente le “pulizie etniche” del recente passato. La sorte riservata ai vecchi popoli oppressi, diventati dopo il 1918, delle minoranze oppresse nell’ambito di piccoli stati, le cui nuove frontiere hanno contribuito a frazionarli, determina, al loro interno, la diffusione di una frustrazione nazionale, fino a quel momento limitata a qualche attivista e che si è manifestata, sia presso gli Slovacchi, come fra gli Ungheresi della Transilvania, diventati rumeni loro malgrado. Ma ancora più fortemente questo sentimento si esprime presso i Tedeschi dei Sudeti e presso i Croati e gli Sloveni, inseriti di forza nell’artificiosa Jugoslavia. In definitiva, sta forse oggi risorgendo l'impero russo dalle sue ceneri, come antidoto al nazionalismo ed al sovranismo esasperato ? Insomma la mossa di Putin riguarda solo il Donbass oppure vuole rimettere in discussione gli attuali equilibri mondiali e riproponendo la rinascita di un impero. NOTE (1) Il concetto moderno di nazione compare nel XVIII secolo. Nel 1789, si designa con tale termine la “persona giuridica costituita dall’insieme degli individui che compongono lo stato”. Ma la nazione non si confonde con lo stato. Nel XIX secolo, la sua definizione costituisce l’oggetto di numerosi dibattiti fra i fautori, come Ernest Renan (1823-1892), della nazione contratto, che si basa sulla volontà di vivere insieme e quelli, come i romantici tedeschi, che difendono una nazione come frutto della natura, della razza e dell’istinto. E’ proprio in questa epoca che sorgono gli Stati nazione: la contrapposizione di uno stato in quanto organizzazione politica e di una nazione come un insieme di individui che hanno coscienza di appartenere ad uno stesso gruppo; (2) Nella costituzione romana, il termine Imperium designa il potere di comandare, vale a dire l’autorità amministrativa suprema che è devoluta inizialmente al re, quindi detenuta sotto la Repubblica da alcuni magistrati ed infine, sotto l’Impero, dall’imperatore. A volte, un cittadino può ricevere l’imperium ma per uno scopo o missione particolare. Nel Medioevo, il Papato assume l’eredità di questo imperium, prerogativa che gli viene contestata, sia dai principi, sia da Patriarca di Costantinopoli; (3) A seguito del compromesso austro ungherese del febbraio 1867, dallo stesso anno due stati costituiscono l’impero Austro-ungarico: da una parte l’Ungheria restaurata come regno, di cui Francesco Giuseppe è re e l’Impero d’Austria, dall’altra, di cui lo stesso Francesco Giuseppe è imperatore; (4) Robert Musil, L’uomo senza qualità, Seuil; (5) Konrad H., L’Austromarxismo e la questione nazionale, 1982 (6) Il termine designa in primo luogo la volontà di far corrispondere lo stato e la nazione: questo è quello che guida i “movimenti della nazionalità” nel 19° secolo. Esso può anche designare le politiche che tendono a rinforzare la “nazionalizzazione” della società attraverso l’unificazione linguistica o l’educazione patriottica. Esso qualifica, infine, una ideologia che propugna un risveglio nazionale, sia attraverso la conservazione, sia attraverso una politica estera aggressiva; (7) Vlatteau A., Josef Pilsudski, dittatore fascista o patriota polacco ?; (8) Bled Jean Paul, L’Austria Ungheria un modello di pluralismo nazionale ? Liebich Hans Georg e Reszler André, “L’Europa centrale e le sue minoranze”, PUF, 1993; (9) In un messaggio al Congresso americano il presidente enuncia 14 punti al fine di assicurare una pace giusta e durevole: in particolar modo la fine della diplomazia segreta; la riduzione degli armamenti; la libertà di navigazione dei mari; la liberazione dei popoli colonizzati; la restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia; la resurrezione della Polonia, la creazione della Società delle Nazioni; (10) Frutto della conquista, l’impero risulta spesso multinazionale e multiculturale. Esso risolve questa contraddizione, organizzando una gerarchia più o meno autoritaria delle lingue e delle culture. Nel XIX secolo, mettono in evidenza che le strutture di certi imperi (russo e specialmente quello ottomano) hanno permesso la coesistenza pacifica dei popoli, il cui collasso successivo in stati nazionali ha spesso contribuito a ravvivare gli scontri.
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