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Contrasto interpretativo (Ex Cirielli) Tra Giudice di legittimitą e Corte di Giustizia Feb 28 2006 12:00AM - Avv. Angeletti Riziero (Rieti) Non intendo rendere politico ciò che il giurista dovrebbe sempre e comunque tradurre in termini di diritto accettando ciò che il legislatore produce ed avvalendosi degli strumenti di tutela per ripristinare la legalità ove questa venga ridotta a brandelli. Non posso neppure lontanamente pensare ad una sorta di “diritto di resistenza” che in altre epoche consentiva la violazione del sistema legale per decapitare il “tiranno” . Nel primo caso sarei immediatamente tacciato di “inutilità politica”: “fai il tuo mestiere e lascia al politico il suo”; nel secondo caso troverei lo scontro con il macigno della storia: “il diritto di resistenza appartiene alla comunità che nella totalità decide di reagire al predominio attuato dal capo”. Ed allora eccomi a limitare l’interesse didattico a ciò che mi compete. Nel sistema giudiziario italiano si assiste oramai da tempo alla decadenza del “principio di diritto” che nasce da un pronunciamento della Suprema Corte. E’ noto che la decisione del massimo consesso di legittimità, specialmente quando sgorga dalla insuperabile formazione collegiale delle Sezioni Unite, dovrebbe fungere da pietra miliare per coloro, giudici, che si accingono ad affrontare tematiche identiche. Ciò per dare continuità alle interpretazioni di diritto e creare una sorta di capisaldi che fungano da punti di riferimento per i cittadini ignari della farraginosità dei sistemi processuali contemporanei. Ma così non è. Puntualmente le ragioni del singolo, ancorché pienamente legittime, superano quelle del “principio”: “Le Sezioni Unite della corte di cassazione non costituiscono ostacolo invalicabile. La soggezione soltanto alla legge, consente ad ogni giudice di avvalersi del proprio convincimento e decidere in maniera assolutamente diversa da quella adottata dal massimo Collegio” Intendiamoci, la ragione sottesa a tale condotta è pienamente condivisibile, nel senso che quando la comunità dei consociati mostra un maturato contrasto con l’interpretazione letta dalla giurisprudenza ben si può, anzi si deve, rideterminare il concetto espresso, dando nuovo impulso di principio alla luce della nuova realtà. Ciò che però è intollerabile è l’esasperazione del “libero convincimento” del giudice. Attraverso l’applicazione puntuale di esso tutto e il contrario di tutto è possibile. No, una società civile questo modo di fare giustizia non lo può tollerare. E’ in questo contesto che nasce l’ennesima riforma legislativa che pur partendo da principi di diritto solidi e radicati nella coscienza comune, giunge, attraverso operazioni di chirurgia molecolare incomprensibile, alla produzione di una entità neppure umanamente definibile. Qual è innanzitutto il principio esatto: prendere coscienza della necessità di rendere i tempi della giustizia più adeguati alla civiltà della società che corre sempre più velocemente e garantire il cittadino della certezza del diritto. Processi che terminano dopo venti anni non possono appartenere ad un ordinamento definito civile. Qual è, allora, l’ingorgo in cui si è imbattuto il legislatore per giungere al risultato che ha prodotto? A me personalmente non interessa conoscerlo, quanto meno per non cadere nella contraddizione che mi sono imposto in limine di evitare. Mi interessa però portare un mio piccolo contributo, quello sì, di giurista, che nessuno mi può vietare. Nasce l’idea di una legge ad personam: “salva Previti”. Nasce e muore subito dopo,colpita dagli strali del mondo intero. Così, l’on. Cirielli ritira la propria firma dalla proposta di legge: “non la riconosco più”. Ma la necessità di legiferare in una materia così delicata non può fermare la macchina legislativa. Ed allora si modifica quella norma che consente la retroattività dei nuovi termini di prescrizione. Le novità appartengono solo ad alcuni fortunati che, non si sa bene perché e per come, hanno visto il loro processo dormire nel limbo degli archivi dei palazzi di giustizia e che, giovatisi di tali ritardi, oggi si vedono applicare norme a loro più favorevoli per il semplice fatto che il loro processo ancora non ha visto la solennità della declaratoria di “apertura del dibattimento”. Ed allora non solo ingiustizia su ingiustizia, ma legittimazione di condotte penalmente e deontologicamente riprovevoli. Ma sempre e solo da giurista, mi soffermo in un breve approfondimento. Per non applicare la norma più favorevole ai procedimenti che già hanno visto consumata la fase di apertura del dibattimento, si determina la violazione di un principio che è sancito in una norma fondamentale dell’ordinamento penalistico: l’art. 2 comma 3 del codice penale, che esattamente recita: “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. Pensate quindi quali e quante contorsioni intestinali deve subire chi quotidianamente vive la logica del diritto, chi si appassiona al processo, chi si sacrifica per gli interessi dello Stato garante della legalità e chi vuole che sempre il processo penale sia “giusto” nella sostanza e “giusto” nella forma cosicché tale appaia a tutti i cittadini. Ma il giurista va avanti, scrollandosi di dosso la tentazione di prendere a pugni il legislatore, di vantare aspirazioni politiche, di ambizioni che non gli appartengono e guarda come fa tutti i giorni e tutte le notti dentro la legge. Cerca la strada che deve essere percorsa affinché la legalità trionfi. Ed ecco che si scorge uno spiraglio di luce all’orizzonte: un giudice, sulla base di quel tanto criticato principio del libero convincimento, decide di “stoppare” una norma che non va bene, che ritiene lesiva dei diritti della persona e penalizzante alcuni rispetto ad altri in identiche fattispecie giuridiche. Il dr. Marco Verola, giudice presso la sezione distaccata di Gubbio del Tribunale di Perugia nell’ordinanza 12.12.2005 asserisce che sull’argomento deve esprimersi la Corte Costituzionale: “viola l’art. 3 della costituzione la norma che impedisce l’applicazione retroattiva della legge più favorevole all’imputato. La Corte cassi con una sentenza di illegittimità.” Anche il dr. Pietro Messini D’Agostini, giudice monocratico del Tribunale di Ravenna con ordinanza 12.01.2006 ritiene violato il canone di uguaglianza e decide che la norma debba essere vagliata dalla Corte Costituzionale. La Corte di cassazione con decisione 12 dicembre 2005 / 10 gennaio 2006 n. 460 ha già detto no all’invocato canone di illegittimità: “è manifestamente infondato”. Doccia fredda per il giurista. Ma noi non abbiamo pregiudizi: “è più facile spaccare l’atomo che spaccare un pregiudizio” diceva Einstein, ed allora andiamo avanti, sempre più a fondo. E’ vero, un’attenta valutazione giuridica dello stato delle cose ci consente di condividere il pensiero della Suprema corte, ma i canoni di riferimento a nostro modo di vedere sono errati. Non è il principio di uguaglianza che viene leso dalla inoperatività della retroattività della norma più favorevole. Tale principio trova fondamento in una legge ordinaria (l’art. 2 comma 3 del codice penale) e non può spingersi al punto da annientare senza una solida giustificazione quanto la Costituzione statuisce all’art. 25, secondo comma, ove è impresso il principio di irretroattività della legge penale. Ed allora che fare? Il giurista non abbandona il campo di gioco. Va sempre avanti ed anzi, più la strada si fa buia e contorta maggiore è la sua passione. La Corte di Giustizia Europea con sentenza 03 maggio 2005, nell’ambito di un procedimento a carico di noti politici italiani, variando l’orientamento fino ad allora assunto, afferma: “Il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo non riveste più rango di questione di diritto nazionale, ma quello di principio generale del diritto comunitario”. Abbiamo trovato la giusta strada, ma i canoni costituzionali di riferimento sono altri. Non più l’art. 3 della costituzione, o almeno non solo più tale articolo, ma anche e soprattutto gli artt. 10 e 11 della nostra aurea Carta ove è impresso il principio di conformità dell’ordinamento italiano alle norme di diritto internazionale. Ed allora, per concludere, solo attraverso tali argomenti la retroattività delle norme penali più favorevoli al reo assurge a principio cardine di rilievo costituzionale utile al ripristino della legalità.
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