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Forum 3

La profezia di Napoleone sulla Cina

I pericoli delle delocalizzazioni


Feb 28 2006 12:00AM - Raffaella Ginanneschi


(Rieti)

L’adesione della Cina al WTO (World Trade Organization) nel 2001 ha scatenato una sempre più capillare invasione della merce di questo paese nei nostri mercati, tanto da giungere anche nella nostra città.

A Rieti, infatti, già esiste un’attività di ristorazione, come sussistono taluni punti di vendita organizzati dai cinesi.

Il beneficio del basso prezzo della merce cinese, sovente contraffatta, costituisce senz’altro un’attrazione fatale per il consumatore; in realtà, lo sconto cinese rappresenta un effetto distorsivo del commercio internazionale che determina per il produttore cinese indebite agevolazioni rispetto ai colleghi degli altri paesi. Infatti, attraverso il ricorso al dumping monetario si crea un prezzo più basso del prodotto cinese attraverso un artificioso rapporto di cambio tra lo yuan e la moneta del paese di vendita della merce.

La istituzione del WTO in Marocco nel 1994 dovrebbe esprimere il processo di integrazione economica di tutti i paesi facenti parte della Organizzazione Mondiale del Commercio, ivi compresi i PVS (Paesi in Via di Sviluppo), in una prospettiva di tutela della concorrenza e, al contempo, di libertà di scambi.

Tuttavia, le difficoltà di assicurare procedimenti antitrust equi e trasparenti in seno all’OMC perdura ancora, tanto che la stessa WTO non assicura una regolamentazione adeguata che garantisca condizioni di parità alle imprese operanti nell’ambito del mercato unico.

Infatti, è discusso il sistema sanzionatorio di cui all’Accordo Antidumping 1994, il quale, seppur sia previsto in generale per ogni azione statale volta ad aver effetto sui cambi, nella prassi è di difficile applicazione, dato che il dumping monetario è praticato da singole imprese e con riferimento a prodotti ben determinati. V’è da aggiungere che i cinesi, ai fini dell’ottenimento della riduzione dei costi di produzione, ricorrono al riprovevole social dumping, determinato dal mancato rispetto degli standards minimi di trattamento dei lavoratori come ad esempio l’impiego della forza-lavoro infantile e l’assenza di regole nazionali sull’ambiente di produzione.

E’ carente una specifica disciplina che regoli i rapporti tra commercio internazionale e diritti sociali, stante la mancata applicazione di specifiche convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (come ha osservato lo studioso commercialista internazionale Alberto Santa Maria) dovuta alla difficile utilizzabilità in seno alla WTO della Dichiarazione OIL sui diritti fondamentali dell’uomo sul lavoro, che omette proprio alcuni diritti violati dai datori di lavoro cinesi, come l’adeguata retribuzione, la sicurezza e l’igiene ambientale.

L’unico rimedio per combattere il dumping sociale è dunque quello generale, previsto per ogni stato membro del WTO, il quale, qualora si ritenga danneggiato da un prodotto cinese, può attivare i sistemi di applicazione di misure di salvaguardia.

In sede comunitaria è da rilevare che Bruxelles ha adottato misure di tutela della salute pubblica fin dall’anno 2002, attraverso veri e propri embarghi di prodotti di provenienza cinese. V’è da aggiungere che gli stessi produttori comunitari, che subiscono il pregiudizio dalle importazioni cinesi, possono presentare e approvare denunce e collaborare alle relative inchieste, qualora si ritengano danneggiati da prodotti cinesi ritenuti idonei a perturbare il mercato per l’industria comunitaria (cfr. Regolamento del Consiglio CE n.427/2003, del 3 marzo 2003; Regolamento del Consiglio CE del 14 agosto 2002, n.1531/2002).

Sono stati aperti anche numerosi procedimenti antidumping diretti all’applicazione di dazi su merce cinese, ma alcuni di essi sono stati definiti anticipatamente per il ritiro della denuncia, forse per il carattere spesso provvisorio dei dazi o per la possibilità della Cina di adottare contromisure.

Ma, allora, dovremmo convenire con Giulio Tremonti che paventa l’avverarsi della catastrofica profezia di Napoleone “Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà”?

Non è detto, dal momento che si è creato un inquietante meccanismo inverso di conquista; ad esempio gli indomiti neozelandesi hanno sottratto ai cinesi il potenziale monopolio della produzione del frutto della pianta sarmentosa Yang-Tao, originaria della Cina Sud-Occidentale, che è stato ribattezzato Kiwi, in riferimento all’omonimo uccello che vive in Nuova Zelanda. I cinesi non possono riappropriarsi di un frutto così tanto “globalizzato”, di cui attualmente è proprio l’Italia il primo produttore al mondo. Una intrigante e beffarda operazione è quella del reinvestimento da parte degli USA del surplus valutario cinese in titoli di stato americani; inoltre, tra gli stessi imprenditori, che subiscono l’impatto violento della concorrenza asiatica, si è ingenerata la convinzione che gli stessi cinesi possano considerarsi potenziali grandi consumatori di prodotti europei, e anche italiani, tanto è vero che è divenuta più incisiva e consistente la commercializzazione dei nostri stessi prodotti in Cina, al fine di rendere l’Italia più competitiva sul mercato unico.

La Regione Lazio ha siglato un protocollo di collaborazione con la Camera di Commercio di Pechino per l’anno 2006, proprio per favorire l’internazionalizzazione delle imprese laziali in Cina, “Un mercato di eccellenza dal quale non si può venir tagliati fuori”, così Piero Marrazzo alla terza Assemblea Generale delle Camere di Commercio del Lazio del 19 gennaio 2006.

Si aggiunge che sono state delocalizzate sempre più numerose nostre produzioni in Cina e si rischia di non conservare neanche l’agricoltura: taluni noti imprenditori vitivinicoli hanno annunciato che stanno organizzando proprio in terra cinese parte delle loro produzioni. Sarebbe interessante conoscere quali criteri degli impianti e quali regole di lavoro i medesimi sono disposti ad adottare, tenendo conto, tra l’altro, che è difficile immaginare distese di vigneti chiantigiani nella campagna attorno a Shanghai o a Nanchino; tuttavia, a tale osservazione i detti volonterosi produttori sono pronti a rispondere che tanto non si tratta propriamente di vino nostrano, ma di “un vino che è gradito solo ai cinesi”.

 

 


 

 

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