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Forum Numero 7

Ancora sulla “ex Cirielli”

Nuova ipotesi di incostituzionalità


Feb 13 2007 12:00AM - Avv. Riziero Angeletti


(Rieti) Con sentenza del 23 novembre 2006 n. 393, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 comma 3 della Legge 5 dicembre 2005 n. 251 limitatamente alle paratole “DEI PROCESSI GIA’ PENDENTI IN PRIMO GRADO OVE VI SIA STATA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA DEL DIBATTIMENTO”. Ciò stante, il comma 3 dell’art. 10 della richiamata legge va così riletto: “Se per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, gli stessi si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente Legge, ad esclusione (…) dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione”. La Corte Costituzionale, nella sopra richiamata pronuncia, ha riservato particolare attenzione alla denunciata violazione dell’art. 3 Costituzione ed ha fornito una serie di risposte ai vari dubbi interpretativi che ci consentono in parte di rinviare il nostro lavoro ad una lettura pressoché totale delle ragioni di diritto contenute nelle motivazioni della predetta sentenza. In particolare possiamo ricordare che per la Corte Costituzionale: a) la norma contenuta nell’art. 2, co. IV CP secondo cui: “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”, deve essere interpretata, ed è stata sempre interpretata dalla stessa Corte (e dalla Corte di Cassazione) nel senso che la locuzione “disposizioni più favorevoli al reo” si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato; b) il regime giuridico riservato alla lex mitior, e segnatamente la sua retroattività, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 secondo comma della Costituzione, in quanto la garanzia costituzionale prevista dalla citata disposizione, concerne soltanto il divieto di applicazione retroattiva della norma incriminatrice, nonché di quella altrimenti più sfavorevole al reo. Da ciò discende che eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell’art. 3 Costituzione, possono essere disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa. Da tali premesse la Corte ha analizzato la normativa tacciata di incostituzionalità al fine di verificare se la scelta compiuta dal legislatore con la norma in esame sia stata assistita da ragioni che giustifichino la deroga, in tal modo apportata, al principio più volte richiamato. Lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Costituzione, sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole. Pertanto secondo la Corte la deroga al regime della retroattività deve ritenersi ammissibile nei confronti di norme che riducano la durata della prescrizione del reato, purché tale deroga sia non solo coerente con la funzione che l’ordinamento oggettivamente assegna all’istituto, ma anche diretta a tutelare interessi di non minore rilevanza. A ciò consegue che la questione di legittimità costituzionale in esame si risolve in quella della intrinseca ragionevolezza, ex art. 3 Costituzione, e dunque alla luce del principio di eguaglianza, della scelta di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimine temporale per l’applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005. Come è noto, la Corte perviene alla conclusione che la soluzione legislativa non sia corredata da ragionevolezza così da determinarne la illegittimità. Ciò premesso, e tornando alla disamina della questione di rilievo per il nostro caso, occorre chiarire le ragioni sottese alla irragionevolezza della scelta del legislatore di limitare l’applicazione della nuova legge ai casi relativi a processi nei quali non vi sia pendenza in sede di appello. Per verificare se l’opera legislativa sia assistita da adeguata ragionevolezza ovvero da interesse diretto alla tutela di diritti egualmente qualificati rispetto a quelli negati dalla limitazione temporale del termine prescrizionale, occorre analizzare la specificità di tali interessi costituzionalmente garantiti e decifrarne l’effettiva valenza. La sentenza n. 393 del 2006 ha sostanzialmente affermato che l’individuazione del momento di apertura del dibattimento quale termine oltre il quale i procedimenti non potevano essere presi in considerazione dal giudice al fine di applicare i nuovi termini di prescrizione appariva irragionevole atteso che ad esso la legge non faceva corrispondere alcun fatto giuridicamente rilevante che si ponesse in antitesi equilibrata con la disparità di trattamento tra procedimenti nei quali ancora non era stata dichiarata l’apertura del dibattimento e procedimenti nei quali tale declaratoria era stata pronunciata. La Corte ha altresì affermato che di irragionevolezza non può essere accusata la scelta del legislatore che sia ancorata ad un momento processuale, qual è quello che attraverso l’emissione di una sentenza, scandisce i vari gradi del processo, andando ad influenzare direttamente l’istituto della prescrizione, attraverso la figura della interruzione del suo decorso. Tale affermazione potrebbe indurre l’interprete a ritenere che la declaratoria di incostituzionalità pronunciata con sentenza 393 del 2006 costituisca nella propria motivazione l’antecedente logico che sostiene, a contrario, la legittimità di un termine ancorato alla pendenza del procedimento in sede di appello. L’ipotesi di lavoro testé richiamata confligge, però, con lo stato attuale dei fatti. Invero con la decisione di incostituzionalità suddetta la Corte ha sostanzialmente commesso l’errore motivazionale di includere tra i momenti essenziali che giustificano la non retroattività della nuova legge sulla prescrizione quello della emissione della sentenza in quanto previsto dall’art. 160 co. 1 cp quale atto interruttivo della prescrizione. E ciò non tanto perché non sia previsto come tale, quanto per l’essere stato scavalcato dalla declaratoria stessa di incostituzionalità. La Corte ha infatti affermato che “l’apertura del dibattimento non è in alcun modo idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, legato al rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l’allarme sociale, e dall’altro rende più difficile l’esercizio del diritto di difesa. … Infatti, l’incombente di cui all’art. 492 cpp non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo grado …; né esso è incluso tra quelli ai quali la legge attribuisce rilevanza ai fini dell’interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 cp, il quale richiama una serie di atti, tra cui la sentenza di condanna e il decreto di condanna, …”. Ma con la declaratoria di incostituzionalità, la Corte ha individuato un diverso termine al quale ancorare l’applicabilità dei nuovi termini di prescrizione, travolgendo l’antecedente costituito proprio dalla emissione di una sentenza di condanna. Invero, spostando il termine dal momento di apertura del dibattimento alla “pendenza” del procedimento in sede di appello, viene reso privo di rilevanza quel momento che la Corte ha indicato come logico ai fini della individuazione di un termine oltre il quale la nuova normativa non va applicata, appunto quello in cui si realizza la pronuncia della sentenza di primo grado. Se tale ricostruzione non aggiunge nulla alla realtà ridefinita dalla Corte costituzionale, va ribadito che il momento in cui si perfeziona il concetto di “pendenza” del processo d’appello, non rappresenta alcun fatto o atto tra quelli che la stessa Corte ha indicato come plausibili per una scelta di irretroattività della nuova disciplina più favorevole agli interessi dell’imputato. Pertanto la sentenza di primo grado anche alla luce della dichiarazione di incostituzionalità pronunciata con la decisione n. 393 del 2006 diventa ininfluente ai fini della individuazione di un momento processuale di valenza almeno pari a quella che consente l’applicazione retroattiva delle norme sulla nuova prescrizione. Va detto, per la verità, che la Corte d’Appello di Napoli, con ordinanza 21.12.2006 ha già dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 comma 3 della legge 251/2005, con riferimento all’art. 6 della legge suddetta, in relazione agli artt. 3 e 25 Costituzione, nella parte in cui esclude dall’applicazione delle nuove regole contenute nell’art. 6 della legge i reati per i quali i processi siano già pendenti in appello, ma ciò ha fatto prendendo le mosse da una errata interpretazione delle motivazioni addotte dalla più volte richiamata sentenza della Corte Costituzionale ove è fatto riferimento alla incidenza della pendenza del processo in appello nell’ambito del contesto dei valori primari da contemperare agli interessi dell’imputato. In realtà, come abbiamo visto, la declaratoria di illegittimità costituzionale non indica tra detti momenti essenziali del processo quello in cui si realizza la pendenza in appello, ma altri che, dalla dichiarata incostituzionalità, sono stati spazzati via e, quindi, ininfluenti ai fini della eventuale ulteriore declaratoria di illegittimità che potrebbe aprirsi nel contesto dei procedimenti di appello pendenti già al momento di entrata in vigore della legge 251 del 2005 (08.12.2005). Il riferimento giurisprudenziale appena richiamato non dovrà trarre in inganno. Si ricordi, ad esempio, che con decisione 12 aprile 2006 n. 24410, la V sez. penale della Suprema Corte di Cassazione dichiarò manifestamente infondata la stessa questione di legittimità che pochi mesi dopo la Consulta ha accolto con sentenza n. 393 del 2006.

 

 

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