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FORUM 10

Il «sentire mafioso»

Un fenomeno collegato al contesto storico-geografico ed alla condizione sociale


Jan 15 2008 12:00AM - C. SARCIA'


(Rieti ) La recente rappresentazione televisiva dedicata alle “gesta” del corleonese Salvatore Riina detto “u curtu”, capo dei capi di Cosa Nostra, si è conclusa con un coro di polemiche e di giudizi variamente articolati, lasciando aperto soltanto il discorso sulla opportunità di aver somministrato ad un popolo, qual è quello italiano, un prodotto televisivo così ingombrante e pericoloso. Ingombrante perché confezionato con un realismo eccessivo, quasi celebrativo; pericoloso, perché idoneo a sospingere il pubblico meno adulto ad esaltarsi, a desiderare di emulare certi atteggiamenti ed a prestare ammirazione per i comportamenti dei protagonisti peggiori della fiction. Il pericolo esiste. Nella generalità dei casi, infatti, il popolo italiano si è abituato ad ingoiare avidamente e con assimilata predisposizione ogni prodotto televisivo che gli venga proposto dalla Grande Sorella, senza opporre resistenza, senza interrogarsi sull’opportunità delle scelte e senza neanche tentare di diversificare il proprio interesse verso condensati di cultura più idonei ad integrare la sua formazione. E’ indubbio che il pericolo degli effetti negativi di una tale rappresentazione trova maggiore spazio nella sede di svolgimento della storia, la Sicilia. L’occasione è però buona per riprendere un vecchio discorso che la politica nazionale, dal dopoguerra in poi, non ha mai saputo, né voluto, affrontare con adeguato spirito di indagine e che la legislazione penale ha provato a definire nella sua essenza etologica ed a sanzionare, per tentativi progressivi, con l’introduzione di accorgimenti palliativi, curando più che altro che ogni nuovo atto legislativo si articolasse in un quadro di rispetto dei diritti dell’uomo costituzionalmente tutelati. Mi riferisco all’introduzione nell’ordinamento del reato di appartenenza ad organizzazione mafiosa (art . 416 bis c.p.) con la variante giurisprudenziale del concorso esterno, all’introduzione dei benefici di pena in favore dei pentiti, al trattamento di protezione assicurato a pentiti e familiari ed infine all’introduzione dell’art. 41 bis Legge 26 luglio 1975, n°354 sull’ordinamento penitenziario, il cui destino, lo abbiamo appreso di recente, qualora dovessimo dar credito alle tesi di un giudice americano che ha dichiarato battaglia alla norma ritenendola pari, per gli effetti sulla persona, alla pratica della tortura, continua ad essere incerto e controverso. Se la tesi americana fosse accettata dalla Corte competente, non c’è dubbio che la posizione dell’Italia all’interno del consesso europeo ne risulterebbe paradossalmente compromessa, specie in un momento in cui i radicali italiani si battono strenuamente per la moratoria sulla pena di morte e l’Europa si oppone all’ingresso della Turchia nella Comunità. In effetti null’altro di meglio e di più efficace può accreditarsi al Legislatore nel campo della lotta alla mafia, oltre che i rimedi sopra richiamati. I soggetti che legiferano si sono infatti preoccupati, più che altro, di mantenere integro il loro “portafoglio” clientelare, in quanto, per naturale evoluzione, direttamente correlato al suffragio elettorale (416 ter c.p.). Del fenomeno mafioso si è fatto sempre un gran discorrere in ambito culturale, tanto che è divenuto materia di studi sociologici e foraggio per autori di libri e film. Nel frattempo le forze di polizia sperimentano ogni giorno l’impossibilità di portare la loro presenza, lasciamo stare la vigilanza e la repressione, all’interno di porzioni di territorio nazionale occupate manu militari dalla mafia. La riconquista del territorio nazionale, che dovrebbe essere una priorità assoluta, passa sotto silenzio e guai a parlare di leggi speciali. E’ vero, le norme di contrasto e repressione già esistono. Il difficile sta però nell’applicarle. Manca una vera e propria cultura del contrasto, ma soprattutto manca la conoscenza del “nemico”. Un nemico si combatte proficuamente, quanto più se ne conoscono gli elementi costitutivi e caratteriali. Inoltre, la risposta dello Stato deve essere adeguata, altrimenti il nemico, come abbiamo visto, si fa beffe dello Stato e continua a “governare” sui territori che ha sottratto alla sovranità nazionale e sui “sudditi” che vi risiedono, cittadini più che altro indifesi, non tutelati a sufficienza, comunque vittime del racket, del pizzo e delle estorsioni e protetti soltanto dalla legge dell’omertà, la sola che assicuri loro lunga vita. Chi scrive si considera un testimone privilegiato perché ha avuto modo di osservare da vicino l’evolversi del fenomeno mafioso, dal dopoguerra in poi. Una verità sia però consentito esprimerla: nel periodo fascista non si mandavano al confino solo gli oppositori politici, ma anche i capostipiti e i gregari delle famiglie notoriamente mafiose. Il risultato, neanche a dirlo, era assolutamente positivo, i Siciliani lo ricordano ancora: “…si dormiva con la porta aperta…”. Il merito, più che del fascismo, fu del Prefetto Cesare Mori, che fascista non era. Con ciò non si vuole inneggiare ai trascorsi storici, tanto meno auspicarne il rigurgito. Si vuole soltanto far rilevare che la riorganizzazione della mafia è un prezzo pagato dalla democrazia italiana ed è soprattutto il prezzo del “compromesso”, cioè della spartizione post fascista del potere. La strage di Portella della Ginestra e l’uccisione di Giuliano e Pisciotta, non sono altro che gli atti prodromici di questo compromesso. Forse, una maggiore coesione tra le forze politiche, che avesse guardato ai primari interessi dei cittadini quali la sicurezza, la libertà, la giustizia, avrebbe meglio contrastato un fenomeno che è ormai divenuto incontrollabile, che ha raggiunto proporzioni insostenibili e che non è più fronteggiabile con gli ordinari istituti. Ma le ingerenze americane e le esigenze della nuova classe dirigente di affermare il proprio predominio non lasciavano spazi di collaborazione. Tra l’altro, nel mondo mafioso non esiste altra forma di ricambio direzionale oltre alla scarica micidiale dei fucili a canne mozze. Si tenga presente che la Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia istituita con Legge 20 dicembre 1962, n°1720, dopo 10 anni (1972) ha concluso i suoi lavori con questa amara considerazione: “non è possibile dare indicazioni definitive circa le cause della mafia e i rimedi idonei a combatterla”. Noi siamo purtroppo gli Europei più deboli, arriviamo sempre ultimi e talvolta non arriviamo del tutto. Il 5 dicembre scorso il senatore a vita Cossiga, nella dichiarazione di voto sulla fiducia al Governo avente per oggetto il decreto sulla sicurezza, ricordava come, l’Inghilterra, con un provvedimento di iniziativa laburista, avesse già da tempo risolto il problema della sicurezza, consentendo alla polizia di trattenere per indagini il presunto reo fino a novanta giorni, senza doverne dare conto alla magistratura e senza la presenza di legali. L’Avvocatura dovrebbe gridare allo scandalo! Ciò malgrado la Gran Bretagna sta in Europa e continua ad essere la democrazia più antica e solida del vecchio continente. Diversamente, il Legislatore italiano nel 1964 “legò” le mani a carabinieri e polizia attribuendo la direzione delle indagini ai magistrati (con tutto il rispetto dovuto loro). Ma avviciniamoci all’essenza del problema. Il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli così liquida la definizione di mafia: “Organizzazione clandestina di natura criminosa suddivisa in tante piccole associazioni (cosche o famiglie) rette dalla legge dell’omertà e della segretezza che esercitano il controllo di alcune attività economiche e del sottogoverno specialmente nella regione siciliana”. Così definito, il problema appare circoscritto e addirittura limitato e l’allarme sociale che ne consegue risulta inscatolato in un pezzo di Mezzogiorno le cui realtà nessuno conosce veramente, tanto che continuano ad essere trattate in un’ottica settentrionalista e con i principi ispiratori che animarono il processo di Bronte ai tempi dello sbarco dei Mille, con la sola eccezione delle esecuzioni capitali che seguirono. Bisogna però sapere che i Siciliani, in massima parte, si considerano ancora sudditi involontari di uno Stato che da Torino, passando per Firenze, si è infine definitivamente stanziato a Roma e che tradizionalmente si è interessato poco o niente della Sicilia. Lo Statuto Speciale e la Cassa per il Mezzogiorno non hanno favorito affatto l’emancipazione dei Siciliani; semmai ne hanno alimentato, esasperandole, le istanze indipendentiste che, pur se non dichiarate apertamente per motivi di opportunità e di convenienza, in effetti non si sono mai del tutto sopite. La tattica dei veri detentori del potere in Sicilia, i mafiosi, non è dissimile da quelle talvolta collaudate in ambito politico: si manda avanti un personaggio e se ne sostiene la candidatura, purché faccia quello che dicono i burattinai di turno. Perché sarebbe stato ammazzato il 6 gennaio 1980 Piersanti Mattarella, Presidente della Regione siciliana, se non perché si era rifiutato di sottomettersi alla mafia? E perché sedicenti pentiti di mafia hanno accusato il senatore a vita Andreotti di collusioni impensabili, se non per punirne l’opposizione alle richieste dei capi? Il vigente codice penale, all’art. 416 bis, configura l’associazione di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti e vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. L’edizione 1966 dell’analogo codice, a venti anni circa dal referendum “monarchia-repubblica”, era ancora ferma (art. 416) alla definizione di associazione per delinquere. Ci sono voluti altri trenta anni perché la definizione fosse riqualificata. Forse all’epoca la mafia era meno potente e pericolosa di oggi? E’ piuttosto probabile che il Legislatore dai suoi scranni abbia coltivato l’illusione di poter sconfiggere la mafia con le parole o semplicemente specializzando la norma. Chi ha percorso in lungo e in largo la Sicilia sa che i contadini siciliani, ovunque intervistati, da Corleone a Gela, assicurano, alla stregua di coloro che negano l’olocausto, che la mafia non esiste e che si tratta di chiacchiere. Leonardo Sciascia con le sue opere, ha dato un forte contributo alla comprensione del fenomeno mafioso; memorabile la classificazione dell’umanità teorizzata da un suo personaggio, Don Mariano, “Bella parola (umanità) piena di vento; la divido in cinque categorie: uomini, mezz’uomini, ominicchi e quaquaraquà”, il quale taceva a bella posta la quinta, gli uomini d’onore, alla quale sentiva di appartenere. Un altro quadro di vita locale esce intatto dalle pagine del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Per quanti sforzi si facciano, chi non è Siciliano o non ha vissuto in Sicilia, difficilmente potrà comprendere da cosa tragga origine il fenomeno ed in cosa consista il “sentire mafioso”, condizione peculiare all’«individuo siciliano» (Norman Lewis-1964 e Peter Kammerer-1976), quanto il sistema mafioso sia radicato e quanto sia improbabile che questo Stato riesca a neutralizzare del tutto l’organizzazione mafiosa, specie se continuerà ad adottare le metodologie ed i mezzi fin qui adottati. Le interviste televisive di questi giorni ci hanno rivelato una inquietante realtà: molti giovani siciliani hanno seguito la fiction su Riina quasi tifando per il personaggio, ammirati della sua fierezza e della sua fermezza. Quasi un riscatto dalla proverbiale e millenaria sottomissione delle popolazioni siciliane, nei confronti del potere costituito che in Sicilia è stato sempre identificato con lo straniero invasore. I Siciliani, anche per evidenti presupposti geografici (Fernand Braudel-1949), sono un popolo sopravvissuto a violenze e predazioni di ogni genere, per cui la mentalità del Siciliano medio è di sospetto per l’estraneo, di chiusura alla novità istituzionale, di rigetto per ogni regola che non sia la regola naturale assimilata ed acquisita in una dimensione riservata ai soli appartenenti alla stirpe. Le regole naturali che governano il modo di sentire dei Siciliani in genere si basano sul rispetto dei legami parentali ed amicali, sulla condanna del tradimento sotto qualsiasi forma, sulla gratitudine per il bene ricevuto. Chi viola questi “sacri” principî perde la stima e viene emarginato. La violazione di queste semplici regole, trasposta nel “sentire mafioso”, assume rilevanza “penale” ed è punibile con la pena di morte. Una tale aberrante soluzione è peraltro comunemente accettata. Quando si parla di mafia, bisogna dunque fare i conti con un popolo, quello mafioso, installato su di un territorio, la Sicilia, dotato di un proprio esercito, i picciotti, di propri informatori capillarmente inseriti nel sottogoverno, sostenuto da proprie entrate finanziarie, pizzo, estorsioni e cointeressenze varie, assistito da una propria polizia e da una propria magistratura; insomma uno Stato nello Stato (Santi Romano-1918), capace di resistere ad oltranza, di rigenerarsi e di rispondere agli attacchi “esterni” con adeguate risorse. Bisogna inoltre comprendere che non è facile sovvertire e modificare i convincimenti atavici. La mafia esiste in quanto è parte integrante della storia, del costume, del tessuto sociale e del destino della Sicilia e dei Siciliani. L’omertà è giustamente definita “legge” nel dizionario. Infatti chi rivela un segreto tradisce e chi tradisce “merita” la pena capitale. Il “sentire mafioso” è dunque anche un modo di comportarsi. Chi non lo adotta non è riconosciuto, né è riconoscibile, e viene a far parte delle persone sospette. L’appartenenza alle forze di polizia, ad esempio, è sufficiente per essere socialmente emarginati. Il carabiniere è sbirro per definizione; ed è sbirro non solo per i mafiosi, ma per tutti i Siciliani. I parenti di un carabiniere sono i parenti dello sbirro; il figlio dello sbirro, la moglie dello sbirro, la madre dello sbirro sono guardati con sospetto, con disprezzo talvolta, come traditori della gente, come agenti prezzolati. Il politico è tollerato in quanto portatore di benefici, ma non farà mai parte della mafia, in alcun modo…; è un personaggio utile e necessario, ma non avrà mai dignità di capo. Solo a quelli come Riina e Provenzano viene riconosciuta dignità di capi. Le loro “gesta” purtroppo infiammano molti giovani, come li infiammavano negli ultimi anni quaranta le “gesta” del bandito Salvatore Giuliano, ancora oggi considerato in ambienti insospettabili eroe “nazionale”, se non addirittura statista. Le sue “gesta” venivano celebrate dai cantastorie in ogni strada delle Madonie, in ogni angolo della Conca d’Oro, alle falde della Rocca Busambra ed ai margini del Bosco della Ficuzza. Il “sentire mafioso” fa quindi parte della natura dell’individuo siciliano, è una sua difesa naturale; per certi versi può definirsi l’«attitudine a sapersi fare giustizia da solo» (Gaetano Falzone-1980). Un tal modo di sentire incombe nel cuore dei Siciliani così come la minaccia della persecuzione incombe ancora oggi nel cuore degli Ebrei. Due popoli, due razze, due storie però similari. Solo l’epilogo è diverso. Gli Ebrei hanno ottenuto un suolo sul quale si sono stanziati, sul quale esercitano la loro sovranità, che gode del riconoscimento internazionale e che presidiano ormai da 60 anni. I Siciliani invece si sentono ancora prigionieri nella loro terra, prigionieri di “oppressori” venuti dal Nord, che hanno imposto loro leggi e regole, ai più sconosciute e incomprensibili. Rimane addirittura ancora vivo il ricordo degli antenati chiamati a morire sul Piave e sul Carso per difendere territori lontani e sconosciuti, col compito di strappare a Cecco Beppe pezzi d’Austria che non avrebbero portato alcun beneficio alla Sicilia: «Siciliani, siate la valanga che sale!...» (Gen. Salvatore Cascino). Storicamente, dal mafioso (dall’arabo mu’afàh) l’individuo siciliano si attende «protezione contro le soverchierie dei potenti, esenzione da qualunque legge sociale, riparo da qualunque danno, forza, robustezza di corpo, serenità di animo, riconoscenza e gratitudine verso chi faccia dei benefizi» (P.Gabriele Maria D’Aleppo-1910). Chi non capisce queste cose, chi non vi si accosta per approfondirle, parte col piede sbagliato e nessun articolo 416 bis riformato potrà mai debellare un cancro che ha radicato le sue metastasi nella coscienza dei migliori e più operosi figli di una genie che ha avuto la disavventura di trovarsi stanziata sul crocevia delle civiltà mediterranee di ogni tempo.

 

 

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