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FORUM 10

Osservatorio sul diritto di famiglia

Gli ordini di protezione: un rimedio civilistico alla violenza intrafamiliare


Jan 30 2008 12:00AM - Dott.ssa Gioia Sambuco


(Rieti) Una recente vicenda ha impegnato il Tribunale reatino , consentendogli di precisare i limiti oltre i quali la conflittualità endofamiliare non legittima l’emanazione degli ordini di protezione di cui all’articolo 342 ter c.c. e svolgendo anche un’essenziale opera di «concretizzazione giurisprudenziale», a fronte della nuda enunciazione codicistica, chiarificatrice della portata applicativa di cui all’art. 342 bis c.c. riguardante gli ordini di protezione contro gli abusi familiari. Presupposto indefettibile per la concessione di tali provvedimenti è costituito, ai sensi dell’articolo 342 bis c.c. dalla condotta di un coniuge o di altro convivente che risulta essere causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente. D’altra parte, gli stessi lavori parlamentari prodromici alla l. 154 del 2001, che hanno portato all’inserimento dei suddetti articoli nel c.c., costituiscono una traccia interpretativa interessante al fine di evidenziare la ratio sottesa a tali misure contro la violenza nelle relazioni domestiche: sono infatti sintomatici della volontà del legislatore di fornire una precisa misura di tutela, nell’area civile, alle vittime di un fatto tanto grave quanto la violenza familiare, poiché si è soliti assistere ad una maggiore resistenza a ricorrere allo strumento penale per la denuncia delle violenze endofamiliari. La soluzione della lite impone di valutare se la condotta dei genitori resistenti non conviventi con la figlia ricorrente costituisca causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’istante sì da legittimare l’adozione di uno o più ordini di protezione previsti dall’articolo 342 ter c.c., richiesti nel ricorso. Si pone all’attenzione del Giudice di Rieti un importante nodo interpretativo e, cioè, se tali norme possano concretamente trovare applicazione in ipotesi in cui il fatto di violenza sia commesso in un contesto di non convivenza. Tuttavia la questione sottoposta all’attenzione del foro reatino non appare al centro di un vero e proprio contrasto giurisprudenziale; anzi, è l’applicazione dei risultati interpretativi raggiunti dalla ormai consolidata giurisprudenza a giustificare l’ineludibile soluzione del caso concreto. Infatti, né in dottrina né nell’applicazione giurisprudenziale vi sono dubbi sulla necessaria compresenza di due requisiti, l’uno oggettivo, l’altro soggettivo, perché possano essere concretamente applicate tali misure di carattere cautelare e provvisorio: oltre alla configurazione di una condotta che sia pregiudizievole all’integrità fisica e morale del soggetto passivo dell’abuso, occorre che tale comportamento sia posto in essere da un familiare o, comunque, dal convivente della vittima; occorre precisamente, che tale violenza si realizzi in un preciso contesto e, cioè nell’ambito familiare. Proprio il contenuto della più importante ed incisiva misura, l’allontanamento della casa familiare, postula la necessità che il fatto di violenza sia commesso in un contesto di convivenza. Neanche una interpretazione estensiva dell’articolo 5 della l. 154 del 2006 che concede tale tutela ad altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente, autorizza a disancorare la condotta dal locus in cui questa necessariamente deve consumarsi. Come evidenziato nel decreto del Giudice reatino, la circostanza che il legislatore non abbia fatto genericamente riferimento ad altri familiari ma abbia indicato l’estensione della norma esclusivamente a favore di altro componente del nucleo familiare, fa presumibilmente ritenere, anche tenendo conto dell’analogo riferimento in contesti simili di tale espressione, che si abbia voluto apprestare la tutela a tutti quei soggetti che, pur non legati da alcun vincolo parentale, convivano con il soggetto che ha posto in essere la condotta pregiudizievole. Pertanto nel caso sottoposto all’attenzione del Giudice la condotta posta in essere dai genitori, sebbene pregiudizievole, non avrebbe potuto legittimare il ricorso agli ordini di protezione vista la non perfetta coincidenza tra la fattispecie in esame e la previsione normativa. Ciò non significa che una tal condotta non possa essere accertata e sanzionata in altra sede: non escludendo tale possibilità, il Giudice civile ha infatti esercitato il suo potere-dovere di rimettere gli atti alla Procura della Repubblica per valutare se nel comportamento denunciato potessero ravvisarsi gli elementi costitutivi di una fattispecie criminosa. E non avrebbe potuto fare altrimenti poiché la tutela apprestata dal legislatore, al fine di contrastare il fenomeno della violenza intrafamiliare, non si esaurisce esclusivamente in quella disciplinata dal diritto civile.

 

 

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