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L’esame da avvocato Un rito allucinante nell’esperienza di un commissario Feb 27 2008 12:00AM - Avv. Olinto Petrangeli (Rieti) Con ricorrente puntualità, ad ogni svolgimento della prova scritta dell’esame di avvocato, la stampa dà grande rilievo alle disfunzioni e alle irregolarità reali o presunte emerse nello svolgimento delle prove stesse fino a concludere: è uno scandalo senza precedenti!
C’è da chiedersi dove viviamo. L’ organizzazione delle prove è competenza del Ministero che fa quello che può con i mezzi di cui dispone, e non riesce a gestire l’elevatissimo numero di candidati (e le insidie telematiche che sembra non consentano difese). Accanto a queste disfunzioni c’è poi l’inarrestabile vocazione dei giovani candidati ad eludere le regole nel momento in cui si apprestano ad esercitare una professione il cui compito precipuo è quello di garantire l’applicazione della legge. Prendiamo ad esempio i codici commentati che un legislatore tollerante consente di portare in aula ed è lo stesso che consente di “ scegliere” le materie della prova orale senza preoccuparsi di verificare che il candidato conosca almeno i quattro codici per cui le materie più gettonate sono il diritto ecclesiastico e il diritto internazionale privato a discapito del diritto civile, del diritto penale e delle procedure nonché del diritto comunitario che oggi è essenziale per la formazione del giovane avvocato.
Del resto sono anni che si dibatte dell’accesso alla professione forense e si formulano soluzioni ma l’avvocatura, si sa, è una palestra di sofisti che non ha mai consentito di presentare una proposta ragionevole e unitaria.
Nel pamphlet “Troppi avvocati” (1921) Pietro Calamandrei accusava lo stato ciarlatano di consentire alle facoltà e ai consigli degli ordini di immettere nella professione «schiere spensierate di giovani votati ad una vita di espedienti e di decadenza intellettuale». Allora gli avvocati erano 30.000, ora veleggiamo spensieratamente verso i 200.000 .
Nel 1933 l’esame ha assunto valore di esame di stato ma la struttura è rimasta pressoché la stessa: un numero enorme di commissioni e di commissari per un esercito di aspiranti (circa 1.800 commissari per 40.000 candidati ogni anno).
In questo universo i commissari vagano con disagio, avvertono un senso di inutilità del loro lavoro oneroso e sono disarmati a contrastare la confusione organizzativa e la approssimazione delle valutazioni. C’è sempre poi qualche anima candida di commissario che ritiene che la selezione avverrà sul campo.
Il modello è inidoneo ad abilitare alla professione: I giovani si presentano con una preparazione giuridica approssimativa, senza aver avuto un vero percorso formativo e un tirocinio obbligatorio.
L’esame si risolve nella rievocazione di qualche frammento di sapere giuridico acquisito all’università e all’accertamento che a distanza di tempo c’è ancora qualche ricordo. Del resto applicando il necessario rigore la maggior parte dei candidati dovrebbe essere consigliata ad esercitare un altro mestiere.
Ci sarà ancora qualcuno disposto a difendere una professione al tramonto? oppure dovremo concludere con Ungaretti che «siamo come in autunno sugli alberi le foglie»?
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