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Forum 12
Il chitone nero
L’osservatorio delle magistrature onorarie
Nov 10 2008 12:00AM - Dott. Alberto Morandi
(Rieti)
Il mestiere di magistrati ed avvocati ha in comune, oltre alle ore di studio matto e disperatissimo sui medesimi testi, l’utilizzo di un indumento di foggia settecentesca; non ho ancora capito perché, si tratti di giustizia o di saghe popolari, i costumi tradizionali si rifacciano sempre alla moda di quell’epoca..
Questo simbolo delle professioni forensi, la toga, deve esser nato anche e soprattutto per assolvere ad una banalissima funzione pratica; le vecchie aule di giustizia, specie alle latitudini più settentrionali, erano sicuramente luoghi freddi e pieni di spifferi; essendo necessario restarvi pesantemente imbacuccati, un manto di lana nera faceva più che comodo; meglio ancora per chi, avendone i mezzi ed il privilegio, poteva guarnirlo di pelliccia..
Il nome che gli si è dato è abbastanza curioso, visto che il nostro accessorio ben poco somiglia al candido drappo in cui si pavoneggiavano i potenti di Roma; l’unica caratteristica che questo e quello hanno in comune è il fatto di essere entrambe appannaggio di un gruppo che può considerarsi elite.
Questa caratteristica di esclusività rivive con forza in una definizione di uso comune, che manda in escandescenza un caro collega got: l’utilizzo dell’espressione “magistratura togata”, per individuare la magistratura di carriera in contrapposizione con quella onoraria, altrimenti detta “non togata”.
E’ bene guardarsi dall’utilizzare tali parole in sua presenza, perché si potrebbe andare incontro a tonante reprimenda
In effetti, parlare di “togati” e “non togati” è inappropriato per più di un verso.
Chi ha coniato l’espressione voleva rimarcare una contrapposizione fra magistratura onoraria e di carriera che non figura in alcun testo di legge.
Voci ben autorevoli riconoscono che, a prescindere dalla modalità di immissione in servizio (che si basa pur sempre su un concorso indetto dallo stato, anche se per gli uni è “per titoli”, e per gli altri “per esami”), entrambe le componenti concorrono ad amministrare la giustizia ordinaria. E lo fanno indossando i medesimi paramenti liturgici.
E’ certamente possibile vedere all’opera un “togato” senza toga, e non per questo è definibile “non togato”, secondo il senso che gli si è comunemente attribuito.
Né un magistrato onorario, che indossa abitualmente la toga quando svolge funzioni per i quali tale abito è tuttora in uso, potrebbe definirsi “simil togato”.
Senza dire di altri protagonisti del processo, diversi da giudici ed avvocati, chiamati anch’essi ad utilizzar la toga per il rispetto delle funzioni esercitate.
Il fatto che l’espressione resista, anche al di là dell’apparenza sensoriale, è sintomatico di un persistente distinguo supponente, analogo a quello visto in un classico della letteratura. Dove tutti gli uomini indossavano un copricapo, pareva essenziale discriminare fra chi portasse il cappello e chi il berretto; accessori che svolgevano identica funzione, ma indicativi di un ben differente status. .
La questione di status è largamente diffusa sul territorio nazionale, fra le toghe col berretto e quelle col cappello sembra spesso ergersi una barriera invisibile; barriera che poco incide su quanto quotidianamente avviene nelle aule, ma comunque incombente e di ostacolo ad una vera sinergia fra i membri dei due ceti.
La cosa sarebbe, forse, più evidente se tali accessori – berretti e cappelli – fossero concretamente abbinati all’uso della toga; ma nelle aule di giustizia, come ben noto, si deve stare a capo scoperto
A questa situazione ci si abitua, ed ogni Palazzo finisce per trovare un suo equilibrio; ma non si può, né di deve, ingoiare qualsiasi rospo.
Anni addietro, facendo mostra di ricercata e perfida eleganza, qualcuno ha coniato per i magistrati onorari di tribunale, la definizione di “funzione ancillare”; espressione che voleva sottolinearne una totale sudditanza nei confronti, ed a servizio, della magistratura di carriera.
Altre espressioni, pur non simpatiche nelle intenzioni, restano almeno digeribili.
E’ abbastanza corretto parlare di “magistratura supplente” perché, anche se la realtà odierna vede il Mot convocato con regolarità svizzera, e magari titolare di un proprio ruolo di udienza, quella di supplente era la funzione originaria della categoria.
Possiamo persino andare orgogliosi dell’espressione “magistratura vicaria” giacché, storicamente, il vicario era colui che sostituiva con pieni poteri l’imperatore, o altro personaggio di analoga importanza.
Ma le ancelle vanno lasciate alle pagine dei classici e delle Bibbia.
Fino a quando sarà loro concesso (e necessario allo stato), i magistrati onorari dovranno amministrare la giustizia, e si sforzeranno di farlo con l’indipendenza e l’imparzialità consone, e necessarie, alla funzione.
Sono tratti che mal si conciliano con quelli dell’ancella, povera serva addetta ad umili mansioni, e totalmente soggetta al capriccio del padrone.
Non si può, quindi, perdonare l’espressione a quei colleghi magistrati di carriera che si sono compiaciuti di coniarla per approfondire il solco che li divide dai magistrati precari.
Vero è che, nella casa della giustizia, ai mot toccano i servizi più ingrati, mentre i magistrati di carriera vivono più comodamente. In questa diversa accezione, l’espressione calzerebbe a pennello.
Non è perdonabile, neppure, il recente uso fattone dal presidente di una associazione dei giudici di pace, nel criticare la defunta ipotesi di riforma del settore, e segnatamente il disegno di unificare ed equiparare le varie figure di magistrato onorario che oggi concorrono all’amministrazione della giustizia. Costui ha ritenuto che la sua categoria dovesse assurgere all’empireo perché, a differenza delle ancelle del tribunale, gli è stata assegnata una, sia pur modesta, competenza funzionale. Questione più di forma che di sostanza, che nel mondo dello iuris dicere rende i Gdp primi nelle Gallie, mentre i Magistrati Onorari di Tribunale restano i secondi a Roma.
Se costoro fossero nel giusto, si sia almeno congruenti: si esentino i M.O.T. dal vestir la toga, e li si mandi in aula con un bel chitone.
L’abito non farà certo il monaco ma, prima facie, ci dice a quale ordine appartiene.
(*) Responsabile Stampa Federmot
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