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Forum 17
Risarcibilita’ del danno morale ed esistenziale
Molto rumore per nulla
09/09/2009 - Gianluca Ludovici
(Rieti) In principio fu il danno non patrimoniale. Con il tempo, l’osservazione empirica e l’esperienza pratica dell’applicazione del diritto, vennero elaborate varie categorie di danno afferenti alla persona, considerata sia nella sua poco umanistica dimensione di lavorare e produrre reddito, sia nella sua capacità di essere centro di emozioni, relazioni sociali, aspirazioni e sentimenti. Questa varietà ed articolazione di figure di danno risarcibile, per anni al centro di un cospicuo numero di sentenze e provvedimenti giurisprudenziali di Tribunali, Corti d’Appello e Cassazione, è stata però drasticamente ed improvvisamente sconfessata di recente: le Sezioni Unite, con le ormai celeberrime quattro sentenze a motivazione unica dell’11 novembre 2008, hanno proceduto ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 C.C., sorretta dalla proclamata volontà di ricondurre il sistema della responsabilità aquiliana alla bipolarità tra danno patrimoniale e danno non economico e di scongiurare, conseguentemente, ogni caso di duplicazione di pregiudizio risarcibile. Il ragionamento logico giuridico della Suprema Corte è partito dalla necessità di escludere valore e rilevanza a quelle ipotesi di danno non patrimoniale caratterizzate da atipicità, quindi prive di una fonte normativa certa ed individuabile, quali, solo per citarne alcune tra le più immaginifiche, il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità; su tale scia si è giunti a considerare alla stessa stregua dei citati diritti anche quello al risarcimento del danno morale, cosiddetto pretium doloris in caso di fatto dannoso riconducibile ad un’astratta fattispecie incriminatrice, in quanto allo stesso non facevano alcun esplicito riferimento né l’art. 2059 C.C., né l’art. 185 C.P. Il danno morale, pertanto, non è più per la Suprema Corte “una autonoma sottocategoria di danno”, ma semplice pregiudizio tra i pregiudizi, “costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata” e, come tale, rilevante ai soli fini della quantificazione del risarcimento. Analogo discorso si è fatto per il danno esistenziale, il quale, tradizionalmente definito come attinente alla sfera relazionale della persona, è stato considerato dalle SS.UU. esclusivamente in sede di liquidazione del danno, ma nelle ipotesi di pregiudizi derivanti da lesione di un diritto costituzionalmente inviolabile della persona. Se poi si pone mente al fatto che si è voluto riconoscere al danno biologico la “portata tendenzialmente omnicomprensiva” prevista dal Codice delle assicurazioni, il gioco è presto fatto: in estrema sintesi, infatti, il principio di diritto elaborato dalle Sezioni Unite può essere ricostruito dicendo che esiste un solo generico danno non patrimoniale insuscettibile di sottoclassificazioni, tendenzialmente coincidente con il solo danno biologico, e la cui valutazioni in termini economici viene rimessa ( in modo alquanto nebuloso ) alla valutazione del giudice. Il principio, in realtà, così come formulato appare molto discutibile, atteso che la sua conclusione appare ancor più precaria nei casi in cui la partita del risarcimento non venga giocata in sede giudiziale dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale, ma dinanzi alla scrivania del ( o al telefono con il ) liquidatore, soggetto tutt’altro che terzo e, tanto meno, imparziale. In tal senso, occorre anche ricordare come, in ambito metagiuridico ed in tempi di generale crisi finanziaria, non è mancato chi vi ha visto, non a torto e non senza motivo a parere di chi scrive, un’operazione di salvataggio di certe compagnie assicuratrici che, potendo contare su consolidati legami lobbistici, avrebbero potuto far sentire le proprie ragioni nei giusti ambienti, ottenendo una quanto meno sibillina pronuncia giurisprudenziale da poter piegare a favore alle proprie esigenze. Sul punto non può tacersi che, come molti Colleghi ben sapranno, all’indomani del cosiddetto poker di sentenze delle SS.UU., un buon numero di liquidatori ha indiscriminatamente negato il risarcimento del danno morale sul presupposto, pro domo sua, che la Suprema Corte lo avesse ritenuto assorbito nel danno biologico e ciò non solo in caso di eventi dannosi definibili come bagatellari. Sebbene presumere la buona fede del prossimo non sia mai peccato, ma quasi sempre un fatale errore, è pur necessario ricordare come già poche settimane dopo la storica enunciazione del predetto principio di diritto ( si veda Cass., 28407/2008 ), gli Ermellini, probabilmente prendendo coscienza della portata del loro decisum e delle rischiose, o meglio faziose, letture interpretative che se ne potevano dare, hanno intrapreso un’opera chiarificatrice circa esistenza e limiti del danno morale, così come di quello esistenziale. Nella forma, non si tratta di una smentita delle Sezioni Unite, anzi, una prosecuzione del loro ragionamento, ma dal punto di vista pratico risulta difficile credere che l’intenzione non sia quella di meglio indirizzare ( e quindi correggere nei limiti del possibile ) le applicazioni pratiche del principio; nel novero delle pronunce che stanno operando in tal senso e che certamente prolificheranno, vale la pena citare quella che, brillando più delle altre per chiarezza espositiva, proviene paradossalmente dalla stessa Sezione Terza che, con ordinanza interlocutoria del 25 febbraio 2008, n. 4712, diede il là alle sentenze novembrine. In estrema sintesi, tale Sezione, con sent. 09.04.2009, n. 8669, ha riconosciuto che: a) è possibile configurare un danno morale che “può sussistere sia da solo, sia unitamente ad altri tipi di pregiudizi non patrimoniali” ; b) il detto danno morale dovrà essere riconosciuto dal giudice “in qualcosa di più di quanto riconosciuto a titolo di danno biologico”; c) in presenza di un fatto lesivo del diritto alla salute è sbagliato procedere “alla liquidazione del danno biologico, dicendolo anche comprensivo del danno alla vita di relazione”; d) la quantificazione del danno biologico potrà essere presa come elemento per procedere all’operazione di personalizzazione delle alte voci di danno non patrimoniale. Ne viene fuori che se il ragionamento seguito dalla Sezione Terza è precisazione di quello delle Sezioni Unite e se il danno morale, la cui quantificazione può avvenire in termini percentuali sul danno biologico, è comunque autonomamente esistente e risarcibile anche in assenza di altre voci afferenti al danno non patrimoniale, allora di strada se ne è davvero fatta poca. Persino il Legislatore, poi, sembra abbia voluto dire la sua nell’intricata vicenda; questi, infatti, ha varato il D.P.R. 37/2009, il quale, pur riferendosi al limitato caso delle particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all’estero, ha di fatto normativamente riconosciuto l’esistenza autonoma del danno morale. Si legge, infatti, all’art. 5, lett. c) del citato D.P.R. che: “la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all’evento dannoso”. Orbene, se il presupposto della esclusione del danno morale era quello della sua effettiva atipicità, cosa potrebbe accadere ora che la sua esistenza è stata “svelata” all’ordinamento giuridico dal Legislatore? Come dovrebbe intendersi ora il principio di diritto delle sentenze delle Sezioni Unite? O, il citato art. 5, lett. c) subirà anch’esso una lettura costituzionalmente orientata come l’art. 2059 C.C.? Sul punto molti dubbi, nessuna certezza. Ad oggi, però, fermo restando il principio espresso dalle Sezioni Unite, sembra corretto ritenere che, con buona pace delle compagnie assicurative e dei loro operatori sul campo, il danno morale e quello esistenziale, considerati ufficialmente morti in un primo tempo, siano risorti a nuova vita seppur sotto mentite spoglie e, forse, anche sotto protezione. Se per gli operatori del diritto, infatti, la pronunce dell’11 novembre 2008 hanno comunque significato qualcosa in termini dogmatici ( danno morale ed esistenziale non più categorie autonome di danno, ma solo forme o voci di pregiudizio del generico danno ex art. 2059 C.C. ), agli occhi del cittadino danneggiato non dovrebbe essersi realizzato alcun apprezzabile mutamento dei termini prettamente sostanziali ed economici della questione. Se quei pregiudizi che una volta avevano la qualifica di danno morale e di danno esistenziale sono stati riconosciuti e consacrati per iurisprudentiam, sia pur come pregiudizi, se questi debbono comunque essere liquidati in ragione di una valutazione ad hoc ( da parte del giudice o dal liquidatore, suo precursore stragiudiziale ) che tenga conto del caso concreto e se per tale liquidazione sarà opportuno far riferimento alla percentualizzazione del danno biologico o a linee guida ( che tradotto può voler dire solo “tabelle”, come qualcuno in dottrina ha saggiamente commentato ), pare evidente a tutti come il tortuoso ragionamento intrapreso con il quartetto di sentenze del 2008 vada a concludersi, sostanzialmente, al punto di partenza o quasi. In attesa di scontati ulteriori sviluppi giurisprudenziali, che nel nostro ordinamento ci hanno sempre abituato a stravolgimenti di ogni sorta, ed eccettuando una certa censurabile prassi “negazionista” delle compagnie assicurative, al momento e sul piano meramente materiale a noi non verrebbe che da dire “Much ado about nothing… molto rumore per nulla…e per fortuna!
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