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La Guerra dei sei giorni Si concluderą con la schiacciante vittoria di Israele 15/05/2008 - Massimo Iacopi (Perugia) La Guerra dei sei giorni durerà meno di una settimana e si concluderà con la schiacciante vittoria di Israele. Il 5 Giugno 1967 nel giro di poche ore l’aviazione israeliana distrugge le forze aeree egiziane e i suoi carri armati penetrano nel Sinai. Il decennio che trascorre fra la Campagna di Suez del 1956 e la guerra dei sei giorni del 1967 rappresenta un periodo di calma relativa nelle relazioni fra Israele ed i suoi vicini. Lo stato ebreo ne approfitta per assimilare nel bene e nel male le ondate di immigrazione degli anni 1950, per sviluppare le sue infrastrutture e per rinforzare il suo potenziale militare, che fa del suo Tsahal (1), l’esercito più potente della regione. E’ un periodo fasto, forse il migliore mai conosciuto nella sua storia. Il conto a rovescio di una nuova conflagrazione inizia nella metà degli anni 1960, in parte a causa della crescita e dell’accresciuta influenza delle organizzazioni palestinesi. Tuttavia la Guerra dei sei giorni non sarebbe mai scoppiata senza una serie di manovre diplomatiche e militari del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, all’epoca all’apogeo della sua potenza e del suo prestigio e decisamente mal consigliato da Mosca. Il 7 aprile 1967, nel corso di una breve battaglia aerea al di sopra del Lago di Tiberiade, la caccia israeliana abbatte sei apparecchi Mig siriani. Mosca accusa Israele di voler provocare la caduta del regime pro-sovietico di Nureddin al Atassi, recentemente insediatosi a Damasco. Parallelamente in una campagna di disinformazione accuratamente orchestrata, i Sovietici “informano” Nasser che Israele ha concentrato forze considerevoli sulla sua frontiera settentrionale in vista di un possibile attacco massiccio contro la Siria. Il primo ministro israeliano Levi Eskol, invita allora l’ambasciatore dell’URSS, Dimitri Chiuvakin, a verificare di persona la situazione lungo la frontiera, ma questi rifiuta, giustificandosi con il fatto che egli non si trova a Tel Aviv per verificare i fatti, ma per eseguire gli ordini del suo governo. Il 19 maggio i giornalisti stranieri accreditano la versione israeliana dei fatti, allo stesso modo del Segretario delle Nazioni Unite U Thant. Tutti a questo punto si rendono conto che la materialità dei fatti ha poca importanza: Nasser ha solamente bisogno di un pretesto per un colpo di mano militare ed i Sovietici glielo forniscono. Il 14 maggio 1967 le prime unità dell’esercito egiziano penetrano nel Sinai, nel pieno disprezzo degli accordi che hanno messo fine all’occupazione della penisola da parte di Israele, dopo la Campagna del 1956 (2). Di fatto gli accordi della Crisi di Suez prevedevano la smilitarizzazione del Sinai, la presenza di forze di interposizione dell’ONU e la libertà di navigazione per Israele nel Golfo di Aqaba. Il 16 maggio l’Egitto esige il ritiro dei “caschi blù” dal suo territorio, che il Segretario della Nazioni unite si affretta ad accordare. Una settimana più tardi, il 22 maggio, U Thant si reca al Cairo e nei colloqui con Nasser ottiene come solo risultato quello dell’annuncio della chiusura degli Stretti di Tiran, che controllano l’accesso ad Aqaba. Il Rais egiziano è perfettamente cosciente della portata del suo gesto: il 26 egli dichiara che “Sharm el Sheik (imboccatura del Golfo di Aqaba) rappresenta lo scontro con Israele. Noi dobbiamo essere pronti ad una guerra totale con Israele”. Ma Nasser voleva veramente questa guerra ? Credo che non lo sapremo mai. L’ipotesi più probabile è che egli volesse, attraverso una serie di colpi accuratamente pianificati e progressivamente accettati dalla comunità internazionale, isolare lo stato ebreo ed annientarlo moralmente ed economicamente. Si trattava in effetti di liquidare, possibilmente senza uno scontro diretto, i vantaggi acquisiti dagli Israeliani nella guerra dell’ottobre 1956. In effetti gli avvenimenti sembrano dar ragione a Nasser. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si riunisce il 24 maggio solo per dimostrare ancora una volta la sua incapacità di agire. Abba Eban, Ministro degli Esteri di Israele, da inizio allora ad una serie di viaggi nelle capitali occidentali, dalle quali rientra balbettante. La tappa più penosa è quella di Parigi, dove De Gaulle, non solo non muove un dito a favore, ma gli intima persino di non prendere alcuna iniziativa militare. Da ultimo, una ondata di progetti anglo americani, per la costituzione di una flotta internazionale allo scopo di mettere alla prova il blocco egiziano, si perde nelle sabbie mobili di una diplomazia mondiale, manifestamente impotente ad arrestare la corsa verso la guerra. Nel frattempo gli eventi nella regione precipitano. Il 30 maggio, a seguito di una alleanza militare formale, viene disposto che la Legione Araba giordana passi sotto il diretto comando egiziano. Cinque giorni più tardi l’alleanza giordano-egiziana viene integrata dall’Irak, mentre unità dei paesi del Golfo e del Maghreb vengono a rinforzare il potenziale offensivo egiziano. Il Governo Eskol esita. O condurre una azione preventiva, questa volta da soli (contrariamente al 1956), senza alleati, né appoggio internazionale e con tutti i rischi militari e diplomatici connessi o essere condannati all’inazione, che sanzionerebbe necessariamente una situazione decisamente intollerabile. Dal punto di vista di Gerusalemme occorre distinguere quattro fattori di importanza diversa, ma dall’effetto concomitante e cumulativo. Accettare il blocco egiziano nel Golfo di Aqaba significherebbe rassegnarsi all’asfissia del porto di Eilat, unico sbocco di Israele verso l’Africa subsahariana e l’Asia. Ma la semplice accettazione comporterebbe un fatto più grave. Israele teme infatti che in tal modo la capacità di dissuasione dello stato ebreo sarebbe ridotta ai minimi termini, esponendo per di più la nazione ad ulteriori pressioni che potrebbero persino mettere in discussione la sua sovranità e la sua integrità territoriale. Un terzo fattore è rappresentato dal fatto che, per effetto delle concentrazioni di forze e le alleanze militari contratte, l’immensa Russia può, da un punto di vista della strategia pura, colpire il nemico senza esporsi direttamente, mentre Israele, paese minuscolo e povero in risorse ed in materiale umano, non può fare altrettanto. E’ in questa prospettiva che lo stato ebreo è obbligato a muoversi per primo. Gli Arabi sanno bene, ed i loro portavoce affermano senza respiro che essi sono capaci di assorbire sconfitta su sconfitta, in quelle che loro considerano come delle battaglie più o meno importanti di una lunga guerra che finiranno inevitabilmente per vincere. Anche gli israeliani sono d’altro canto convinti che per essi perdere una battaglia potrebbe significare perdere tutto. Il Governo Eskol, che prova ripugnanza a scegliere fra due ipotesi che reputa ugualmente negative, tergiversa per due lunghe settimane. Questo è il periodo definito “Ha’amtana” (l’attesa) che, una opinione pubblica angosciata e disorientata dall’esitazione del suo governo, vede come l’anticamera di una catastrofe annunciata. Lo stesso primo ministro è un puro civile, un uomo pacifico dotato di un gran senso dell’”humour”, che crede fermamente alla via del negoziato e del compromesso, piuttosto che alle soluzioni di forza e che, a differenza del suo predecessore, Davide Ben Gurion, non professa una netta preferenza per l’Esercito ed i generali. Ma queste qualità, che gli hanno consentito di ritrovare l’unità del movimento operaio della sinistra e di assumere senza grandi difficoltà la pesante eredità del fondatore dello stato ebreo, non sono agli occhi degli Israeliani, quelle necessarie per condurre il paese nel peggior momento della sua breve esistenza. Ed è proprio sotto la pressione dell’opinione pubblica che Levi Eskol si decide, il 1° giugno, ad abbandonare il portafoglio della difesa a vantaggio di Moshé Dayan, il Capo di SM dello Tsahal nella campagna del 1956. Eskol si decide per la prima volta a fare spazio anche all’opposizione di destra in un gabinetto di unità nazionale: Menachem Begin, capo del partito Herut, principale formazione della destra detta “revisionista” e bestia nera della sinistra, vi entra come ministro senza portafoglio a fianco di un dirigente del partito liberale. Tutti ormai capiscono che la guerra é diventata inevitabile. Lo scontro ha inizio il mattino del 5 giugno con un attacco a sorpresa dell’aviazione. In solo tre ore l’insieme delle forze aeree egiziane, rimasto sugli aeroporti, viene distrutto ed Israele si assicura in tal modo la superiorità aerea. Così le sorti del conflitto sono ormai segnate. Poco dopo l’attacco aereo le forze terrestri si lanciano nella penisola del Sinai, travolgendo le linee di difesa egiziane. Il 7 giugno ha luogo fra il mare ed El Arish, nel centro del Sinai, una delle più grandi battaglie di blindati della storia militare moderna, con più di mille carri armati per ciascun contendente e con la schiacciante vittoria ebrea. Lo stesso giorno gli Israeliani acquisiscono il controllo della striscia di Gaza ed una unità di Marina si impadronisce del controllo di Sharm el Sheik. L’8 giugno lo Tsahal raggiunge il Canale di Suez ed il 9 mattina l’insieme della penisola desertica del Sinai ha cambiato nuovamente padrone. Gli Egiziani si sono lasciati alle spalle più di 600 carri armati, circa 10 mila morti ed oltre 5 mila prigionieri. Nel momento in cui lo Tsahal lancia la sua offensiva contro le forze egiziane, l’operazione viene concepita come una semplice riedizione di quella del 1956. Si tratta, come all’epoca della sfortunata campagna anglo-franco-israeliana di eliminare la minaccia militare egiziana (di gran lunga la più importante nella regione) e di assicurare la libertà di navigazione nel Mar Rosso. In tale contesto il Governo Eskol indirizza al Re Hussein di Giordania, attraverso il generale Odd Bull, Comandante degli Osservatori dell’ONU, un messaggio distensivo, invitandolo a restare fuori dal conflitto in cambio di garanzie e di un atteggiamento paritetico da parte di Israele. Ma il sovrano hashemita, il cui esercito è ormai agli ordini degli Egiziani, non possiede più alcun margine di manovra, in quanto obnubilato dalla marea di menzogne da parte del suo alleato e ingannato dai suoi generali, che gli fanno credere che il suo esercito, penetrato nel Neguev, ha già occupato Bersheba. La Legione Araba occupa la sede dell’ONU a Gerusalemme, bombarda i quartieri ebrei della città ed infiamma la frontiera. Il conflitto viene a cambiare la sua natura. L’operazione, limitata al solo fronte egiziano e con degli obiettivi chiaramente definiti, si trasforma all’improvviso in una guerra totale, dalla conseguenze politiche incalcolabili. In questo caso la mancanza di coordinamento fra le varie fronti arabe concorre a facilitare il compito di Israele, la cui controffensiva è veramente fulminante. La sera del 7 giugno, lo Tsahal riesce ad impadronirsi di tutte le grandi città della Cisgiordania (annessa dalla Giordania nel 1950) e raggiunge le rive del fiume Giordano. La vecchia città di Gerusalemme, giordana dal 1948, cade in mano ebraica dopo due giorni di accaniti combattimenti ed il generale Motta Gur, Comandante della brigata paracadutisti che opera a Gerusalemme, annuncia con fierezza: “Il monte del tempio è nelle nostre mani”. Ma un solo uomo, Moshé Dayan, riesce a percepire, in questo momento di entusiasmo generale, tutta la complessità di questa prestigiosa conquista e conseguentemente il peso che la stessa avrà successivamente sugli sviluppi della politica del suo Paese. Accorgendosi che un cappellano militare ha fatto piantare la bandiera israeliana sulla spianata del monte di Sion, dà immediatamente l’ordine di toglierla. Rimane ora solo la Siria, al riparo dietro le sue fortificazioni dell’alture del Golan, che dominano la Galilea orientale. Rappresenta senza dubbio l’avversario più implacabile di Israele e pur tuttavia, nonostante il ruolo giocato da questo paese nello scatenamento del conflitto, non vi ha ancora preso parte. Il Governo Eskol esita ad attaccare il principale cliente sovietico dell’area, ma alla fine vi si decide sotto la pressione concomitante dei Kibbuz di frontiera (3), tradizionalmente molestati dai tiri di artiglieria dei Siriani e dei capi militari che premono decisamente sul primo ministro. Le alture del Golan vengono conquistate il 9 ed il 10 giugno ed il 10 pomeriggio le forze israeliane hanno raggiunto l’abitato di Kuneitra, il capoluogo della regione, posto ad appena 60 chilometri ad ovest di Damasco. Lo stesso giorno il cessate il fuoco viene proclamato su tutti i fronti e nel frattempo Israele è riuscito a disarticolare la morsa araba, a distruggere il potenziale militare dei suoi principali avversari ed a conquistare importanti territori. La guerra dei sei giorni giunge al termine. Come per ogni avvenimento storico maggiore, il vero significato, veramente rivoluzionario di questi sei giorni di combattimenti, si rivelerà a poco a poco. Nel frattempo il giudizio delle armi si è pronunciato con una chiarezza estremamente rara nella storia militare. L’euforia della vittoria da un lato e lo scoramento della sconfitta dall’altro, lascia poco spazio immediato ad una riflessione politica. Per un breve periodo un ondata d’ottimismo sommerge gli israeliani, che sperano che l’ampiezza della loro vittoria sul campo possa convincere il mondo arabo a cambiare di strategia. La situazione regionale ed internazionale dello stato ebreo sembra essere veramente propizia; nella regione il brutale cambiamento di rapporti di forza si traduce il 9 giugno nelle dimissioni di Nasser, il simbolo del rifiuto arabo. Sul piano internazionale la strana coalizione sovietico - americana, che aveva obbligato Israele a lasciare la presa sul Sinai nel 1956, non è più riproducibile: il 14 giugno un progetto di risoluzione di ispirazione sovietica, che condanna l’aggressione di Israele, esigendo il ritiro delle due forze dai territori occupati, viene bloccata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Certamente Israele deve constatare la definitiva perdita dell’alleanza con la Francia, ma Washington si mostra decisamente favorevole a rimpiazzare la presenza francese. In questa occasione sembra che Israele è in condizione di spezzare il circolo vizioso che ha sempre trasformato le sue vittorie in sconfitte diplomatiche. Ma all’euforia segue la fase del disincanto. Le dimissioni di Nasser non sono altro che una farsa; sotto la spinta popolare il Rais riprende in mani le redini del paese e della sua politica. Il 1° settembre, nella Conferenza di Khartum, i dirigenti del mondo arabo esprimono la loro frustrazione e l’umiliazione dei loro popoli attraverso la Risoluzione dei tre NO, che seppellisce per lungo tempo ogni speranza di pace: “NO alla pace con Israele, NO al riconoscimento di Israele, NO ai negoziati con Israele”. La rivalità dei blocchi paralizza il Consiglio di Sicurezza e solo il 22 novembre 1967 riuscirà a far approvare un testo di compromesso di ispirazione britannica, la famosa “Risoluzione n. 242” . Capolavoro di ambiguità diplomatica, il suo solo grande merito è proprio quello di essere abbastanza vaga da contentare tutti quanti: Sovietici, Arabi, Americani ed Israeliani e di aver sufficiente sostanza per offrire una base di discussione. In effetti essa afferma l’illegittimità dell’acquisizione di territori con la forza, ma anche la necessità di una pace giusta e durevole nella regione; essa esige il ritiro dello Tsahal dai “territori” (from territories, non specificando quali (4)), ma anche la fissazione di frontiere “sicure e riconosciute”, senza farle coincidere espressamente con le frontiere ante guerra; essa riafferma inoltre i principi della libertà di navigazione nelle vie d’acqua internazionali, ma senza fare menzione della violazione di questo principio, che era stato all’origine del conflitto; la risoluzione evoca infine una soluzione giusta al problema dei rifugiati palestinesi, pur affermando il principio dell’integrità territoriale e dell’indipendenza di tutti gli stati della regione. Tutti i belligeranti, ad eccezione della Siria e di Al Fatah, accettano la Risoluzione 242, ma evidentemente ognuno ne fornisce una interpretazione ferocemente divergente. Per Israele questo documento offre il quadro di un negoziato diretto fra lui e ciascuno dei suoi avversari con l’obbiettivo di un accordo sulle frontiere “sicure e riconosciute”, che dovrà passare da qualche parte nello spazio compreso fra la Linea Verde (5) (definita dagli accordi conseguenti alla guerra del 1948) e quella uscita dalla guerra del 1967. Si tratterebbe in sostanza di un processo che avrebbe dovuto portare a degli accordi di pace formale fra lo stato ebreo ed i suoi vicini. Per questi ultimi, per contro, la restituzione incondizionata dei territori perduti deve costituire il punto di partenza di qualsiasi eventuale negoziato. Evidentemente l’inviato speciale nominato dal Segretario Generale dell’ONU per promuovere l’applicazione della risoluzione 242 avrà gravi difficoltà a condurre la sua azione. Che cosa farà Israele delle sue conquiste: Il Sinai, la Cisgiordania, Gerusalemme est e le alture del Golan ? Teoricamente egli ha la scelta fra due strategie. Una è rappresentata dal ritiro spontaneo ed incondizionato, destinato a provare al mondo arabo che lo stato ebreo non cerca di espandersi, ma solamente ad assicurarsi la sicurezza, la pace ed il suo inserimento armonioso nella regione. Il Governo Eskol aveva infatti dichiarato che Israele era stato costretto a fare la guerra non certo per impadronirsi di nuovi territori. Per i fautori di questa opzione, poco numerosi in realtà, un tale atteggiamento sarebbe stato suscettibile di cambiare la faccia del Medio Oriente. Dopo tutto Israele dispone in ogni caso di “atouts” non irrilevanti: un esercito potente, senza rivali nella regione, una ondata di simpatia senza precedenti nell’opinione pubblica mondiale, degli avversari demoralizzati, ecc. Per la scuola “pragmatica”. invece, questa scelta sarebbe semplicemente da irresponsabili. Nella condizione di crisi e di furore in cui si trova il mondo arabo, non ci sono assolutamente le condizioni perché un atto di generosità di Israele possa provocare un sentimento di gratitudine nell’animo degli Arabi. Meglio perciò mantenere il possesso dei territori in attesa di tempi più propizi. E sarà questa l’opzione che risulterà vincente. In tal modo Israele si installa nelle sue conquiste. La città vecchia di Gerusalemme viene formalmente annessa il 28 giugno. Nelle altre regioni lo Tsahal mette in opera un regime d’occupazione agile e poco appariscente. In Cisgiordania, l’insieme del sistema amministrativo, giuridico, municipale e scolare giordano rimane attivo. La politica dei “ponti aperti”, ispirata da Moshé Dayan e tacitamente accettata da Re Hussein, assicura il libero passaggio di uomini e mercanzie fra la riva occidentale occupata ed il regno hashemita. Si tratta in effetti di mostrare che le due comunità che abitano nella Palestina possono coesistere pacificamente, ma anche che i Palestinesi si possono trovare meglio sotto il regime ebreo, che sotto quello giordano. D’altronde gli israeliani non sono certo degli occupanti più di quanto non lo siano stati i Giordani, che hanno annesso unilateralmente la Cisgiordania agli inizi degli anni 1950 e questa è la tesi propagandata dai giuristi governativi ebrei. In ogni caso il regime militare moltiplica i suoi gesti di buona volontà ed in tale disponibilità vengono create per la prima volta delle università in Cisgiordania. Tra l’altro i vantaggi economici dell’occupazione sono innegabili: infrastrutture, razionalizzazione dell’agricoltura, pieno impiego ed un generale elevazione del livello di vita della popolazione. In sostanza il regime d’occupazione vuol presentarsi come “liberale”, pur nei vincoli insiti in una tale situazione. Tuttavia questa disponibilità ebrea non è senza condizioni, né limiti. Essa si esercita nelle modalità descritte fino a quando la popolazione palestinese, profondamente toccata dalla disfatta, non resiste all’occupazione e se da un lato accetta un diritto pressappoco illimitato di rivendicare la propria nazionalità e di effettuare propaganda nazionalista, dall’altro non tollera quelle attività politiche che appaiono suscettibili di tradurre le intenzioni in fatti concreti. Risulta abbastanza facile leggere tutta la storia della regione negli ultimi quaranta anni alla luce della guerra dei sei giorni, un evento fondamentale e di svolta nel Medio Oriente moderno. Per il mondo arabo la sconfitta del 1967 significa la morte del “nasserismo”, vale a dire l’alleanza del nazionalismo panarabo (6) con il progressismo terzo mondista pro-sovietico. Gli stati arabi, ripiegati su sé stessi, proveranno diverse forme di nazionalismo, più o meno impregnate di islamismo (7), cercando allo stesso tempo di contenere l’ondata islamista, che non cessa di crescere. Il solo progetto unificatore dell’Umma è ormai rappresentato principalmente dall’Islam radicale. Per i Palestinesi la sconfitta araba avrà una doppia conseguenza. Da un lato il terribile colpo portato al prestigio dei loro dirigenti si risolve in una pur relativa emancipazione della loro lotta. Dall’altro il passaggio della maggioranza del popolo palestinese sotto la tutela israeliana viene a modificare la natura della lotta stessa, rendendo possibile l’ipotesi a termine della creazione di una entità palestinese indipendente. Sotto il regime giordano una tale ipotesi sarebbe stata una semplice utopia, a meno di trasformare la stessa Giordania in uno stato palestinese, una eventualità che il Re Hussein ha annegato nel sangue in occasione del Settembre Nero del 1970 (8). Per Israele, che non ha saputo negoziare il momento favorevole dei sei giorni al meglio dei suoi interessi, questa vittoria senza appello è stata portatrice di grandi luci ed anche di grandi ombre. Nella parte negativa va registrata l’occupazione della Cisgiordania che ha provocato in certuni la riscoperta dell’Israele biblico, ribattezzandola Giudea e Samaria, così come quella della città vecchia di Gerusalemme. Ciò ha avuto per conseguenza una nuova interpretazione del sionismo (9), messianico e incentrato sulla terra, piuttosto che sul popolo, così come la campagna di colonizzazione dei territori occupati (10). Nella parte positiva c’è invece da annoverare la conquista del Sinai che ha permesso di raggiungere la pace nel 1976 con Israele, quella del Golan, che presumibilmente consentirà in un prossimo futuro la pace con la Siria, quella della Cisgiordania e la striscia di Gaza, che possono offrire una possibilità di risoluzione del problema palestinese. Questo è in effetti il gran paradosso della guerra dei sei giorni: le terre arabe, conquistate nel corso di una guerra che Israele non aveva desiderato, sono servite allo stato ebreo come biglietto di ingresso nel club delle nazioni del vicino oriente. Prima di quella data nessuno ha mia chiesto nulla ad Israele, che non aveva niente da offrire, se non quello di scomparire; successivamente avendo a disposizione dei beni che non gli appartenevano, gli stati arabi hanno chiesto a poco a poco la loro restituzione, in cambio di una pace che prima gli rifiutavano. Dalla guerra dei sei giorni all’iniziativa saudita di un piano di pace accettato dalla Lega Araba nel marzo 2001 (11) esiste una linea di continuità storica che conferma quanto enunciato.
NOTE
(1) Acronimo di Tseva Haganà le-Yisrael (Esercito di difesa d’Israele); (2) A seguito della nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez da parte di Nasser, la Gran Bretagna, la Francia ed Israele lanciano una spedizione militare contro l’Egitto che riporta il successo sul campo. Ma gli occupanti saranno costretti a ritirarsi a seguito delle pressioni congiunte di Mosca e di Washington; (3) Queste comunità agricole collettive sono state fondate all’inizio del 20° secolo sulla base di principi ideologici che combinavano gli ideali sionisti e quelli socialisti. Essi vanno distinti dalle Colonie di popolamento, apparse all’indomani della guerra dei sei giorni nei territori occupati; (4) Espressione che si può tradurre come “ritiro dai territori” (sottinteso TUTTI nella versione francese del testo) oppure “ritiro da territori”; (5) Linea fissata dagli accordi armistiziale conclusi fra Israele ed i suoi vicini nel 1949, a seguito dell’esito della guerra del 1948. Pur non essendo una frontiera essa resta la base dei negoziati per la delimitazione di uno stato palestinese; (6) Movimento a forte connotazione laica che esprime la volontà di unire tutti i popoli Arabi (difficoltà di identificare chi sono i popoli arabi: come etnia o come cultura?) che trova un grande sviluppo negli anni 1950 e 1960, ma che affonda le sue radici nel movimento dei Fratelli Mussulmani egiziani fondati da Hassan el Banna nel 1928. Propugnato da Nasser, dal Partito Baath, al potere nel 1963 in Siria e nel 1968 nell’Irak, il nazionalismo arabo assume col tempo una connotazione rivoluzionaria e socialisteggiante; (7) A partire dagli anni 1970 questo termine designa la corrente più radicale dell’Islam, che frammischiano religione e progetti politici e che può essere riassunta nella negazione dei fatti e della realtà presente, il rifiuto delle prospettive attuali, della laicità e del modernismo ed un forte desiderio di ritorno al passato. Per essi l’islamizzazione della società passa attraverso l’instaurazione della Sharia e la fondazione di uno stato islamico; (8) La massiccia presenza di palestinesi in Giordania che costituiscono uno stato nello stato, rischia di destabilizzare il regime. Il 17 settembre 1970 il Re Hussein lancia una offensiva generale contro i fedayn palestinesi, eliminando una minaccia diretta alla indipendenza del suo paese e provocando la morte di diverse migliaia di vittime; (9) Questo termine, derivato da Sion, una delle colline di Israele, ed inventato alla fine del 19° secolo, designa l’aspirazione alla restaurazione di una entità politica ebrea indipendente in Palestina; (10) All’indomani della guerra dei sei giorni, gli Israeliani impiantano le loro prime colonie nei territori occupati, Cisgiordania, Golan, striscia di Gaza e Gerusalemme est. Iniziata per primarie ragioni di sicurezza, si intensifica a partire dal 1977 con l’arrivo al potere della destra religiosa il Likud, che, specie in Cisgiordania, la giustifica con una interpretazione religiosa del sionismo, la vecchia terra biblica di Giudea e Samaria; (11) Questo piano proposto dai Sauditi prevede il totale ritiro degli Israeliani dai territori occupati, una “soluzione giusta” al problema dei rifugiati palestinesi, l’accettazione da parte di Israele di uno stato palestinese indipendente in cambio di una pace globale con i paesi arabi.
BIBLIOGRAFIA
Barnavi Elia, Una storia moderna d’Israele, Flammarion, Parigi, 1994, nuova edizione Champs, 1998; Barnavi Elia, Religioni letali, Flammarion, Parigi, 2006; Charfi Mohamed, Islam e Libertà, Albin Michel, 1998; Corm G., Il Vicino Oriente esploso 1956-2007, Gallimard, Parigi, 2007; Hazan P., La guerra dei sei giorni. La vittoria avvelenata. Complete, Bruxelles 2001; Oren M., Six days of war, Oxford University Press, 2002.
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