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Il ruolo del Giappone in Asia

Da Pearl Harbour a Hiroshima

Uno scontro ineluttabile


15/07/2008 - Massimo Iacopi


(Perugia)   Il Giappone, a seguito della Rivoluzione Meiji, marcata da immense riforme istituzionali e da un decollo tecnico ed economico senza precedenti, si erge al rango di potenza regionale. Già dal 1894 dimostra contro la Cina l’ampiezza del suo potenziale militare e più ancora nel 1904-05 in occasione della guerra russo giapponese. Esso evidenzia con chiarezza in tal modo la sua volontà espansionista, installandosi in Corea e quindi in Manciuria, non nascondendo persino aspirazioni anche ad una parte della Cina. Tuttavia negli anni 1920 il paese prosegue la sua crescita ed adotta una linea politica basata più sull’espansione economica che sulla conquista territoriale. La crisi economica del decennio seguente incide fortemente sulla possibilità di utilizzare in via prioritaria questa via di penetrazione. Il Giappone, potenza esportatrice, è alla mercé dei mercati stranieri che possono essergli negati. Diventa molto forte, in tale contesto, la tentazione di imitare le potenze coloniali europee per ritagliarsi con la forza un proprio impero in Asia. A questo obiettivo tende una parte degli ambienti militari, ai quali la Costituzione del 1889 prescrive la partecipazione al potere e l’accesso privilegiato alla persona dell’imperatore. Guidati dal generale Araki, essi non hanno difficoltà a ricorrere all’azione di forza e pervengono ad imporsi nel cuore dell’apparto dello Stato, dopo il tentativo di colpo di stato del 26 febbraio 1936, nel corso del quale sono assassinati numerosi ministri moderati. La prima fase della nuova politica inizia con l’attacco alla Cina nel luglio 1937, dopo la costituzione del Governo del Principe Konoye, che rivela impotente davanti ai clan militari.

A partire dalla fine della 1^ Guerra Mondiale, da cui il Giappone saprà trarre profitto facendosi attribuire i possedimenti tedeschi del pacifico (isole Caroline, Marianne e Marshall), gli USA si sono dimostrati preoccupati della politica giapponese. Essi hanno adottato una serie di misure per costringere l’Impero del Sol Levante a ridurre il tonnellaggio delle propria flotta. Negli anni 1930 essi denunciano il dominio nipponico sulla Manciuria ed additano il Giappone, con giri di parole, come un pericolo per la pace mondiale. Gli Americani sono peraltro coscienti che essi possono esercitare un forte pressione sull’economia nipponica nel campo delle materie prime e del petrolio.

 

Le ambiguità del 1940

 

Per poter comprendere meglio le poste in gioco che porteranno allo scoppio del conflitto, conviene riandare al luglio 1940, allorché il principe Konoye ritorna al potere. Discendente da uno dei più nobili lignaggi del Giappone, cugino dell’Imperatore, il principe ha percorso una carriera di diplomatico. Egli ha presieduto dei pari nel 1933 e nel 1937 diviene Primo Ministro, per dimettersi poco dopo allo scopo di smarcarsi dalla fazione militarista, allora imperante a Tokyo. Di nuovo Capo del Governo nel 1940, Konoye si fissa l’obiettivo di ristrutturare l’economia attraverso la costituzione di una “Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale”. Questa visione risponde alle necessità di una economia giapponese minacciata e risponde anche ad una volontà di trarre profitto dal conflitto che si è aperto in Europa, imponendo una “Pax nipponica” sul sud est asiatico.

Tuttavia, agli occhi di Konoye, indubbiamente nazionalista, ma adepto della prudenza, la forza non può essere considerata in maniera diretta. L’espansionismo deve poter progredire con abilità, per non mettere in pericolo la pace e l’economia giapponese, sempre molto dipendente dagli approvvigionamenti esterni, controllati dagli USA. Nel 1939, più del 75% dei metalli ferrosi, il 93% del rame, l’80% del petrolio, il 60% della macchine e l’insieme dei componenti per gli acciai speciali, come il vanadio, devono essere importati dagli Stati Uniti. La potenza giapponese, privata di queste risorse, crollerebbe ed il suo arsenale militare sarebbe conseguentemente ridotto all’impotenza.

Nel luglio 1940 il Giappone non è ancora legato strettamente alle sorti della Germania. Esso si interroga se il vincitore della Francia non possa spingere l’URSS verso l’Asia, come Bismarck aveva già tentato a suo tempo di agire con la Russia. Una URSS che ha inferto un duro rovescio al Giappone ai confini della Manciuria e della mongolia, in occasione della troppo ignorata Battaglia di Kalkhin Gol (luglio - agosto 1939). Una sconfitta che ipoteca e rende problematica la possibilità di creare un vasto impero continentale con l’impiego delle forze terrestri.

L’analisi che il Gabinetto Konoye fa del conflitto mondiale riposa su tre ipotesi: la Germania vince la guerra, il patto germano sovietico è solido ed il mondo sarà dominato da quattro potenze (Germania, URSS, Giappone e Stati Uniti).

I Giapponesi sono convinti che la fermezza ed anche le minacce possono permettere di mantenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto. E’ pertanto in questo contesto che viene firmato il Patto Tripartito con Roma e Berlino, il 27 settembre 1940. Il Giappone si era poco prima assicurato il dominio su una parte dell’Indocina, sfruttando la schiacciante sconfitta francese del giugno 1940. Questi intervento in Indovina porta al massimo la tensione americano nipponica. All’interno dello stato maggiore giapponese, l’alleanza con la Germania e la prospettiva di un conflitto con gli USA non raccolgono l’unanimità. L’ammiraglio Yamamoto, comandante della flotta combinata, parlando della potenza americana dichiara: “Chiunque ha visto le sue fabbriche di automobili a Detroit o i suoi campi petroliferi del Texas sa che il Giappone manca di ricchezze e di potenza per lanciarsi in una competizione navale con una tale nazione”. La sua voce riscuote un certo seguito: Yamamoto, antico allievo di Harvard, addetto navale a Washington negli anni 1920, ha potuto prendere piena cognizione delle immense capacità industriali di una potenza che la maggioranza dei membri del governo Konoye invece sottovalutano.. Al primo ministro che lo sonda sulle prospettive di una guerra contro l’America lo stesso Yamamoto risponde: “Se dobbiamo fare la guerra, io sono in grado di assicurare un combattimento al massimo delle possibilità per i primi sei mesi; ma non posso rispondere di quello che potrà succedere se la lotta dovrà continuare per uno o due anni: E’ ormai troppo tardi per rimettere in discussione il patto tripartito, ma io oso sperare che voi vi sforzerete di evitare una guerra con l’America”. Affinché il Giappone abbia comunque una possibilità di riuscire vittorioso nel conflitto, il solo mezzo che intravede Yamamoto sarebbe quello della distruzione della flotta americana del Pacifico, al fine di imporre una pace favorevole in meno di sei mesi. Egli sogna in tal modo una nuova Tsushima, la battaglia navale che ha permesso la vittoria nipponica sui Russi nel 1905.

 

La marcia alla guerra

 

La priorità sembra comunque restare nell’ambito diplomatico. Il Giappone si assicura la neutralità dell’URSS, per mezzo di un patto di neutralità firmato nel 1941 e non cede alle richieste tedesche che lo premono per un entrata rapida nel conflitto.. Nel luglio 1941, il Presidente USA Franklin Delano Roosevelt, dopo aver richiesto invano al Giappone il suo ritiro dall’Indocina e dopo essersi convinto da tempo dell’ineluttabilità del conflitto, decide di congelare gli interessi giapponesi negli Stati Uniti. Nei giorni che seguono la Gran Bretagna, le Filippine, poi le Indie olandesi e la Nuova Zelanda applicano misure analoghe. Gli USA esigono dai loro partners l’embargo sulle forniture di petrolio al Giappone. A partire dalla fine del luglio 1941 il Giappone non riceve più petrolio, nel momento in cui le sue riserve vengono consumate al ritmo di 400 mila tonnellate al mese. Nel mese di agosto l’embargo diventa totale. Il New York Times può scrivere “queste misure sono l’atto finale prima dell’entrata in guerra”. Tuttavia le conversazioni iniziate con gli USA non sono state interrotte. Per gli Americani i negoziati hanno lo scopo di costringere il Giappone a piegarsi e ad abbandonare le conquiste in Indovina, ma una tale ritirata appare inconcepibile agli occhi delle nuove generazioni di ufficiali dell’Esercito nipponico.

I militari sono convinti che il tempo stringe e l’ammiraglio Nagumo, specialista degli attacchi navali, dichiara nel settembre 1941: “Sono tanto più certo che possiamo vincere la guerra ora, come sono altrettanto convinto che con il tempo le nostre possibilità ci possano abbandonare definitivamente”.

La pressione si accentua su Konoye che, restio ad entrare nel conflitto e preso atto che la sua posizione è ormai diventata indifendibile, decide di dare le dimissioni nell’ottobre 1941. Al suo posto viene nominato il generale Tojo, una dei generali di estrazione plebea, apertamente avversario dei baroni dell’industria. Tuttavia i negoziati proseguono almeno con gli Stati Uniti, ad esplicita richiesta dell’Imperatore Hiro Hito, preoccupato per le prospettive del conflitto

Ma le proposte nipponiche vengono ancora una volta respinte ed il 26 novembre 1941 il Segretario di Stato USA, Cordell Hull, fa consegnare un documento ai Nipponici, nel quale condiziona la ripresa dei rifornimenti di petrolio all’accettazione da parte del Giappone di dieci condizioni esorbitanti, fra le quali in particolar modo la ritirata delle truppe imperiali dalla Cina e dall’Indocina ed inoltre la denuncia dal Patto Tripartito.

Abbandonare l’Asse sarebbe un nonnulla per i Giapponesi, ma la richieste territoriali appaiono decisamente inaccettabili. A seguito di un’ultima conferenza governativa, l’imperatore accetta il principio della guerra, malgrado le sue reticenze. Il 2 dicembre 1941 i Capi di SM dell’Esercito e della Marina imperiale chiedono udienza ed annunciano un attacco segreto per il 7 dicembre seguente.

Washington è cosciente dell’imminenza di un conflitto armato. Il generale Marshall, consigliere militare di Roosevelt, gli rimette una memoria che precisa: “Se i negoziati attuali si concludono senza un accordo, il Giappone rischia di attaccare la rotta della Birmania, la Thailandia, la Malesia, le Indie Olandesi, le Filippine, le province marittime della Russia. L’essenziale ora per gli USA è di guadagnare del tempo, in quanto anche se dei considerevoli rinforzi sono stati avviati verso le Filippine, il livello di potenza necessario per fanteria, aviazione e marina non è stato raggiunto”.

L’attacco non avrà luogo nelle Filippine, ma a Pearl Harbour, la base americana delle isole Hawai, in maniera folgorante e nel più assoluto segreto. Il 7 dicembre 1941, poco prima delle otto del mattino, gli aerei siluranti della marina imperiale attaccano la base, realizzando una sorpresa totale. In qualche minuto le 8 corazzate della flotta americana del Pacifico sono fuori combattimento con 159 aerei distrutti. L’operazione, concepita dall’ammiraglio Yamamoto viene realizzata dall’ammiraglio Nagumo e per gli USA il bilancio è disastroso ed enorme sarà lo shock di ordine psicologico.

Per molto tempo Roosevelt sarà accusato di aver scientemente dissimulato le informazioni che preannunciavano l’imminenza di un attacco giapponese a Pearl Harbour, ciò al fine di creare un casus belli per provocare la mobilitazione dell’opinione pubblica e di conseguenza lo scoppio della guerra, che egli desiderava contro il Giappone e Potenze dell’Asse. Nonostante una serie di presunzioni e di accuse dell’ammiraglio americano Theobald, non si dispone fino ad oggi di vere prove a riguardo. In ogni caso, dopo il luglio 1941, attraverso l’embargo sulle forniture di petrolio, Roosevelt aveva implicitamente già aperto le ostilità e nel novembre 1941,con la sua decisione di rompere i negoziati,aveva deliberatamente spinto il Giappone alla guerra.

 

Sei mesi di conquiste, poi il riflusso

 

Dopo la sorpresa di Pearl Harbour seguono sei mesi di “guerra lampo”, secondo i piani di Yamamoto. In qualche mese i Giapponesi, ormai padroni del mare, si impadroniscono delle Filippine, di Hong Kong, della Malesia, della fortezza inglese di Singapore, giudicata imprendibile, dell’insieme dell’Indonesia e della Birmania. Tre giorni dopo Pearl Harbour, l’aeronavale giapponese affonda due navi da guerra britanniche inviate nell’area da Churchill come deterrente, il Prince of Wales ed il Repulse. Qualche mese più tardi la portaerei Hermes viene ugualmente affondata ed a quel punto l’ammiragliato britannico decide di ripiegare i resti della flotta sull’Africa Orientale, abbandonando il Pacifico.

Agli inizi di gennaio 1942 lo Stato Maggiore nipponico è diviso sulla strategia da seguire. In seno all’esercito dei generali auspicano una pausa nelle conquiste: Essi si rifiutano di sguarnire la Cina e la Manciuria. Per contro la Marina imperiale, aureolata dal successo vuole proseguire la conquista nella convinzione che il tempo gioca contro il Giappone.

Da parte americana, contrariamente alle speranze di Yamamoto, lo shock di Pearl Harbour scatena una volontà inflessibile di condurre una lotta ad oltranza fino alla capitolazione dell’avversario. La strategia nel pacifico si fissa l’obiettivo di tenere le Hawai, di sostenere l’Australia e risalire a nord attraverso le Nuove Ebridi. Questo piano deve essere messo in opera nel giro di sei mesi. Questo compito viene accompagnato da una mobilitazione generale e da uno sforzo prodigioso di produzione dei cantieri navali e della costruzione di nuovi aerei capaci di assicurare sul mare e nell’aria una superiorità contro la quale il Giappone non potrà lottare.

Dopo un successo tattico dei Giapponesi il 5 e l’8 maggio 1942 nel Mar dei Coralli, si verificano due eventi fondamentali del duello nippo-americano. A Midway il 5 giugno seguente Yamamoto e Nagumo falliscono nel loro tentativo di conquistare l’atollo e di distruggere la flotta americana. A seguito di questa battaglia i nipponici perdono 5 portaerei a fronte delle due dei loro avversari. Il secondo evento avviene a Guadalcanal. Gli ammiragli King e Nimitz, per proteggere l’Australia, hanno risposto con uno sbarco in quest’isola, punto di partenza di una battaglia accanita che durerà fino al febbraio 1943. La tenacia americana viene ricompensata. I Giapponesi sono costretti ad evacuare Guadalcanal e nel frattempo Mac Arthur può iniziare la lenta riconquista delle isole Salomone. Nel corso di queste due battaglie i generali ed ammiragli americani danno prova di una grande audacia, hanno acquisito ormai una solida esperienza di operazioni combinate, predisponendo anche una efficace dottrina di combattimento.

Dopo Guadalcanal l’iniziativa sfugge ai Nipponici, costretti ormai alla difensiva. A partire dalla fine del 1943 la riconquista americana vede una imponente crescita di potenza, grazie al suo inesauribile potenziale industriale, di fronte ad un Giappone che non è in grado di affrontare una guerra lunga e manca drammaticamente di trasporti marittimi.. La flotta commerciale nipponica, prima vittima dei sottomarini americani, non può più garantire il rifornimento delle forze disperse nei vari teatri di guerra, che vanno dalla Cina alla Nuova Guinea. A differenza degli Americani i Giapponesi dimostreranno di non saper fare un buon uso dei loro sottomarini.

 

Il rifiuto di capitolare

 

Il piano strategico americano approvato nel maggio 1943 prevede una gigantesca manovra a tenaglia partente dalla Nuova Guinea verso le Filippine e dalle isole Gilbert, Marshall e Marianne verso lo stesso Giappone. L’esecuzione del piano è stata affidata al generale MacArthur ed all’ammiraglio Nimitz. La progressione si svilupperà di arcipelago in arcipelago seguendo la strategia del “salto di montone”. Verranno saltati delle intere zone per concentrarsi su obiettivi più importanti: Guam e Leyte.

La flotta giapponese è ormai surclassata dal suo avversario, mentre sul continente le offensive condotte in Birmania ed in Cina non riportano risultati comparabili. Per di più l’ammiraglio Yamamoto, il capo militare di maggior talento del Sol Levante viene ucciso il 18 aprile 1943. La resistenza accanita dei Giapponesi nelle isole Salomone, in Nuova Guinea, nelle isole Gilbert, nelle Caroline e quindi alle Marianne non può nulla contro la formidabile macchina da guerra messa in opera dagli USA, parallelamente all’enorme sforzo che impegnano in Europa. Dopo la caduta di Saipan (8 luglio 1944) l’ammiraglio Nagumo si suicida.

Il 15 giugno 1944 un consigliere dell’imperatore scrive: “”L’Inferno è sopra di noi” Nei due mesi che seguono la conquista delle Marianne, i primi bombardamenti cominciato a raggiungere il territorio del Giappone. A tutto questo si aggiunge la distruzione di una parte della 1^ flotta mobile e, sul continente, il fallimento delle offensive condotte dall’esercito imperiale dalla Birmania. La debolezza delle guarnigioni nipponiche si spiega con la deficienza di tonnellaggio marittimo e conseguentemente con l’impossibilità di un regolare rifornimento delle truppe, mentre dall’altro lato gli Americani acquisiscono a poco a poco il controllo del mare.

I Giapponesi sono ormai surclassati in tutti i settori, specialmente nella produzione d’armamenti. Essi hanno prodotto 5 mila aerei contro i 19 mila degli USA nel 1941; 9 mila contro i 50 mila nel 1942; 26 mila contro i 92 mila del 1944.

Le sconfitte successive costringono il generale Tojo alle dimissioni il 18 luglio 1944. L’imperatore Hiro Hito chiede al nuovo governo di cercare di mettere fine alla guerra in Asia e di non provocare i Sovietici. I Giapponesi sono ormai alla ricerca di una pace di compromesso, ma gli Alleati esigono una capitolazione senza condizioni. Di fronte a richieste inaccettabili, il combattimento delle forze nipponiche assomiglia sempre di più ad un disperato sacrificio.

Nell’ottobre 1944, nel corso della Battaglia di Leyte, si verifica la fine della flotta giapponese come forza navale coerente ma in questo battaglia intervengono le missioni dei primi aerei suicidi, i Kamikaze ( o Vento Divino). Da questo momento le missioni senza rientro faranno parte della quotidianità. A Okinawa (aprile - giugno 1945) 100 mila uomini impegnati nella difesa dell’isola muoiono in combattimento senza arrendersi. Per i militari, che continuano ancora a dominare il governo nipponico, l’eroismo dei Kamikaze deve servire di modello ai difensori dell’arcipelago. Tre milioni di soldati in armi e migliaia di aerei si apprestano a combattere. La mattina del 10 marzo 1945 trecento B29 americani scaricano migliaia di bombe incendiarie su Tokyo, una delle più grandi città del mondo costruite in legno.. Bilancio apocalittico di 197 mila morti, fra i quali moltissime donne e bambini. Tuttavia il Giappone rifiuta sempre di capitolare, mentre la Germania cessa di combattere l’8 maggio 1945.

Nel campo americano la resistenza accanita di Okinawa, dove sono efficacemente intervenuti i kamikaze, determina la decisione presa da Truman, successore di Roosevelt, di utilizzare la nuova e terrificante arma delle bombe atomiche. Queste bombe colpiscono successivamente Hiroshima (200 mila morti e 50 mila feriti) il 6 agosto 1945 e Nagasaki il 9 agosto 1945 (120 mila morti e 80 mila feriti). Nella stessa giornata del 9 agosto si tiene a Tokyo una riunione del Consiglio Supremo, ma le discussione non portano ad alcun risultato. Alle due del mattino il vecchio ammiraglio Suzuki, che era stato posto alla testa del nuovo governo, dichiara: “Io propongo che tutti noi ci rimettiamo alla saggezza imperiale e che la sostituiamo alle decisioni di questa conferenza”. L’Imperatore Hiro Hito si assume la decisione definitiva. Il 10 agosto 1945 il Giappone richiede la pace e l’annuncio ufficiale della capitolazione viene fatta il 15 dello stesso mese. La pace viene firmata il 2 settembre 1945 e numerosi ufficiale si suicidano.

E’ da vinto, ma non da monarca destituito, che l’Imperatore si presenta 25 giorni più tardi davanti ad un MacArthur che assume già la posa da proconsole. Gli Americani, avendo capito che la chiave della loro conquista consisteva nel mantenimento del principio imperiale, riescono ad assicurare la pace in un paese che si apprestava ad una lotta ad oltranza. In tal modo le forze armate del Giappone possono capitolare, ma il paese può ontinuare a vivere.


 

 

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