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Il processo sommario di cognizione in attesa di giudizio Un altro esperimento dopo il Flop del rito societario 21/09/2009 - Gianluca Ludovici (Rieti) La vis riformatrice profusa dal Legislatore della XVI Legislatura nei vari settori dell’ordinamento giuridico non ha risparmiato neppure la materia processuale civile, per la verità già sensibilmente rivisitata in questi ultimi anni con non pochi interventi di “ritocco” ( si pensi “solo” al D.L. 35/2005, alla L. 263/2005, al D.Lgs 40/2006, alla L. 52/2006, alla L. 244/2007, nonché al D.L. 112/2008 ). Ultima in ordine di tempo, la Legge 18 Giugno 2009, n. 69 ha introdotto, tra le altre, un’interessante novità: un istituto processuale, disciplinato dagli art. 702 bis e ss. C.P.C., che, nelle intenzioni del Legislatore, dovrebbe avere il merito di accelerare i tempi della definizione delle controversie civili e realizzare, finalmente, il principio della ragionevole durata del processo. Il nuovo strumento processuale, dogmaticamente parlando, si caratterizza per essere un rito sommario non cautelare, un monitorio spurio, come è stato pure definito in dottrina, che si pone quale alternativa al “processo a pieno titolo formale” in tutti quei casi in cui, rilevata la riconducibilità della res litigiosa al novero residuale delle controversie di cui agli artt. 9 e 50 ter C.P.C. ( giudice monocratico, eccetto le cause che seguono un rito speciale ), il giudice adito riconosca sufficiente, ai fini della decisione del caso di specie, una fase istruttoria semplificata. Occorre dire, però, sin d’ora che il sistema prevede una sorta di clausola di salvaguardia della necessità di garantire una piena indagine giudiziale finalizzata alla tutela dei diritti, poiché è sempre possibile la trasmigrazione verso le forme ( ed i tempi! ) del processo ordinario, cosa che avverrà tutte le volte in cui la causa, introdotta ai sensi dell’art. 702 bis C.P.C., si dimostri di fatto inidonea ad essere istruita in modo sommario: tale meccanismo non opererà, però, à rebours, cosicchè la causa introdotta nelle forme del rito ordinario non potrà mai subire la conversione nel sommario di cognizione. Ma vi è di più: nell’ottica lunga della “riduzione e semplificazione dei procedimenti civili” di cui all’art. 54 della legge di riforma, il modello processuale in argomento è destinato ad affiancare i già ben noti giudizi di cognizione ordinario e di lavoro, ed è stato così caricato, forse sin troppo, della responsabilità di rimettere ordine in un sistema segnato da particolarismi e sfumature di ogni sorta. In definitiva, i tratti salienti del neonato sommario di cognizione potrebbero così sinteticamente riassumersi: sommarietà, alternatività, atipicità ( dovuta alla impossibilità di applicare l’istituto de quo solo ad un numerus clausus di materie ), convertibilità nel processo a cognizione piena ed idoneità al giudicato del provvedimento finale. Il tentativo di individuare l’origine storica dell’istituto in esame conduce, almeno a livello terminologico, molto lontano e, più precisamente, al Codice del Regno d’Italia del 1865, nel quale viveva uno strumento processuale, eccezionale rispetto al processo cosiddetto formale che costituiva la regola, denominato procedimento sommario di cognizione; a ben vedere, tuttavia, si trattava allora di un istituto connotato da requisiti ( tra cui l’oralità della trattazione ) che ora sono stati ampiamente acquisiti al “nostro” processo a cognizione piena e che, pertanto, sono propri del processo rispetto al quale quello di cui agli art. 702 bis e ss. C.P.C. si pone, oggi, come l’alternativa. In realtà, gli strumenti processuali più affini al nuovo sommario di cognizione possono rinvenirsi in tempi molto più recenti. La memoria non deve faticare molto ed alla mente non possono non andare l’art. 19 D.Lgs. 5/2003, ora abrogato dalla recente Legge 69/2009 insieme a tutto il rito societario, e l’art. 46 del cosiddetto progetto Mastella. Anche in questi casi, però vi sono delle differenze sostanziali non da poco: se si pensa al rito sommario del processo societario, al di là della somiglianza nel nomen e nella sommarietà dell’istruzione, le due figure differiscono sia sotto il profilo dell’ambito di applicazione, che degli effetti e del contenuto ( ma non della forma ) del provvedimento finale. Se il sommario non cautelare del rito societario era funzionale ad una tutela finalizzata all’ottenimento di una condanna al pagamento di somme di denaro o alla consegna –rilascio di cose, da pronunciarsi con un’ordinanza inidonea al passaggio in giudicato ( come è tipico di tutti i cosiddetti provvedimenti decisori senza accertamento ), al neonato sommario di cognizione, al contrario, può farsi ricorso per la soluzione di controversie rientranti genericamente nella competenza del giudice monocratico ( con le eccezioni sopra precisate ), al fine di ottenere non solo provvedimenti di condanna, ma anche di mero accertamento e costitutivi, con conseguente sua idoneità a produrre gli effetti ex art. 2909 C.C. ( provvedimento decisorio con accertamento, come una semplice sentenza ). Il tutto senza contare che nel processo ex art. 19 D.Lgs. 5/2003 il provvedimento definitivo era pronunciato con ordinanza solo in caso di accoglimento della domanda ( in caso contrario la causa proseguiva nella forma ordinaria del rito societario ), mentre nel nuovo istituto processuale la decisione finale, sia essa di accoglimento, che di rigetto sarà sempre e comunque un’ordinanza. Quanto all’accostamento con l’istituto di cui al vecchio progetto Mastella, poi, deve dirsi che lo strumento processuale proposto nel 2007 e rubricato come procedimento sommario non cautelare aveva un ambito di applicazione molto più ristretto ed analogo al sommario societario ( ambito di applicazione definito con riferimento al provvedimento ottenibile: condanna al pagamento di somme di denaro o alla consegna-rilascio di cose ) e la relativa disciplina risultava, rispetto a quella attuale, molto meno dettagliata e puntuale, tanto da sembrare più sommaria del rito che pretendeva di regolare. Un parallelismo opportuno potrebbe essere tentato con il procedimento d’ingiunzione, con cui il rito recentemente introdotto condivide il carattere alternativo e l’efficacia del provvedimento finale; tuttavia occorre considerare che sussistono sensibili differenze procedimentali, quali la presenza di un contraddittorio congenito e non meramente eventuale, né differito, la possibilità di introdurre prove costituende, nonché l’impugnabilità dell’atto decisorio finale. Tutto ciò senza contare la proclamata aspirazione del sommario di cognizione a divenire un modello processuale tipo nella semplificazione annunciata dalla novella. Tracciando la fisionomia di questo nuovo istituto, deve dirsi, pertanto, che si tratta di procedimento del tutto originale, cui si è giunti all’esito di un’operazione di collage giuridico degna delle più celebri pagine di Mary Shelley, e disciplinato ex novo da soli tre articoli del codice di rito: art. 702 bis ( Forma della domanda. Costituzione delle parti ), art. 702 ter ( Procedimento ) ed art. 702 quater ( Appello ). In particolare, abdicando a qualsiasi volontà di pedanteria e rinunciando a riprodurre testualmente, in questa sede, la lettera della legge, si può rilevare come il neonato procedimento a cognizione semplificata debba introdursi con un atto che, pur rivestendo la forma esteriore del ricorso, deve conservare l’anima e l’essenza dell’atto di citazione: esso, pertanto, dovrà contenere i requisiti di cui a numeri da 1 a 7 dell’art. 163, coma III C.P.C., eccezion fatta, ovviamente, per la data dell’udienza cui il resistente-convenuto è chiamato a comparire. Tale udienza sarà, invece, fissata con decreto dal giudice designato dal Presidente del Tribunale, dopo il deposito del ricorso in cancelleria, e costituirà il punto di riferimento cronologico tanto per il termine di costituzione del resistente-convenuto ( comunque non oltre dieci giorni prima dell’udienza ), quanto, indirettamente, per la notifica del ricorso e del pedissequo decreto ( almeno trenta giorni prima della data per la costituzione del convenuto ). Dalla notifica di ricorso e decreto il resistente-convenuto dovrà costituirsi in cancelleria mediante deposito di una comparsa di risposta, in tutto e per tutto identica, quanto al contenuto, all’atto di costituzione del convenuto nel processo a cognizione piena ai sensi dell’art. 167 C.P.C.. Il procedimento vero e proprio si apre con una prima udienza la cui rilevanza è tale da condizionare irrimediabilmente, sul piano rituale, la prosecuzione e l’esito formale dell’intera causa; nel corso della prima udienza, infatti, l’organo giurisdizionale adito dovrà eseguire un approfondito controllo circa la sussistenza della propria competenza, la riconducibilità della controversia a quelle per cui è competente il Tribunale in composizione monocratica ( non solo in relazione alla domanda principale, ma anche all’eventuale riconvenzionale ) e la possibilità di procedere ad un’istruzione semplificata ( rectius: sommaria ) della causa stessa. Solo qualora i detti elementi siano rilevati dal giudice, questi proseguirà nelle forme del rito sommario di cognizione, procedendo all’audizione delle parti e, omessa ogni formalità ritenuta non essenziale al contraddittorio, fissando una successiva udienza ( una sola: poco credibile, ma auspicabile! ) per la trattazione della causa, con il compimento degli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto. In ottica prettamente dogmatica, poi, vale la pena segnalare come il procedimento descritto dall’art. 702 ter C.P.C. abbia recepito integralmente la disposizione di cui all’art. 669 sexies C.P.C., con l’unica non secondaria distinzione che gli atti di istruzione nel sommario di cognizione debbono essere “rilevanti” e non “indispensabili” come nei procedimenti cautelari ( si tratta di un quid minus qualitativo giustificato dal fatto che, per quanto si sia in presenza di un rito accelerato, esso non è mosso dall’esigenza di celerità propria della tutela cautelare ). Qualora, invece, il vaglio preliminare del giudice riscontri il deficit di uno dei sopra indicati requisiti, si avranno le seguenti differenti evoluzioni:
Il processo si concluderà, sia in caso di accoglimento, che di rigetto, con un’ordinanza ( contenente anche il capo relativo alle spese del giudizio ) provvisoriamente esecutiva e che costituirà titolo esecutivo ex art. 474, n. 1 C.P.C., nonché titolo per iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione. Se la spendibilità in executivis del provvedimento in esame ricorda il vecchio sommario societario ex art. 19 D.Lgs. 5/2003, ciò che appare, invece, come assoluta novità nel panorama giuridico italiano e che conduce l’ordinanza de qua fuori dalla categoria dottrinale dei provvedimenti decisori senza accertamento, è l’idoneità all’acquisizione della forza e dell’efficacia della cosa giudicata ( giudicato sostanziale ex art. 2909 C.C. ), se non impugnata nei trenta giorni successivi alla comunicazione della cancelleria o alla notificazione della parte soccombente. Per ciò che attiene la tutela impugnatoria avverso l’ordinanza di accoglimento o di rigetto della domanda, deve dirsi che l’appellabilità al collegio esclude, ovviamente, la modificabilità o la revocabilità della stessa ai sensi dell’art. 177 C.P.C.; la relativa disciplina, tuttavia, è davvero minimale, tanto da limitarsi ai due soli aspetti del divieto dei nova e della delega dell’assunzione dei mezzi di prova ad un giudice istruttore. In secondo grado i nuovi mezzi di prova ed i nuovi documenti, fermo restando il generale divieto, potranno essere ammessi solo qualora il collegio li ritenga rilevanti ai fini della decisione oppure la parte ( quella soccombente, evidentemente ) dimostri di non aver potuto proporli nel primo grado per causa ad essa non imputabile, purché anch’essi rilevanti. Nel caso in cui si ritenga di procedere all’assunzione di prove costituende, il Presidente del collegio potrà delegare uno dei componenti per la relativa assunzione. La disciplina sinora analizzata, per quanto più dettagliata di quella semplicemente adombrata nel progetto Mastella, paga tuttavia il prezzo di una costruzione avvenuta, a parere di chi scrive, senza gettare uno sguardo all’applicazione pratica; inconveniente questo che apre il campo a non poche problematiche, vere o apparenti, la cui risoluzione, in assenza di ulteriori successive modifiche o integrazioni normative, sarà inevitabilmente rimessa agli interpreti ed ai pratici del diritto. Tra le dolenti note può segnalarsi, in primis, la difficoltà di comprendere quali siano i parametri oggettivi in virtù dei quali operare la valutazione di idoneità della controversia ad essere trattata nella forma sommaria del processo di cognizione; in altri termini, quando il giudice ( ma ancor prima il difensore che intenda introdurre la causa ex artt. 702 bis e ss. C.P.C. ) può obiettivamente e fondatamente ritenere che una data controversia possa essere decisa all’esito di una fase istruttoria semplificata? Stante la coincidenza sul punto con l’abrogato art. 19 D.Lgs. 5/2003, sembrerebbe necessario, mutatis mutandis, ricorrere a criteri di valutazione quali l’oggetto del processo ed i fatti costitutivi della domanda ( unico criterio da considerare per il difensore del ricorrente-attore ), le difese svolte dal resistente-convenuto e da eventuali terzi chiamati in causa ( ivi compresa la valutazione su probabili riconvenzionali ), l’impostazione complessiva del thema probandum così come delineato dalle richieste istruttorie delle parti, nonché, nel silenzio della legge, la manifesta fondatezza-infondatezza della domanda. Una simile valutazione, come appare logico, non potrà non essere frutto, quindi, di una scelta discrezionale: ma, se nel caso del difensore del ricorrente-attore, tale scelta troverà un parametro circa la propria bontà e correttezza nel controllo del giudice in prima udienza, quale forma di controllo opererà nei confronti della discrezionalità dell’organo giudicante? Seguendo criteri di mera logica e buon senso giuridico, dovrebbe concludersi in modo tale da considerare il giudice tenuto a dar conto, nell’ordinanza che decide la controversia, della propria scelta in favore del rito sommario, così da rendere controllabile, criticabile e censurabile ( ad opera del giudice di secondo grado ) la propria scelta. D’altro canto, questa conclusione, oltre ad apparire la più garantista ed in linea con i principi generali del processo civile, risulterebbe anche coerente con la scelta di imporre al ricorrente-attore l’esposizione, in atto introduttivo, delle ragioni che giustificano il ricorso al processo sommario di cognizione. In definitiva, se sono corretti i criteri sopra individuati ( e la migliore dottrina in ciò conforta: si vedano per tutti F.P. Luiso e B.N. Sassani ), le tipologie di controversie che appaiono, a prima vista, le più adatte alla trattazione con il nuovo rito sono, ferma restando la necessaria valutazione caso per caso, quelle risarcitorie ( anche quelle di cui agli artt. 148 - azione diretta - e 149 – indennizzo diretto - Cod. Assicurazioni ), quelle condominiali e quelle di pagamento e rimborso di somme di denaro. Altro quesito riguarda l’articolazione, a pena di decadenza, dei mezzi di prova nell’atto introduttivo e nel primo atto difensivo: il problema, anche qui, non appare di mera rilevanza dottrinale, se si considera l’incidenza che i mezzi di prova acquisiti hanno ( rectius: dovrebbero avere – ahinoi, molte volte la prassi giudiziaria sconfessa questo assunto ) sull’esito della controversia. La ricerca di una soluzione convincente appare, qui, più ardua: a favore dell’immediatezza dell’articolazione dei mezzi istruttori depongono la forma dell’atto introduttivo ( ricorso ) e, soprattutto, la ratio e la struttura procedimentale dell’istituto, sorretto da innegabili esigenze di celerità. A sostegno della possibilità di articolare i mezzi di prova alla prima udienza, invece, si schierano la scelta legislativa di far riferimento, quanto al contenuto dell’atto introduttivo, all’art. 163, comma III C.P.C. ( proprio dell’atto di citazione ), nonché l’assenza nel testo normativo di qualsiasi espressa preclusione e decadenza. Sebbene la risposta formalmente più corretta appaia, pertanto, quella che consente la formulazione delle prove anche alla prima udienza, con conseguente impossibilità di configurare preclusioni o decadenza a carico della parte che non abbia articolato le prove in atto introduttivo o nel primo atto difensivo, è lecito credere, per chi scrive, che l’esame del dato empirico spingerà il Legislatore, de iure condendo, ad una precisazione in senso favorevole alla prima soluzione. Ciò in base ad una semplice constatazione: se effettivamente nella valutazione della possibilità di ricorrere al rito ex artt. 702 bis e ss. C.P.C. deve concorrere il thema probandum, come delineato dal complesso delle richieste istruttorie, e se tale verifica deve essere eseguita dal giudice necessariamente in prima udienza, allora è opportuno ( anche se non logicamente necessario ) che l’indicazione specifica dei mezzi istruttori avvenga prima di tale udienza e, quindi, nel ricorso e nella comparsa di costituzione e risposta. Solo in questo modo, infatti, potrebbe imprimersi la giusta velocità ad un procedimento la cui prima udienza correrebbe il rischio, altrimenti, di divenire una mera udienza di comparizione, caratterizzata esclusivamente da una serie di verifiche dell’organo giudicante in ordine al rispetto del contraddittorio e delle forme del nuovo rito; tenuto conto della prassi dei Tribunali civili, infatti, sembrerebbe “innnaturale” o “irrituale” vedere il giudice adito riservarsi sull’esperibilità del rito sommario di cognizione per dovere lo stesso compiutamente esaminare le richieste istruttorie avanzate alla prima udienza? La risposta in questo caso è sicuramente negativa, ma ferma restando la validità del rilievo logico appena argomentato, deve concludersi per l’assenza di qualsiasi ostacolo ad un’indicazione dei mezzi istruttori anche in sede processuale ( prima udienza! ); mezzi di prova che potranno essere tutti quelli considerati dal nostro ordinamento utilizzabili nel processo a cognizione piena. Un “falso” problema, invece, sembrerebbe essere quello legato alla mancata considerazione del Legislatore per la chiamata di terzo per comunanza di causa, essendo stata espressamente prevista la sola ipotesi della chiamata di terzo in garanzia. In questo caso, stante il silenzio della legge, da interpretarsi come assenza di divieti al riguardo, la soluzione non può non essere il ricorso all’applicazione analogica delle disposizioni che disciplinano la chiamata di terzo per comunanza di causa nel processo ordinario. Analoghe considerazioni vanno svolte in materia di intervento volontario del terzo e della sua chiamata iussu iudicis. L’assenza di disposizioni circa la contumacia del resistente-convenuto, poi, non rende semplice la soluzione della questione laddove l’ipotesi in argomento si verificasse. L’ampia discrezionalità riconoscibile al giudice sul punto conduce ad intravedere due alternative: la ficta confessio e la ficta contestatio. In teoria, pertanto, il giudice potrebbe accogliere la domanda perché fondata e priva di contestazioni in assenza di costituzione della controparte oppure ritenere che la contumacia non incida su un piano probatorio ( quello del ricorrente-attore ) di per sé carente e tale da non supportare adeguatamente le pretese azionate in giudizio. Sempre nel rispetto della ratio dell’istituto ( giustizia in tempi celeri ) ed in linea con il nuovo art. 115, comma I C.P.C. ( i fatti non specificatamente contestati potranno essere posti a base della decisione ), è preferibile accordare preferenza alla prima ipotesi, anche se occorrerà fare i conti con l’orientamento contrario ( favorevole alla ficta contestatio ) espresso dalla giurisprudenza della Consulta con riferimento alla contumacia nel rito sommario societario. Altro problema apparente sembrerebbe essere quello relativo alla disciplina del termine oltre il quale l’ordinanza acquisterà l’efficacia di cui all’art. 2909 C.C. ( 30 giorni, se non impugnata ), poiché non è stata prevista la decorrenza di un termine lungo, analogamente a quanto accade per le sentenze pronunciate all’esito del processo a pieno titolo formale. Qui pure si mostra più che plausibile la soluzione fondata sull’analogia, cosicché il “nuovo” termine lungo di 6 mesi ( cfr. art. 327, comma I C.P.C. ) dovrà considerarsi operante nel caso ( remoto, ma non scolastico ) di mancata comunicazione da parte della cancelleria o di mancata notifica ad opera della parte vittoriosa dell’ordinanza che definisce il processo. Ulteriore problema interpretativo, infine, pone la disciplina dell’appello ex art. 702 quater C.P.C., atteso che non viene in alcun modo specificato se, anche in secondo grado, debba procedersi in forma sommaria o si rientri nei binari del rito ordinario; ciò senza contare che non viene chiarita neppure la forma dell’atto introduttivo dell’appello ( ricorso o atto di citazione ). A favore della prima tesi depone il principio di ultrattività del rito, accompagnato dalle già ricordate esigenze di celerità della soluzione della controversia, ma, al modesto parere di chi scrive, risulta più convincente, sia dal punto di vista sistematico ( assenza di norme specifiche che deroghino alla disciplina generale dell’appello e perdita della specificità del rito in secondo grado ), che logico ( migliore idoneità del rito ordinario al riesame del merito ), la tesi che vuole l’applicazione ( residuale ed analogica ) degli artt. 339 e ss. C.P.C.; tutto ciò con l’ovvia conseguenza che l’atto introduttivo dovrà essere, in forma ed in sostanza, il consueto atto di citazione in appello. In conclusione, pur nella consapevolezza delle aspirazioni, o meglio delle velleità, del modello processuale in esame, è difficile pronunciarsi sulla fortuna che il rito sommario di cognizione incontrerà: fermo restando l’apprezzamento per le buone intenzioni del Legislatore ed al di là di qualche necessario intervento normativo volto a fugare i dubbi ed a risolvere le problematiche sopra esposte, la sorte del nuovo istituto dipenderà dalla volontà della Magistratura e dal gradimento dell’Avvocatura. Un approccio non proprio entusiastico è giustificato dalla mera riflessione che nel sistema processualcivilistico italiano non mancavano ( e non mancano ora! ) istituti ispirati ad identiche istanze di rapidità e snellezza, quali quelli di cui agli artt. 186 bis, ter, quater e 281 sexies C.P.C., costantemente disapplicati, se non addirittura ostracizzati, ed avviati al già affollato viale dei sogni infranti da chi avrebbe dovuto garantirne l’applicazione. Una seria valutazione dipenderà, tuttavia, anche dai risultati pratici che il nuovo rito darà e dai quali non potrà affatto prescindersi per un giudizio di valore complessivo che, sebbene tendente al pessimismo, per ora non può che rimanere prudentemente sospeso.
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