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La testimonianza scritta nel Processo Civile L’Etica il Contraddittorio e il falso mito della Verità Processuale. 23/11/2009 - Gianluca Ludovici (Rieti) «La verità e l'originalità troverebbero più facilmente posto nel mondo, se coloro che non sono in grado di produrle non cospirassero di comune accordo per non farle venire alla luce» ( A. Schopenhauer )
La testimonianza scritta come mezzo di prova all’interno del processo civile costituisce una delle principali novità dell’ultimo intervento di riforma del codice di rito; certamente si tratta della novità di maggior impatto e che ha destato più perplessità rispetto alle altre, tanto da aver sviluppato, tra i sostenitori ed i detrattori della recente “novella”, un dibattito caratterizzato da argomentazioni non esclusivamente giuridiche. Le ragioni di un simile risultato devono rinvenirsi, in primis, nella assoluta originalità che l’istituto in argomento rappresenta per la secolare tradizione del nostro ordinamento e del nostro diritto: l’ipotesi (rectius: la facoltà) di introduzione in un giudizio di una dichiarazione scritta proveniente da un soggetto terzo è stata normativamente contemplata, in tempi relativamente recenti, solo per l’arbitrato (si vedano il vecchio art. 819 ter c.p.c., introdotto con la Legge n. 25/1994, ed il vigente art. 816 ter c.p.c., frutto del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), ma come è noto, il giudizio arbitrale non è, neppure dopo il nuovo art. 824 bis c.p.c., un processo nel vero senso del termine. Vale la pena ricordare, però, che la testimonianza scritta non è un’invenzione dell’attuale Legislatore: si deve gettare un occhio oltre gli ameni italici confini per rendersi conto che altre esperienze giuridiche, non meno importanti della nostra, prevedono da anni il medesimo istituto, seppur con varianti che forse lo rendono socialmente più accettabile. Si pensi, al riguardo, a les attestations dell’ordinamento francese (artt. 200-203 del Nouveau code de procedure civile), oppure all’affidavit evidence britannico (art. 32 del Civil Procedure Rules, in cui la dichiarazione viene resa fuori dal processo, ma pur sempre davanti ad un pubblico ufficiale) o, piuttosto, alla teutonica schriftliche Beantwortung (risposta scritta alla richiesta di prova chiamata “Beweisfragen” . Guardando in casa nostra, invece, al di là delle proposte dei precedenti progetti Vaccarella e Mastella, “le fonti di ispirazione più autorevoli” sembrano essere state certe prassi istruttorie extra codicem, come, per citarne una, l’assunzione delle testimonianze da parte dei difensori previa autorizzazione del giudice (a distanze da quest’ultimo che variano, a seconda dei casi, dai pochi centimetri all’aula vuota accanto ), che la giurisprudenza (leggi: Magistratura) ha introdotto e benedetto in nome della celerità dei procedimenti. Affatto secondari nella querelle risultano essere stati i non pochi spunti di riflessione metagiuridica che le norme di cui agli artt. 257 bis c.p.c. e 103 bis disp.att. c.p.c. offrono: in effetti, la testimonianza scritta pone problemi di varia natura che vanno da quelli giuridici a quelli meramente pratici, senza tacere quelli propriamente etico-filosofici. Quanto all’aspetto della disciplina dell’istituto in argomento, deve dirsi che la stessa non pone, sotto il profilo della sua intelligibilità, particolari problemi interpretativi: la testimonianza scritta nel processo civile (esperibile anche davanti al Giudice di Pace e persino nelle ipotesi di assunzione dei mezzi di prova fuori dalla circoscrizione del tribunale) sarà consentita tutte quelle volte in cui si verificheranno le seguenti due condizioni di ammissibilità: 1) l’accordo delle parti (tutte quelle regolarmente costituite) ovvero, più realisticamente, dei loro difensori; 2) l’assenso discrezionale del giudice, tenuta presente “la natura della causa” e valutata “ogni altra circostanza” (qui la norma è volutamente, ma pericolosamente, generica per lasciare ampio sfogo alla sensibilità del Genio del giudicante di turno). Una volta ammessa la “nuova prova” o, meglio, una volta consentita la “nuova modalità di assunzione” della vecchia prova costituenda per eccellenza, la parte richiedente procederà alla predisposizione di un apposito modello (conforme a quello approvato con decreto dal Ministero della Giustizia) redatto in base agli articoli di prova ammessi, nonché ad eseguire la notificazione dello stesso al testimone, congiuntamente alle “istruzioni per l’uso”. Per il contenuto del modello si rinvia a quanto espressamente detto nella norma; qui preme sottolineare come suoni divertente e curiosa (perdonate l’eufemismo!) l’inclusione nel modello della formula del giuramento di cui all’art. 251 c.p.c., formula che verrà recitata dal testimone dinanzi a sé stesso ed alla propria coscienza, la quale, considerata la costante condivisione ed applicazione delle tesi hobbesiane sullo stato di natura, potrebbe risultare più angusta e buia di certe aule e certi uffici. Si badi bene, poi, che il dichiarante conserva sempre la facoltà di astenersi dal deporre, ma ciò non lo esenta dalla compilazione del relativo modello, che dovrà, in tal caso, riportare i motivi dell’astensione (si pensi ad esempio alle ipotesi, espressamente richiamate, di cui agli artt. 200, 201 e 202 c.p.p.). Il testimone dovrà, poi, sottoscrivere ogni risposta, nonché ogni foglio del modello a lui sottoposto; la firma dovrà essere successivamente autenticata da un segretario comunale oppure dal cancelliere di un ufficio giudiziario, ma l’autentica sarà gratuita ed esente da imposta di bollo o diritti. La testimonianza così redatta ed autenticata nella sottoscrizione sarà spedita in busta chiusa con plico raccomandato oppure potrà essere consegnata brevi manu alla cancelleria del giudice, ma in questo caso non sarà possibile escludere spese a carico del teste non è una novità che per fare il proprio dovere si finisca sempre per pagare, in qualche modo… ). Infine, sarà sempre fatta salva la possibilità per il giudice di disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato. Come si vede i problemi di natura prettamente giuridica non sono i soli ad affiorare. La praticità di questo nuovo istituto, introdotto con la solita speranza di ridurre i tempi biblici dei nostri processi, non appare così evidente: le formalità da eseguire sembrano moltiplicarsi rispetto a quelle previste per la cara e vecchia testimonianza orale e l’ipotesi che il teste venga richiamato dal giudicante per chiarimenti sulla sua deposizione scritta vanifica, se non annichilisce, le buone intenzioni di partenza. Ammesso e non concesso che non si possa dubitare della bontà delle dichiarazioni testimoniali in forma scritta (ciò solo con il cieco ottimismo di un leibniziano), una simile modalità di assunzione della prova apparirebbe più adatta a sostituire o ad affiancare la prova delegata (ma solo per ragioni di praticità) ovvero a far fronte alle incertezze valutative che circondano certi documenti prodotti in giudizio (per tutti si vedano i preventivi di spesa). Persino sul piano della pura etica non sono mancate obiezioni più o meno fondate; pur dovendo sempre fuggire dai facili moralismi delle numerose maestrine dalla penna rossa, c’è da dire che in alcuni casi i rilievi in argomento non si sono mostrati proprio fallaci, purché considerati in stretta connessione con il mero dato giuridico. A parere di chi scrive è ampiamente condivisibile il prevalente orientamento sfavorevole all’introduzione della testimonianza scritta nel nostro ordinamento giuridico, ma è errato credere che il parametro del giudizio di disvalore risieda nella necessità di tutelare la verità storica, concepita come la verità con la “V” maiuscola, il reale accadimento dei fatti al cui accertamento tende il processo per consentire la regolamentazione del caso concreto. Se si considera, infatti, la Verità come l’obiettivo che la testimonianza scritta (ed in generale la prova tout court) deve garantire, si commette un grave errore di ingenuità o, forse, di ipocrisia: nel primo caso basterebbe abbandonare una visione morale di tipo conseguenzialistico per approdare ad una più seria etica deontologica, mentre nel secondo si tratterebbe di malattia senza rimedi. Chiunque, infatti, può facilmente constatare come la verità storica dei fatti sia cosa diversa e distinta dalla verità processuale, che è, invece, quella che emerge dal giudizio, quella che viene definitivamente statuita con la sentenza e che, solo occasionalmente, può coincidere con la prima (volendo esagerare si potrebbero anche evocare i concetti di “verità reale o non epistemica” per la prima e di “verità anti-reale o epistemica” per la seconda). Il bene assoluto da proteggere ad ogni costo nel processo civile, quindi, non è la Verità, ma il contraddittorio nella formazione della prova, inteso come l’unico mezzo che possa consentire, almeno in potenza, l’accertamento dei (reali) fatti storici . Sconfinando sul piano della Logica e senza proporre un puro esercizio retorico, si può facilmente intuire, infatti, come non sia una proposizione sempre vera quella che asserisce “La testimonianza scritta non garantisce l’accertamento della Verità” ; al contrario è sempre vera la proposizione “La testimonianza scritta non garantisce l’equa partecipazione delle parti alla formazione della prova” e, dunque, non realizza il contraddittorio. E’ in questi termini che la testimonianza scritta si pone al di fuori della logica (giuridica e non) e della possibilità di essere incondizionatamente accettata: ben potrebbe un teste, raggiunto da una richiesta di testimonianza scritta, rilasciare dichiarazioni più veritiere di quelle che un testimone, ben preparato, rendesse nel corso di un’istruttoria caratterizzata da pieno contraddittorio. Il punto è un altro: la testimonianza scritta si svincola per sua natura dal controllo della controparte processuale, la quale è impossibilitata a vagliare, con specifiche domande, con una certa sensibilità, con abilità ed esperienza, l’attendibilità e la credibilità del dichiarante e delle sue dichiarazioni. Ora, se si mina alla base quello che dai tempi della Grecia Classica è apparso il metodo migliore per il raggiungimento della Verità (l’ars maieutica descritta da Platone ed attribuita a Socrate), si farebbe meglio ad abdicare, sin dal principio, alla primaria istanza di Giustizia che sorregge il processo ed a rinunciare a qualsiasi ambizione di regolare gli accadimenti umani attraverso il diritto. Le considerazioni appena esposte non sono prive, poi, di effetti e di riflessi di ordine pratico, atteso che il contraddittorio, a differenza della Verità, è un bene costituzionalmente previsto e garantito. Ne discende una sin troppo facile previsione di illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 257 bis c.p.c. in relazione al parametro dell’art. 111 Cost.. Tuttavia, non è così scontato che si arrivi ad una declaratoria da parte della Consulta, ciò apparendo davvero difficile che la disposizione de qua possa trovare effettiva applicazione nel corso di un vero processo. In ogni caso, mettendo ancora una volta al doveroso bando le previsioni da cassandra, occorrerà attendere la prova dei fatti per verificare quanto il Legislatore sia stato ispirato e lungimirante.
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