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Giovanni Olivieri Vivo Quasi Una Recensione 12/12/2009 - C. R. Eu. (Rieti) Tuttu passa. Mo l’acqua de Turanu No è più ella de ieri. Tuttu è vanu.
L’edizione critica integrale delle “Poesie” del caro don Giovanni, Giovanni Olivieri (Giuanni de issi de Olivieri) ha veduto la luce e preso il suo posto tra i volumi più preziosi di chi scrive. Merito della Fondazione “Marchese Rodolfo Capelletti di Santa Maria del Ponte” e del nostro Collega Giancarlo Ginanneschi, ispiratore dell’iniziativa editoriale; dei professori Ugo Vignuzzi – ordinario di dialettologia presso l’Ateneo “La Sapienza”, autore della prefazione – e Gianfranco Formichetti, curatore della raccolta. Che, purtroppo, resta incompleta: manca tutta la produzione, d’occasione e non, per il quindicinale “Cronache”, editato all’inizio degli anni ’80 dalla locale Federazione del P.C.I. Peccato. La sovrana indifferenza di Giovanni per la sua proprietà letteraria gioca anche di questi scherzi. * * * Giovanni con la cannuccia da pesca sulla riva del Velino, in quel Lungofiume che ha preso il suo nome anche per iniziativa di chi scrive; Giovanni nel suo studio che ascolta Mozart e legge Orazio; Giovanni irretito dai venditori porta a porta che chiede aiuto ad un giovane giurista alle prime armi (ancora chi scrive); Giovanni maestro di vita che ammonisce «l’uomo non sarà mai libero perché c’è la morte …»; Giovanni presbitero che parla ai suoi diletti christifideles della Piana nella pieve di via Velinia, … quanti ricordi, quanta commozione, che perdita per la città, in quel crudo Dicembre di vent’anni fa! Correva l’anno 1989, l’anno in cui tutto cambiava, o sembrava cambiare ..… Si spegneva (a lu spiale) un uomo buono e compassionevole; un povero cristiano ed un curato di campagna, avrebbe detto lui riecheggiando Silone e Bernanos (Tutto è grazia). A proposito: Drento a lu spiale semo tutti uguali è uno dei suoi sonetti ancora inediti. Giovanni forse non lo sapeva, ma con questa composizione stava dettando la sua personale livella. * * * Un’anima limpida era Giovanni Olivieri, un’anima grande. Ma la malinconia ed il rimpianto lo visitavano spesso, nonostante i molti amici e compagni. La sua Chiesa non poteva capirlo (in compenso la Chiesa, nella sua storicità, aveva pochi segreti per lui)) ed egli si straziava, diviso tra obbedienza e rivolta critica. Problematico, tormentato, sospeso tra reatinità e classicità, orgoglio intellettuale e francescana umiltà, passione civile e disincanto, dolente riflessione sul tempo che se ’nfua e speranza metafisica, imperiosi bisogni e dolorose rinunce. Un educatore d’altri tempi, certo, ma anche un pastore, un teologo della liberazione sempre intento ad una seria cristologia. Persino un militante politico, organico alla sinistra (vera) del tempo. Un altro di quei pochi, pochissimi reatini «con i piedi nel borgo e la testa nel mondo» (Domenico Petrini). Come non pensare al Guglielmo di Baskerville tratteggiato da Umberto Eco ne “Il nome della rosa”?
NOTERELLE TANTO PER …
La madre. La amerà di dolce amore filiale per tutta la vita ed oltre. Spesso la vedrà in sogno. E lei gli sarà sempre accanto, senza mai sbiadire nel ricordo. Come del resto i nonni, la Marianna morta prematuramente e tutti gli altri cari fantasmi che non hanno mai smesso di danzargli intorno. * * * Ecco, questi fantasmi. Per un momento Giovanni fa riemergere dall’oblio Luciano Vendemini, morto per una cardiopatia mai diagnosticata (destino parallelo a quello di zio Willie Sojourner – strappato al suo quieto destino di homeless per finire al volante di un vecchio bolide – sul quale purtroppo non ha potuto effondere i suoi versi); Giuseppe Deli ed Eliseo Rosatelli, concittadini immolati a quel Palio della Tinozza che non abbiamo mai compreso. I Sindaci socialisti di Rieti. Fossittu. Tanti altri ancora. * * * Il Cristo ed il socialismo. E’ la cifra della sua ribellione morale contro le troppe ingiustizie del mondo sublunare. Pensava, con Oscar Wilde, che «il ricco ed il povero sono fratelli. Il ricco si chiama Caino». E non si dava pace: possibile che un padre de famija … à da raccommannasse poerittu, / pe troà ’n sordu de laùru ’nfame / che lu grassu padrone ancora ’ngrasse? Il suo socialismo era creaturale ed umanistico. Marxe e San Francesco. Vangelo e Gramsci. Ottobre rosso e pietas. Molto Gandhi («il tuo prossimo è tutto ciò che vive») e poco Lenin. Fu vicino (forse iscritto) al P.C.I. berlingueriano ed in morte del segretario comunista (vivente Giusto) stenderà un intenerito sonetto in lingua. Buon per lui che non ha visto com’è andata a finire. Cosa avrebbe detto della deriva che seguì? Forse l’amarezza l’avrebbe sopraffatto. E dell’era Berlusconi, invece, così pittoresca? La sua vena satirica ci sarebbe andata a nozze! Questo si dice lasciare un vuoto incolmabile: non sapremo mai cosa avrebbe chiosato, per fare un esempio, a margine del caso Marrazzo. Ma l’incipit avrebbe potuto essere, più o meno:
Poeracciu, in mutanne l’hau retroatu, mezzu mortu, sotto lu trans sciufulatu. Ce se so ’ncuntrati pure li Carabbineri, che dell’operazzione non pozzu ì fieri. Io non saccio bbene come e perché, ma staea meglio quanno stea a raitré.
Mi domando ancora: ma come ha fatto ad evitare la sospensione a divinis, abbattutasi in quegli anni su sacerdoti meno esposti di lui e con i quali – tra essi Don Franzoni – non ha mancato di solidarizzare? * * * La Musa Nostrale. Giovanni Oliveri è ormai nel Pantheon della produzione vernacolare co l’amici sei Loreto Mattei, Pier Luigi Mariani e Natale Cioli. Il duro dialetto reatino diventa nella sue mani uno strumento duttile e nobilitato, che aderisce a tutte le pieghe del suo mondo spirituale e della sua ispirazione letteraria. * * * Li poeracci e li cafuni, nella loro agostiniana sancta simplicitas, sono stati i suoi compagni di strada per tutta la vita. Lu raparu, lu zannu, lu tinozzaru non sono in fondo che forme archetipiche delle classi subalterne, da lui mai tradite. Aveva care la sua appartenenza e la sua identità. Non le avrebbe barattate neppure con la porpora cardinalizia. * * * L’invettiva (ello che me roe). Lu padroname, elle quatto petate della Communa, la Democrazia Cristiana sono i suoi bersagli polemici d’elezione. Senza trascurare, beninteso, i cattivi preti che del mondo sono le macagne. Li Signori mei dell’USLE. La guerra (Lu bombardamentu de lu Burgu). Lu gemellaggiu con Ito (ce sguazza solamente chi ce magna). I bigotti. I poetastri. Ronald Reagan. Gli scivoloni reazionari di Papa Wojtila. L’indignazione ne fa un tribuno del popolo, un masaniello, un dariofò capace dello sberleffo più colorito. Terribile, per davvero, è la biblica ira del mite! Ce ne sarebbe stato anche per Papa Ratzinger? Azzardiamo?
Lu Papa Beneittu è ecchittu e tocu assai. Glie piace de mettese le ciavatte rosce, e a la santa dottrina non ce renuncia mai. Pure da esso lu tedescu se po’ reconosce. * * * La solitudine. Lo campà soli, sempre, inguernu e istate: questo il suo cruccio più grande. Naturalmente paterno, viveva il celibato come una vessazione crudele, priva di senso, ed aveva ragione da vendere: Se ce l’aéte, bé, que ce facéte? / Gesù Cristu preché ve l’arìa atu? * * * La precarietà della vita. … unu compare, fa una beuta ’e sole e … passa manu. Si, caro Giovanni, ombra e polvere semo. Anzi, «Noi siamo fatti della stessa materia dei sogni» (W. Shakespeare). Che è come dire l’ome è paja. * * * La comicità. Quanti sorrisi ti strappa Lu rattu de le Sabine! E che dire dell’epopea … ferroviaria bermontese? Humour popolare, da vicolo e da bettola, nutrito però di cultura alta e di debordante umana simpatia, che rende carezzevole anche lo scherno. Persino gli algidi imperatori Flavi diventano capaci di suscitare buonumore! * * * Lu parlà ciovile. La sua produzione in lingua è vibrante di temperamento e trascolora dall’elegia all’epigramma all’ode. PERCHE’ TACERE - Parleranno le pietre, se tu taci! / e diranno l’amaro della vita / e l’orrore diranno e l’abbrutita / esistenza degli uomini rapaci. Tanto per richiamare un tema della raccolta. Questo vento urla ancora. Arianna e Velia guidano il Poeta nel suo destino ultraterreno. * * * Insomma, Giovanni Olivieri è vivo e non può essere ipostatizzato in una pubblicazione, per quanto benemerita, non può diventare un santino. La sua è l’urna di un forte, che ad egregie cose deve accendere gli animi. Giuanni è attuale e ribelle come non mai. Vedo il suo ghigno plebeo:
Cari Ginanneschi, Vignuzzi e Formichetti, e vù, lustrissimi sori marchesi Capelletti, oramai so postumo e ’n paraisu me raffiato, ecco non ce stau padruni e mancu lu Papato. Stajo ecinu a Cristu e a li beati poeritti e che orde je recito poesie e sonitti. Ve ringrazzio de core. Non me sarìa aspettatu, oppo vent’anni boni che mau rabbelatu, sapenno come la penzo e l’ajo sempre penzata, che m’aeste fattu esta bella ’mprovvisata! Giuanni ve beneice, amici, caramente, cercate de comportavve cristianamente! Recordate: lauru, pace, solidarietà, tantu amore, fratellanza, libbertà! Basta gnefrizie, basta sfruttamentu L’ome è più ’mportante de ogni turnacuntu! E mò, mentre ve lasso e ve faccio cucù, ve bojo ice: lu socialismu veru sta quassù! Basta. Bajo a pija que trotta e du lucci. Un salutu a li rapari e ’Ndoniucciu Martellucci. (La chiusa è un tantino impertinente, ma a lui sarebbe piaciuta.)
* * * POST SCRIPTUM Fermiamoci qui. L’illusione di riabbracciare il vecchio amico e mentore non può essere alimentata oltre. Le nostre affinità elettive, la tua corrispondenza di amorosi sensi con noi rapari appartengono ormai al passato. Devo lasciarti andare mio simile, fratello, Giovanni carissimo. Tu, però, raccogli l’immagine consolatoria di Sant’Agostino, continua a fissare con i tuoi occhi pieni di luce i nostri pieni di pianto. Resterai per sempre nella mia personale paideia e nella memoria dei tanti che ti hanno voluto bene, che ancora te ne vogliono. Ma non so se questa piccola città – La regina de la Sabina! – ti ha mai meritato.
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