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Studi di Settore Accertamento analitico e determinazione induttiva dei ricavi e dei compensi 06/02/2010 - Carlo Giacobbi (Rieti) Com’è noto il sistema fiscale italiano è caratterizzato dal principio dell’autoliquidazione. Ciò significa che lo Stato lascia che il contribuente, tramite la dichiarazione fiscale, determini da se gli imponibili, calcoli le relative imposte e provveda al loro versamento. Non è una concessione fondata su un atto di fede: è materialmente impossibile, per l’Erario, determinare gli imponibili fiscali e quindi le imposte da versare di tutti i contribuenti. Una volta acquisite le dichiarazioni, lo Stato le sottopone tutte al cd. controllo automatico ex art. 36-bis DPR 600/73, vale a dire ad un controllo “cartolare” diretto alla verifica della correttezza degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione. In tal caso, l’Amministrazione Finanziaria, ricorrendone i presupposti, può provvedere alla correzione di errori materiali o di calcolo, alla riduzione di detrazioni d’imposta, alla riduzione delle deduzioni dal reddito ecc., senza pregiudizio di un successivo e più penetrante controllo di merito. Successivamente al controllo automatico, l’Amministrazione Finanziaria, procede ad un’ulteriore attività denominata controllo formale ex art. 36-ter DPR 600/73. Anche in questo caso, attraverso detto controllo, l’Erario può escludere detrazioni d’imposta o deduzioni dal reddito ecc. sulla base dei documenti richiesti ai contribuenti. Il controllo formale, dunque, differentemente dal controllo automatico, implica una ridotta attività istruttoria, un primo contraddittorio tra Amministrazione e contribuente, e proprio in ragione dei costi che detta attività istruttoria comporta, non viene esperito nei confronti di tutti i contribuenti, ma solo di quelli individuati sulla base di criteri selettivi fissati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Nel caso in cui l’Ufficio ritenga di dover procedere alla rettifica del reddito complessivo o del volume di affari di un soggetto d’imposta, il controllo diviene sostanziale; l’Ufficio non si limita a valutare se il contribuente ha determinato gli imponibili da assoggettare a tassazione e le relative imposte secondo le norme fiscali, ma entra nel merito delle scelte del contribuente spiegando il perché della rettifica. In altri termini, nei controlli automatici e formali l’Ufficio esaurisce il suo controllo nella mera correzione di errori formali (omessi o carenti versamenti, irregolarità nelle compensazioni di crediti d’imposta ecc.); oppure escludere la deduzione dal reddito a seguito della documentazione esibita dal contribuente. Nel controllo di merito, invece, preceduto da una fase istruttoria che può sostanziarsi in accessi, ispezioni, verifiche (art. 33 DPR 600/73 e 52 DPR 633/72), l’Ufficio, nel rideterminare il reddito o il volume di affari del contribuente - si sviluppa l’esemplificazione di cui sopra - riduce o esclude una deduzione tramite valutazioni, scelte discrezionali: hai portato in deduzione un costo che io Ufficio non considero inerente l’attività di impresa (art. 109, comma 5, DPR 917/86). Il controllo di merito può essere esperito nelle forme dell’accertamento analitico, analitico-induttivo, induttivo. L’accertamento analitico presuppone la presentazione della dichiarazione fiscale della quale l’Ufficio rettifica il reddito mediante l’analisi di singole voci, specifici elementi (art. 39, comma 1, DPR 600/73); l’accertamento analitico-induttivo presuppone anch’esso la presentazione della dichiarazione fiscale della quale l’Ufficio rettifica il reddito individuando l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate sulla base di presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti (art. 39, comma 1, let. d, DPR 600/73); l’accertamento induttivo presuppone invece alcune gravi anomalie quali la mancata indicazione del reddito d’impresa in dichiarazione, la sottrazione delle scritture contabili all’ispezione, la gravità e la numerosità delle irregolarità delle scritture contabili ecc. che consentono all’Ufficio di rideterminare il reddito del contribuente sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili, mediante utilizzo delle presunzioni semplici, vale a dire prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Nel caso di omessa presentazione della dichiarazione o di dichiarazione nulla, l’Ufficio procede alla determinazione del reddito mediante il cd. accertamento d’ufficio. In questo caso l’accertamento è sostitutivo della dichiarazione e il reddito viene determinato induttivamente, vale a dire presuntivamente, sulla scorta dei dati e delle notizie comunque reperiti dall’Ufficio. Ci si rende conto di come l’accertamento analitico, voce per voce, è quello che più di tutti potrebbe “smascherare” il contribuente: esso viene solitamente emesso successivamente ad una istruttoria che si fonda su specifici rilievi mossi dai verbalizzanti dell’Agenzia delle Entrate o dai militari della Guardia di Finanza in sede di accessi, ispezioni o verifiche. In altri termini il personale dell’Agenzia delle Entrate o i militari della Guardia di finanza si recano presso la sede del contribuente, esaminano i libri contabili, chiedono informazioni, contestano violazioni formali e sostanziali di norme tributarie dandone conto giornalmente nei processi verbali di verifica i quali, alla fine dell’attività di controllo, vengono compendiati nel processo verbale di constatazione. Sulla base di quest’ultimo atto istruttorio l’Ufficio emette l’avviso di accertamento. Più l’accertamento è analitico, più le contestazioni sono puntuali, più diventa difficile per il contribuente difendersi in sede giurisdizionale. E’ ovvio quale sia, però, il rovescio della medaglia: l’accertamento analitico impone dei costi elevatissimi in quanto i funzionari dell’Agenzia delle Entrate o i militari della Guardia di Finanza devono concentrare il proprio lavoro, su di un unico contribuente. E’ evidente che l’accertamento analitico non può che rappresentare l’eccezione: la regola è diventata, ormai da decenni, l’accertamento analitico-induttivo. Ed infatti, a seguito della riforma tributaria degli anni settanta, dalla quale conseguì un aumento esponenziale degli obblighi formali e documentali, furono introdotti, a partire dagli anni novanta metodi forfetari e presuntivi di accertamento del reddito: coefficienti di congruità, coefficienti presuntivi, minimum tax, parametri contabili, studi di settore. Proprio questi ultimi, ancor oggi operanti, sono stati introdotti dal D.L. 331/1993 convertito in Legge 427/1993 ed utilizzati, a seguito di successive proroghe, a partire dal periodo d’imposta 1998. Cosa sono e a che servono Ai sensi dell’art. 62-sexies, comma 3, D.L. n. 331/1993, “Gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni, e 54 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili (…) dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’articolo 62-bis del presente decreto”. Gli studi di settore sono quindi una modalità di accertamento analitico-induttivo dei ricavi delle imprese o dei compensi dei professionisti. Esso accertamento viene esperito nei confronti di quei contribuenti che non hanno raggiunto la congruità stabilita dallo studio di settore di appartenenza. Ciò significa che se il contribuente dichiara meno ricavi o compensi rispetto a quelli attesi (fondatamente desumibili) dal proprio studio di settore, l’Ufficio può rideterminare gli imponibili fiscali ai fini delle imposte dirette ed indirette e quindi le maggiori imposte che ne conseguono, in ragione della somma di ricavi non dichiarati. (Es: ricavo atteso dallo studio 100; ricavo dichiarato dal contribuente 80; differenza da recuperare a tassazione 20). Lo studio di settore prevede, oltre al parametro della congruità, quello della coerenza (ad es: indice di rotazione del magazzino; incidenza dei costi sui ricavi; produttività per addetto ecc.). Nel caso in cui il contribuente non sia in linea con i parametri della coerenza, può essere sottoposto ad accertamento (di solito diverso da quello da studio di settore) pur in presenza di ricavi congrui. In tal caso lo studio di settore svolge una funzione selettiva dei contribuenti che possono essere accertati. Ad esempio, di solito, dall’incoerenza dell’indice di rotazione del magazzino l’Ufficio fa discendere una presunzione di sottofatturazione o vendita senza emissione dello scontrino. Come nascono Gli studi di settore vengono realizzati rilevando, per ogni singola attività economica, ed in contraddittorio tra Amministrazione Finanziaria, associazioni di categoria e ordini professionali, le relazioni esistenti tra le variabili economiche, strutturali e contabili di gruppi omogenei di contribuenti (cd. cluster). Le variabili possono essere interne: il processo produttivo, l’area di vendita, il numero di addetti impiegati, i consumi, le merci vendute, ecc. o esterne: il livello dei prezzi, la concorrenza, ecc. I dati di cui si è fatto cenno vengono elaborati dal software cd. Ge.ri.co. che, tramite funzioni matematico-statistiche, calcolano i cd. ricavi puntuali, vale a dire quei ricavi che tutti i contribuenti rientranti nel cluster dovrebbero essere in grado di produrre, in ragione delle loro caratteristiche strutturali comuni. Ge.ri.co. dunque individua sia i ricavi il cui raggiungimento attribuisce la congruità al contribuente, sia il ricavo minimo ammissibile. Lo “spazio” che intercorre tra ricavo puntuale e ricavo minimo è detto intervallo di confidenza della cui utilità si dirà avanti. Una volta costruito, lo studio di settore deve essere inviato ad una Commissione di esperti per la cd. validazione. Qualora la stessa dia parere favorevole, lo studio di settore viene definitivamente approvato con apposito decreto che è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Gli studi già approvati sono soggetti, al massimo ogni tre anni, a revisione. La territorialità Tra i fattori che gli studi di settore tengono (o dovrebbero) tenere in considerazione nel processo di determinazione dei ricavi o compensi puntuali, vi è la cd. territorialità. E’ agevolmente comprensibile che la capacità di produrre ricavi o compensi è strettamente correlata al luogo di svolgimento dell’attività. In sostanza, quando si parla di territorialità, ci si riferisce a variabili economiche legate al territorio quali: il livello dei prezzi; le infrastrutture esistenti e utilizzabili, la capacità di spesa, la tipologia dei fabbisogni. Per questo motivo il territorio italiano è stato suddiviso in cinque aree territoriali: 1) aree con livello di benessere elevato, istruzione superiore, sistema economico locale organizzato; 2) aree con livello di benessere non elevato, bassa scolarità, sistema economico locale poco sviluppato e basato prevalentemente su attività commerciali; 3) area ad elevata urbanizzazione con notevole grado di benessere, istruzione superiore e servizi terziari evoluti; 4) aree caratterizzate dalla presenza di piccoli comuni con organizzazione artigianale e livello di benessere medio; 5) aree di marcata arretratezza economica, basso livello di benessere e scolarità poco sviluppata. Sono stati istituiti Osservatori Regionali aventi lo scopo di monitorare la situazione economica di ogni singolo territorio. Tuttavia è facilmente dimostrabile che tale variabile non è presa in seria considerazione dagli studi di settore. Sovente accade, infatti, che fra i ricavi attesi da uno studio di settore calcolato su Rieti ed uno calcolato su Milano, ovviamente utilizzando gli stessi dati contabili ed extracontabili, vi sia nessuna o pochissima differenza. Il che significa che per lo studio di settore, svolgere l’attività a Rieti o a Milano non fa poi così differenza. E questo vuol dire che nelle zone meno sviluppate il Fisco, in proporzione, esige di più di quanto chiede nelle zone più sviluppate. Valenza probatoria Nel caso in cui il contribuente abbia dichiarato ricavi inferiori a quelli attesi dallo studio ha tre possibilità: o si adegua spontaneamente al ricavo o compenso puntuale, con conseguente determinazione di maggiori imposte dirette, Iva ed Irap, sottraendosi così all’accertamento da studi di settore, o si adegua ad un ammontare di ricavi compreso nell’intervallo di confidenza o non si adegua. In questi due ultimi casi, occorre comprendere se lo scostamento dal ricavo puntuale integra gli estremi di una presunzione legale relativa in forza della quale è a carico del contribuente l’onere della prova circa la veridicità dei ricavi dichiarati. In altri termini occorre comprendere se, per l’Amministrazione Finanziaria, ai fini della soddisfazione dell’onere della prova, sarà sufficiente affermare: non hai raggiunto il ricavo puntuale, ti ricalcolo gli imponibili e le imposte secondo i parametri dello studio di settore e ti irrogo sanzioni dal 100% al 200% dell’imposta evasa. Perché se così fosse, dovrebbe essere il contribuente ad addurre, prima nella fase procedimentale poi in quella processuale, elementi giustificativi dello scostamento. Parimenti, se esso scostamento dovesse essere letto come presunzione grave, precisa e concordante atta a dimostrare l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate, dovrebbe essere il contribuente a convincere i giudici della veridicità dei ricavi dichiarati. Il riparto dell’onere probatorio sarebbe a favore del contribuente solo nel caso in cui quello scostamento venisse considerato come presunzione semplice e come tale inidoneo a fondare l’accertamento. In tal caso l’Amministrazione Finanziaria dovrebbe sostenere la propria pretesa aggiungendo al mero indizio dello studio altri elementi indicativi della ritenuta condotta evasiva del contribuente. In ordine a tale problematica la Suprema Corte, sposando gli orientamenti giurisprudenziali delle Commissioni di merito, è stata quasi unanime nel considerare lo scostamento dal ricavo puntuale come mera presunzione semplice. Qualche isolata pronuncia dei giudici di legittimità, tuttavia, lo ha considerato presunzione relativa. Sono così intervenute, da ultimo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali, con sentenza n. 26635 del 18.12.2009, hanno affermato che “Gli studi di settore, pur costituendo fuor di dubbio uno strumento più raffinato dei parametri (…) restano tuttavia una elaborazione statistica , il cui frutto è una ipotesi probabilistica, che, per quanto seriamente approssimata, può solo costituire una presunzione semplice”. Non è difficile prevedere che a seguito di questa sentenza gli accertamenti del fisco saranno composti, utilizzeranno cioè le risultanze degli studi di settore unitamente ad altri indici di capacità contributiva.
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