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UNA CHIMERA CHIAMATA MEDIAZIONE Miraggi e illusioni sulla via della riduzione del contenzioso civile 14/05/2010 - Gianluca Ludovici (Rieti) Il piano di recente riforma del processo civile, pur trovando nella Legge 69/2009 il momento più alto e significativo, non può tuttavia essere confinato entro i limiti di tale atto normativo, atteso che parte delle modifiche introdotte troverà concreta attuazione attraverso successivi decreti ( delegati ) emanati dal Governo e di cui è traccia al Capo IV della citata legge. Ultimo in ordine di tempo è proprio il D.Lgs. 28/2010, con cui il Parlamento ha reso obbligatorio, nel nostro ordinamento processualcivilistico, il ricorso a quel particolare strumento di soluzione delle controversie civili e commerciali ( al di fuori della giurisdizione dello Stato ), che prende il nome di mediazione. La ratio dell’introduzione del “nuovo” istituto processuale è di facile intuizione: ancora una volta, si vogliono rendere operativi meccanismi deflativi del contenzioso civile, che possano indirettamente incidere in modo positivo sui tempi di soluzione delle liti, liberando i giudici dall’eccessivo carico di lavoro e consentendo loro di dedicarsi ad un più esiguo numero di cause da istruire e decidere più celermente ( il Legislatore perseguiva tale risultato anche quando istituì l’Ufficio del Giudice di Pace, ma le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti … ). In particolare, qui il tentativo di riduzione dei tempi necessari ad ottenere una soluzione della controversia non avviene all’interno dell’iter processuale, ma opera ancor prima che venga varcata la soglia dell’Ufficio Giudiziario, ponendo davanti ad essa il banco di prova della ricerca di una composizione in via stragiudiziale. La considerazione secondo cui una giustizia realizzata in tempi irragionevoli sia una giustizia in gran parte indebolita, non può che trovare d’accordo chiunque sia dotato di un minimo buon senso; c’è da chiedersi, però, se la mediazione appaia, quanto meno, una soluzione sensata? Per rispondere alla domanda in maniera convincente dovrà necessariamente tenersi conto di alcuni elementi pratici e normativi di particolare interesse. Prima di tutto occorre sgombrare il campo da eventuali fraintendimenti terminologici: con l’espressione “mediazione” si indica lo strumento attraverso il quale si cerca di comporre una disputa, mentre con “conciliazione” si individua il risultato al cui conseguimento è astrattamente preordinata la prima. Tra i due concetti, pertanto, si instaura un rapporto di tipo teleologico, in cui il primo è il mezzo ed il secondo il fine. Ma vi è di più: l’istituto di cui al D.Lgs. 28/2010 è strutturato in modo tale che, anche in caso di mancato raggiungimento di un accordo in prima battuta, possa sempre pervenirsi alla formulazione di una proposta sulla quale ogni parte potrà dirsi favorevole o meno. Tale proposta, laddove non condivisa da entrambi i contendenti, produrrà comunque degli effetti. Il rifiuto di addivenire ad una soluzione sulla base delle indicazioni del mediatore, infatti, inciderà sul tema delle spese processuali, nel senso che: a) qualora la futura ed eventuale sentenza corrispondesse interamente al contenuto della proposta, il giudice dovrebbe escludere la ripetizione delle spese ( riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa ) sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, nonché condannare al rimborso di quanto pagato dalla parte soccombente ( sempre in relazione allo stesso periodo ) ed al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di un'ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto; b) qualora la futura ed eventuale sentenza, invece, non corrispondesse interamente al contenuto della proposta, il giudice, in ragione dell’esistenza di gravi ed eccezionali motivi, potrebbe escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l'indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all'esperto di cui all'art. 8, comma IV del predetto decreto attuativo. Sempre nell’ottica di scongiurare possibili equivoci, va segnalato come la collocazione dell’istituto de quo fuori dalla sede giudiziale, nonché il modus operandi e l’efficacia che la caratterizzano, consentano di affiancarla alla ( e non di confonderla con la ) “proposta conciliativa” cui fa riferimento l’art. 91, comma II ( secondo periodo ) c.p.c.; quest’ultima, infatti, per ragioni di ordine sistematico e cronologico ( la detta disposizione è stata riformulata prima dell’entrata in vigore della normativa in tema di mediazione ), deve essere intesa come attività riconducibile necessariamente entro i confini del processo e, più precisamente, all’opera prestata dall’organo giudicante nella fase preliminare della causa. Da quanto sin qui detto, si comprende come la mediazione non costituisca un’ipotesi di soluzione della lite attraverso l’applicazione delle norme; il mediatore, per quanto doverosamente terzo ed imparziale, non si sostituisce mai al giudice, anticipandone la giurisdizione, ma ricerca, d’accordo con le parti che ad esso si sono rivolte, una composizione amichevole della vicenda, la quale tenga conto degli interessi perseguiti dalle stesse. Nella mediazione non c’è ( e non ci può essere, per ovvi motivi desumibili pure dal nomen iuris ) un vincitore o un soccombente; se essa ha effetto e si raggiunge la conciliazione stragiudiziale della querelle, questa non avviene alla stregua del paradigma normativo, bensì alla luce della regola elaborata hic et nunc per quel caso di specie e solo per quello ( ciò, logicamente, non vuol dire che, qualora vengano soddisfatte le concrete esigenze delle parti, la soluzione trovata per un determinato caso non possa essere replicata in altre analoghe ipotesi ). Tale caratteristica differenzia sostanzialmente l’istituto in esame dagli altri strumenti tipici dell’A.D.R. system ( alternative dispute resolution: si pensi all’arbitrato, all’A.B.F., al tentativo di conciliazione in materia laburistica, etc… ), all’interno del quale deve comunque essere dogmaticamente ricondotto. Quanto all’equidistanza del mediatore dai contendenti, va, infine, precisato come la mediazione non sia una procedura di negoziazione volontaria e paritetica, né una di quelle procedure di reclamo previste dalle varie carte dei servizi; il ricorso a queste ultime viene fatto salvo dal decreto legislativo in argomento, con una clausola di salvaguardia che dovrebbe intendersi operante anche sul piano della distinzione concettuale degli istituti de quibus. Passando all’analisi ( critica ) del testo normativo, la mediazione non si palesa sempre e comunque obbligatoria. L’imposizione opera solo per le materie tassativamente indicate dall’art. 5 D.Lgs. 28/2010, ovvero qualora la controversia da risolvere verta in materia di: a) condominio ( in senso lato, senza i distinguo che sono alla base della ripartizione di competenza tra Giudice di Pace e Tribunale ); b) i diritti reali; c) le divisioni; d) le successioni ereditarie; f) i patti di famiglia; g) la locazione; h) il comodato; i) l’affitto di aziende; l) il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti; m) il risarcimento del danno da responsabilità medica; n) il risarcimento del danno da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità; o) i contratti assicurativi; p) i contratti bancari e finanziari ( per questi ultimi, in assenza di espresse puntualizzazioni normative, riterrei che l’obbligo di tentativo di soluzione stragiudiziale della querelle venga assolto con il ricorso a quell’altro semisconosciuto strumento che prende il nome di Arbitro Bancario Finanziario ). Per tutte le altre materie, non sussiste alcun obbligo giuridico, ma una semplice facoltà di adire in via preventiva gli organi di mediazione, onde tentare la soluzione della controversia al di fuori della giurisdizione. In generale, poi, come pure accade per il procedimento arbitrale di cui agli artt. 806 e ss. c.p.c., l’unico limite che impedisce l’accesso all’istituto de quo è dato dalla natura del diritto controverso; allorquando la situazione giuridica soggettiva vantata ed affermata da una delle parti della lite sia qualificabile come diritto indisponibile, essa non potrà mai essere conosciuta dal mediatore ai fini della ricerca di una soluzione al caso di specie e ciò in ragione proprio della impossibilità di disporre del diritto, tanto sul piano sostanziale, quanto su quello processuale. Il diritto deve ritenersi indisponibile quando lo stesso, seppur imputabile ad un dato soggetto dell’ordinamento giuridico, non sia da quest’ultimo esclusivamente negoziabile, ovvero il relativo titolare non può alienarlo, cederlo, rinunciarlo o transigerlo. La precisazione del Legislatore, pertanto, appare superflua ( se non tautologica ), se si pone mente, pure, al fatto che l’indisponibilità della situazione giuridica in argomento rende sempre necessaria la presenza del P.M. in sede giudiziale. Ulteriore limite è quello di carattere prettamente processuale: nonostante la disputa abbia ad oggetto una delle materie sopra indicate, non sarà ravvisabile alcun obbligo di ricorso alla mediazione: a) nel procedimento per ingiunzione ( incluse anche le ipotesi di opposizione ); b) nei procedimenti di convalida di licenza e di sfratto, almeno fino al mutamento del rito ex art. 667 c.p.c.; c) nei procedimenti possessori; d) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata; e) nei procedimenti in camera di consiglio; f) nell’azione civile esercitata nel processo penale. Non viene citato il procedimento ex artt. 702 bis e ss. c.p.c. e la mancanza, ammesso che sia volontaria, lascia perplessi; mal si comprende, infatti, l’esclusione di quel processo sommario di cognizione che, creato ex novo dal Legislatore del 2009, ha il dichiarato scopo di giungere a decisioni giudiziali in tempi ridotti, con ciò assolvendo anch’esso ad un compito deflativo del contenzioso civile, almeno in relazione a quello introdotto in giudizio nelle forme del processo ordinario. L’obbligatorietà della procedura conciliativa, inoltre, viene espressamente esclusa in ordine alle azioni previste dagli artt. 37 ( azione inibitoria ), 140 ( azione a tutela degli interessi collettivi dei consumatori ) e 140-bis ( azione di classe ) del codice del consumo, di cui al D.Lgs. 206/2005 e successive modificazioni. Tanto esposto, va chiarito che l’obbligo giuridico di preventivo esperimento della mediazione si traduce in termini essenzialmente processuali e, più precisamente, in una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la cui carenza dovrà essere rilevata dalla controparte ( ovviamente la parte convenuta! ) o dal giudice entro e non oltre la prima udienza; ne deriva che chi voglia ottenere il riconoscimento giudiziale di un proprio ( asserito ) diritto è tenuto preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione ai sensi del decreto legislativo in esame oppure il procedimento di conciliazione previsto dal D.Lgs. 179/2007 ( istituzione di procedure di conciliazione e di arbitrato, sistema di indennizzo e fondo di garanzia per i risparmiatori e gli investitori in attuazione dell'articolo 27, commi 1 e 2, della legge 28 dicembre 2005, n. 262 ) ovvero il procedimento istituito in attuazione dell'articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al D.Lgs. 385/1993 e ss. modificazioni ed integrazioni, per le materie ivi regolate. Al momento attuale, però, non esistono le adeguate strutture per l’assolvimento dell’obbligo imposto dal Legislatore del 2010; il D.Lgs. 28/2010 procrastina de facto l’esperibilità del procedimento in questione alla data ( 12 mesi dall’entrata in vigore dello stesso ) in cui sarà già stato presuntivamente istituito l’apposito registro cui dovranno iscriversi gli organismi ( pubblici e privati ) che abbiano predisposto regolamenti procedurali, albi di mediatori e, non ultimi, locali, necessari a consentire l’esercizio della funzione conciliativa. L’obbligatorietà, tuttavia, non si arresta al solo campo processuale; essa porta con sé un ulteriore dovere, quello per gli avvocati di notiziare il cliente, intenzionato ad adire l’organo giurisdizionale precostituito, circa la possibilità di risolvere la questione controversa in sede stragiudiziale, accedendo ai soggetti deputati a svolgere la mediazione ed a ricercare una conciliazione. L’obbligo viene concretamente adempiuto in due momenti: in primis, specificando, nel mandato conferito al difensore, che la parte è stata resa edotta della possibilità - doverosità ( a seconda dei casi ) di fare ricorso alla mediazione ( analogamente a quanto accade per l’autorizzazione all’utilizzo dei dati personali ); in secondo luogo, allegando, nel fascicolo di parte che dovrà depositarsi in cancelleria al momento della costituzione, una dichiarazione di scienza proveniente dalla parte sostanziale e da essa sottoscritta, circa gli obblighi di legge in tema di mediazione ( ivi compresa l’esistenza di incentivi fiscali ), dichiarazione autenticata dal relativo procuratore ( modelli esemplificativi di mandato e dichiarazione di scienza sono stati già elaborati dal Consiglio Nazionale Forense e divulgati ai singoli C.O.A. ). La violazione del dovere informativo gravante sull’avvocato in favore del proprio cliente comporta l’annullabilità ( e ragionevolmente non più la nullità, adombrata nel progetto iniziale ) del rapporto professionale. Così facendo, il Legislatore ha manifestato un pregiudizio nei confronti degli avvocati, ha espresso una “sorta” di presunzione di esclusiva responsabilità in capo agli stessi, per quelli che, in realtà, sono mali atavici della giustizia italiana, con radici che affondano essenzialmente nelle storture del sistema sociale e culturale, nonché in comportamenti individuali di alcuni operatori del diritto, non certo emblema di intere categorie. Il proliferare del contenzioso civile non è colpa attribuibile ai difensori, né l’eccessivo allungamento dei tempi di soluzione giudiziale delle controversie è evento riconducibile alle sole condotte poste in essere, in buona fede, dai membri dell’Avvocatura. Gli effetti che la mediazione produce sull’eventuale e futuro giudizio non si arrestano, però, alla sola condizione di procedibilità. La cosiddetta “domanda di mediazione” ( da proporre in forma libera, purché contenga l’indicazione dell’organismo adito, delle parti, dell’oggetto e delle ragioni di fatto e di diritto che supportano la richiesta ) viene assimilata, quanto ad efficacia interruttiva della prescrizione del diritto vantato, alla vera e propria domanda giudiziale. Altra analogia è da rinvenirsi in ordine alla possibilità che si verifichino situazioni di litispendenza: in caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolgerà davanti all’organismo presso il quale è stata presentata per prima l’istanza di mediazione, dovendo precisarsi che, come accade per i casi di cui all’art. 39 c.p.c., il tempo della domanda sarà individuato con la data della ricezione della comunicazione. L’esperimento della procedura in esame, poi, comporta notevoli preclusioni persino in campo istruttorio. Sotto quest’ultimo profilo, l’art. 10 D.Lgs. 28/2010 appare salvifico dei principi di mera logica e della più elementare civiltà giuridica: da un lato, infatti, si sancisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese o delle informazioni acquisite all’interno della procedura conciliativa, relativamente al processo che abbia identico ( anche in parte ) oggetto rispetto alla mediazione ( qui la mente corre ai casi di più o meno parziali ammissioni di responsabilità da parte di uno dei contendenti ) e che sia iniziato, riassunto o proseguito dopo il fallimento di quest’ultima ( ciò, tuttavia, a meno che non vi sia il consenso - da ritenersi espresso, ma non necessariamente in forma scritta, e pur sempre libero - del dichiarante o dell’informatore ); dall’altro, invece, è prevista l’inammissibilità dei mezzi istruttori della prova per testi e del giuramento decisorio, sempre qualora, ovviamente, essi abbiano ad oggetto le predette dichiarazioni ed informazioni. Il mediatore, inoltre, è equiparato, ai fini di un’eventuale deposizione in giudizio o davanti ad altra autorità, al titolare del segreto professionale e come tale non è obbligato a rendere dichiarazioni circa i fatti di cui abbia avuto conoscenza in ragione del suo ufficio, potendo validamente opporre l’esistenza di un rapporto qualificato e giuridicamente protetto tra sé e l’oggetto della propria conoscenza. Deve ritenersi, inoltre, che ove il mediatore non intenda avvalersi di una simile facoltà, la sua condotta, in sede di dichiarazioni all’Autorità Giudiziaria, non possa comunque integrare, la fattispecie penalmente rilevante di cui all’art. 622 c.p. ( rivelazione del segreto professionale ). Venendo al procedimento in senso stretto, una significativa analogia può rinvenirsi, a parere di chi scrive, con l’arbitrato amministrato: la disciplina dettata dal decreto di attuazione de quo è una regolamentazione di contorno, quanto alla procedura conciliativa vera e propria, che lascia buoni margini di discrezionalità alla volontà normativa del singolo organismo di gestione della mediazione. Ogni organismo, infatti, potrà predisporre il proprio regolamento ( pur sempre garante della riservatezza ed idoneo ad assicurare l’imparzialità del mediatore ) alla stregua di quanto accade per i regolamenti degli arbitrati di cui agli art. 832 e ss. c.p.c., purché le norme procedurali “private” non siano in contrasto con i limiti tradizionali dell’ordinamento giuridico, ovvero con i principi costituzionali, con le discipline cogenti e con le norme inderogabili. Saranno proprio tali regolamenti, nel silenzio della legge, a dover disciplinare aspetti molto importanti, quali, ad esempio, quelli della incompatibilità, della sostituzione e della ricusazione dei mediatori; ne consegue che sarà di preminente interesse la conoscenza preventiva, da parte del difensore o semplicemente della parte sostanziale ( che non è obbligata a farsi rappresentare e difendere da un avvocato dinanzi al mediatore ), dello specifico regolamento predisposto dall’organismo di mediazione, onde evitare incertezze e spiacevoli conseguenze. Similmente a quanto previsto per i lodi ( rituali ) pronunciati dall’ente che amministra l’arbitrato ( più in generale per tutti i lodi rituali ex art. 824 bis c.p.c. ), la spendibilità in executivis del verbale contenete la conciliazione raggiunta mediante la mediazione è espressamente subordinata alla procedura di omologazione da parte del Presidente del Tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo adito, procedura che, laddove sia stata riscontrata la regolarità formale e sostanziale del verbale stesso, si concluderà con un atto che avrà la forma del decreto. Concludendo, la scelta del Legislatore, a ben vedere, appare quanto meno discutibile. Il tentativo di escogitare sistemi più o meno nuovi, più o meno astrattamente efficaci, diretti a ridurre il numero delle controversie che varchino la soglia delle aule di giustizia non è, come ritenuto da alcuni, privo di conseguenze potenzialmente negative. Personalmente ritengo che le illusioni abbiano sempre un costo che, considerata l’impalpabile consistenza delle stesse, si paga in termini di disillusione e delusione, talvolta con effetti ancora peggiori di quelli già prodotti dai mali originari. Far passare il messaggio che vuole la mediazione come una soluzione garantita di riduzione del contenzioso civile e, indirettamente, di buona parte dei mali della giustizia italiana, è un’operazione che, in realtà, oltre ad apparire non propriamente onesta dal punto di vista intellettuale, rischia di ingenerare forti ( ed ingiustificate ) aspettative. Si tratta di una valutazione prettamente tecnica e personale, si tiene a precisarlo, che si fonda essenzialmente su casi empirici e su una valutazione prognostica del fenomeno. L’impressione che si ha è quella di un intervento normativo che, per ovviare agli insuccessi dei suoi predecessori in tema di acceleramento dei tempi dei processi civili, i quali introducevano istituti diretti ad operare all’interno del processo, questa volta il medesimo risultato si stia cercando di conseguire anticipando il giudizio, favorendo soluzioni di compromesso ( si badi bene, assolutamente legittime! ) distanti dall’applicazione al caso di specie delle norme di diritto. I vantaggi, a dire il vero, appaiono di solo carattere fiscale: il decreto di attuazione parla espressamente di esenzione dall’imposto di bollo per tutti gli atti ed i documenti relativi al procedimento, nonché del verbale di accordo entro il limite del valore di € 50.000,00 ( la parte eccedente sarà sottoposta ad imposta ). Questo non vuol dire, però, che la procedura sia a costo zero: in ogni caso, le parti dovranno un’indennità all’organismo che ha amministrato la mediazione, il quale, a sua volta, garantirà al mediatore l’onorario per la sua attività. Sarà riconosciuto ai contendenti, in ipotesi di successo della mediazione, un credito di imposta commisurato all’indennità stessa, sino alla concorrenza di € 500,00; in caso di insuccesso, il credito di imposta verrà dimidiato. Se la scelta operata con l’art. 60 della Legge 69/2009, prima, e con il D.Lgs. 28/2010, poi, sia corretta e frutto di una lungimirante valutazione, è questione opinabile sulla quale ognuno, in attesa del dato empirico, potrà pronunciarsi liberamente; al contrario ciò su cui non può davvero dubitarsi è che vi sia una contraddizione di fondo nelle linee-guida che indirizzano l’azione del Legislatore. E’ circostanza nota a tutti come il recente intervento normativo che ha preso il nome di “Collegato lavoro” ( in quanto provvedimento collegato alla legge finanziaria 2009 ), nel testo approvato al Senato ( D.D.L. 1167 B ) ed ora di nuovo all’attenzione delle Camere ( per essere stato a queste ultime rinviato dal Presidente della Repubblica, a causa delle preoccupazioni che ingenerava l’arbitrato in materia di risoluzione del contratto di lavoro ), abbia eliso l’obbligatorietà del ricorso al preventivo tentativo di conciliazione dinanzi agli uffici della Direzione Provinciale del Lavoro, configurando quest’ultima come procedura facoltativa ( art. 31, comma I ), ad eccezione delle ipotesi di controversie in tema di “certificazione della qualificazione da dare al contratto di lavoro”, di cui al Titolo VIII del D.Lgs. 276/2003 ( art. 31, comma II ). Se l’interesse dell’ordinamento processuale civile è quello di non essere sovraccaricato di contenzioso, come pure confermato proprio dal D.Lgs. 28/2010, non si comprende quale coerenza sia sottesa alle scelte del Legislatore che, da un lato, rende obbligatoria la mediazione per quelle materie in cui è davvero arduo ipotizzare soluzioni stragiudiziali ( eccezion fatta, forse, per il risarcimento danni prodotti dalla circolazione stradale ), e, dall’altro, cancella la necessità di un preventivo tentativo di conciliazione nel settore laburistico, in cui, stante la preminente rilevanza del dato economico, sarebbe in potenza più facile pervenire ad accordi. Alla luce di quanto esposto e rilevato, la mediazione sembra poter davvero funzionare esclusivamente laddove abbia natura facoltativa; solo in questo modo, infatti, le parti che, libere da qualsiasi vincolo di legge, decidessero di provare a risolvere la querelle lontano dal banco del giudice, darebbero ab origine dimostrazione di quella necessaria buona volontà che è presupposto indefettibile della risoluzione della lite in sede stragiudiziale.
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