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Forum 22

Le investigazioni difensive

A dieci anni dalla legge 7 dicembre 2000 n. 397


07/10/2010 - Marco Arcangeli


(Rieti)  

A distanza di un decennio dall’introduzione nel codice di rito di norme organiche sulle investigazioni difensive, codificate nel Titolo VI bis del Libro V del codice di procedura penale, appare opportuno tracciare un breve bilancio volto soprattutto all’analisi della prassi, in specie giurisprudenziale, che sinora si è instaurata in materia.

Lo spunto è tratto dall’ottimo lavoro, denominato “Raccolta di informazioni, casi e giurisprudenza”, realizzato nel corso dell’ultimo anno dall’Osservatorio per le Investigazioni Difensive istituito in seno all’Unione delle Camere Penali Italiane, presieduto dall’Avv. Andrea Perini, a cui partecipa, quale membro effettivo, la nostra Collega Morena Fabi.

Le finalità primarie dell’attività dell’Osservatorio sono quelle di far emergere un insieme di informazioni, prassi e giurisprudenza, derivanti dall’esperienza personale di ogni avvocato che, per ovvie ragioni di riservatezza, il più delle volte non vengono rese a disposizione della collettività forense.

 Si è così partiti da un’indagine statistica, la cui elaborazione è stata condotta in collaborazione con l’Università di Bologna, a cui hanno partecipato circa 750 avvocati penalisti tramite la compilazione di un questionario anonimo.

Sin dal primo dato, relativo all’equazione tra lo svolgimento delle investigazioni difensive e l’obbligo deontologico da adempiere nel caso in cui vi sia l’opportunità di agire in tal senso (in conformità alle “regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive” approvate dal Consiglio delle Camere Penali nel 2001), si può evidenziare che molta strada sul piano culturale è stata percorsa ma non si è giunti ancora al traguardo.

La maggioranza degli interpellati (circa il 60%), infatti, ritiene che se opportuna nell’ottica della linea difensiva adottata, solo “talvolta” l’attività di indagine possa costituire un obbligo professionale, mentre quasi il restante 40% la ritiene imprescindibile.

Segue la sub-analisi in merito alle difese di ufficio: orbene, dato che può sorprendere solo i non addetti ai lavori, la stragrande maggioranza (oltre il 65%) di coloro che hanno risposto alla domanda sullo svolgimento di dette investigazioni in favore di soggetti difesi di ufficio lascia emergere di non aver mai svolto un siffatto adempimento pur quando, è da supporre, ne sia stata avvertita l’esigenza.

Le cause dell’inattività sono essenzialmente da ricercarsi nell’assenza di disponibilità economica e finanche nell’impossibilità di valutare appieno la direzione di dette indagini allorquando non vi sia, come in una percentuale significativa dei casi, alcun contatto con l’assistito.

E’ però indubbio come per questa specifica problematica vi sia ancora da lavorare molto, anche in prospettiva di riforma, onde poter affermare la perfetta parità di livello professionale tra la difesa fiduciaria e quella di ufficio.

Circa l’eventuale utilizzo di investigatori privati in ausilio al difensore, oltre il 60% delle risposte è di segno negativo, in prima ipotesi per i notevoli costi economici da sostenere ma anche a causa di una certa sfiducia in merito da parte della giurisprudenza che tende a censurare come inutilizzabili le dichiarazioni raccolte dall’investigatore anziché dal difensore.

Sulla cosiddetta “ritrosia” del testimone, circa il 60% degli intervistati non ha dato seguito alle investigazioni difensive, evitando cioè di rivolgersi al P.M. ovvero presentando richiesta di incidente probatorio.

Sul punto può evidenziarsi una certa diffidenza dell’avvocatura nel ricorrere all’autorità giudiziaria percepita (spesso a proposito) come un avversario che in tali casi verrebbe giocoforza a conoscenza anticipata delle linee difensive e di quanto già raccolto dalla difesa nel campo probatorio.

Ciò valga a maggior ragione in caso di svolgimento di indagini all’estero, dal momento che le prime pronunce giurisprudenziali propendono per la necessità di ricorrere alla rogatoria internazionale.

L’indagine prosegue e si conclude con la problematica dell’accesso agli atti della Pubblica Amministrazione, attività disciplinata dall’art. 391 quater c.p.p..

Innanzitutto viene esaminato il comportamento della P.A. in caso di istanza di accesso, ed in particolare circa l’eventuale informativa da parte dell’ufficio al controinteressato, evidente retaggio di una mentalità burocratica di tipo amministrativo che stride con le finalità delle indagini difensive e con l’insita segretezza delle stesse.

I dati in merito sono confortanti: una larga maggioranza di coloro che hanno avanzato richiesta di copie di documenti rispondono di non aver riscontrato tale fenomeno di “integrazione del contraddittorio”, sebbene oltre un quinto del campione risponde sul punto in senso positivo.      

E di seguito: nell’ipotesi di silenzio o di rigetto dell’istanza di accesso la maggioranza degli intervistati non ha ritenuto di ricorrere in via gerarchica ovvero mediante ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale a causa dell’incompatibilità di tempi e costi dei ricorsi amministrativi con le esigenze difensive nonché, aspetto forse ancor più rilevante, per la necessità in tali casi di notiziare il controinteressato, anche d’ufficio, così svuotando l’indagine di ogni utilità.

            A tacere del fatto che con la consueta ritrosia e diffidenza per l’agire della difesa, alcune opinioni della giustizia amministrativa propendono per l’inammissibilità per carenza di giurisdizione del ricorso in via amministrativa avanzato nella fase delle indagini preliminari, quasi che il rimedio alternativo dell’istanza di sequestro rivolto al P.M., la cui valutazione rimane tra l’altro insindacabile, possa essere sufficiente ad ovviare alla ricorrente ostilità della Pubblica Amministrazione in materia.

            E’ questo un ulteriore aspetto che evidenzia come si sia purtroppo ancora molto lontani dall’effettiva parità tra accusa e difesa, allorquando le attività del P.M. sono destinate a restare coperte dal segreto istruttorio a differenza di quelle difensive.

            Compiuta la breve analisi della percezione della normativa e della prassi applicativa in seno all’avvocatura, appare opportuno procedere alla casistica giurisprudenziale in materia.

            Sulla disciplina del colloquio informale, particolare rilevanza assume innanzitutto la necessità di procedere esplicitamente agli avvertimenti di cui al III comma dell’art. 391 bis pena, in difetto di analitica documentazione della relativa verbalizzazione, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni acquisite (Cass. Pen. Sez. feriale, 25-07-2003), “non potendosi ritenere sufficiente la mera attestazione, da parte dello stesso difensore, secondo quanto previsto dall’art. 391 ter comma 1 c.p.p., dell’avvenuta effettuazione dei suddetti avvertimenti” (Cass. pen. Sez. III , 15-07-2003).

            Oltre all’obbligo di interrompere l’attività di raccolta informativa in caso di dichiarazioni indizianti da parte dell’indagato, la giurisprudenza della Suprema Corte sancisce l’inutilizzabilità contra se ma anche erga alios di quanto detto da colui che sin dall’inizio avrebbe dovuto essere sentito in qualità di imputato o indagato, evidenziando lo stretto collegamento tra gli elementi probatori raccolti dal difensore e quelli derivanti dall’attività degli altri soggetti investigativi pubblici (Cass. pen. Sez. II, 20-12-2007 n. 47394).    

            Particolare attenzione è stata ampiamente dedicata dalla dottrina e dalla giurisprudenza alla natura giuridica del verbale del difensore.

            Sul punto vi è un celebre precedente, deciso a Sezioni Unite, secondo cui il difensore che verbalizza le dichiarazioni rese in ambito di investigazioni difensive assume la qualifica di pubblico ufficiale ed il verbale relativo costituisce a tutti gli effetti un atto pubblico. Pertanto, “integra il delitto di falso ideologico di cui all’art. 479 c.p. la condotta del difensore che utilizzi processualmente le dichiarazioni delle persone informate di circostanze utili, acquisite a norma degli articoli 391 bis e 391 ter del c.p.p., e verbalizzate in modo infedele” (Cass. pen. Sez. Unite , 27-06 / 28-09- 2006).

            Condividendosi o meno l’equiparazione difensore-pubblico ufficiale, è indubbio e persino banale ritenere che nella piena legittimità circa l’opportunità di utilizzare o non utilizzare le dichiarazioni raccolte, qualora si risponda al quesito in senso affermativo occorra procedere senza artifici sleali nella interezza e genuinità del compendio probatorio.

            In merito alla richiesta di audizione tramite l’Autorità Giudiziaria, vi è ad opinione della Corte di Cassazione la necessità di indicare al P.M. le circostanza specifiche su cui deve essere sentito il dichiarante nonché le ragioni dell’utilità difensiva dell’audizione, “sicché in difetto di tali indicazioni non sorge in capo al P.M. alcun dovere di provvedere” (Cass. pen. Sez. II , 6-12-2006 n. 40232), il cui verbale, per concludere sul punto, confluisce nel fascicolo del P.M. anziché in quello del difensore in quanto, pur essendo ammessa la presenza della difesa all’audizione e sussistendo la possibilità da parte di quest’ultimo di avanzare per primo domande, l’atto di cui al comma X dell’art. 391 bis c.p.p. resta atto del P.M..

            Come è noto, sul rigetto della Pubblica Accusa di procedere all’audizione di persona informata la difesa è nella possibilità di avanzare richiesta di incidente probatorio.

            Qualora però il G.I.P. non ne condivida l’opinione, l’ordinanza di rigetto “non è soggetta a gravame, stante il principio di tassatività delle impugnazioni” (Cass. pen. Sez. III , 23-05-2002 n. 20130).

Sull’accesso agli atti della P.A., ed in particolare sui rimedi da espletare in caso di rifiuto, nonostante la possibilità codicistica di presentare memorie al P.M. onde stimolare il sequestro, la tutela effettiva di poter dare attuazione concreta ai principi del giusto processo appare quasi del tutto svuotata allorquando, ad esempio, si intende limitare detta possibilità alla sola fase delle indagini preliminari: “vista (l’istanza), si rigetta, apparendo dubbia l’applicabilità degli artt. 367 e 368 c.p.p., non risultando il fascicolo in indagine preliminare bensì approdato alla fase dibattimentale” (Procura della Repubblica di Piacenza, 3.09.2007).

Senza dimenticare che è possibile un grave snaturamento dell’attività di investigazione difensiva nel momento in cui, in caso di esito positivo, il sequestro diventa atto del P.M. a tutti gli effetti e pertanto le relative risultanze potrebbero essere utilizzate anche nei confronti dell’assistito.

Come sopra accennato, del resto, non vi è spazio alcuno per un ricorso all’Autorità giurisdizionale amministrativa in caso di diniego della P.A., ritenendo il Consiglio di Stato che gli unici rimedi apprestati dall’ordinamento siano quelli di cui agli artt. 367 e 368 c.p.p. , ovverosia richiesta scritta al P.M. ed eventuale trasmissione della stessa con il parere dell’accusa al G.I.P., senza che sussista pertanto possibilità di poter adire un giudice avente giurisdizione amministrativa in materia di diniego di accesso ex Legge 241/90 (Consiglio di Stato Sez. IV, 26-04-2007 n. 1896).

In merito, infine, alla disciplina sull’accesso ai luoghi, vi è innanzitutto da considerare che per prassi giurisprudenziale è stata ritenuta illegittima la pretesa di ottenere in quella sede documenti, essendo di carattere eccezionale la norma di riferimento, art. 391 quater c.p.p., da invocare nei soli confronti della P.A..

In altri termini, l’art. 391 septies conferisce al difensore il potere di procedere ad ispezioni ma non anche a perquisizioni, di talché, in caso di rifiuto esplicitato dal privato, è necessario ancora una volta ricorrere alla richiesta di sequestro ex art. 368 c.p.p. ovvero alla presentazione di istanze ex art. 367 c.p.p. (Cass pen. Sez. II, 24-11-2005 n. 42588).

Vi è poi un interessante precedente di merito sull’attività propria del consulente della difesa in sede di accesso secondo cui quest’ultimo, qualora si tratti di attività ripetibile, può venire autorizzato ad esaminare le cose sottoposte a sequestro ed altresì a prelevare campioni finalizzati ad esami (Trib. La Spezia – Gup Ranaldi, Ord. 26-05-2004).

Viceversa, qualora si sia in presenza di un accertamento irripetibile, né il difensore né a maggior ragione il proprio consulente possono compiere accertamenti che modifichino in modo irreversibile lo stato dei luoghi (Trib. Lanciano – Gup Riviezzo, Ord. 14-03-2003).

Di rilievo poi risulta la facoltà dell’indagato di partecipare personalmente all’accesso ai luoghi, tanto che il diniego illegittimo comporta una nullità che può inquadrarsi nella disciplina di cui all’art. 178 I comma lett. c) (Trib. Bari, Ord. 2-12-2002).

Riguardo alla necessità di svolgere accertamenti tecnici irripetibili, la norma di riferimento (comma III dell’art. 391 decies c.p.p.) prevede che si debba avvisare il P.M. nonché tutti gli interessati, non essendo prevista la possibilità di procedere da parte della difesa in assoluta autonomia.

In relazione al deposito degli atti di investigazione difensiva, la norma codicistica ne permette l’adempimento all’udienza preliminare sino all’inizio della discussione.

Sul punto deve altresì rilevarsi come siano stata sinora molteplici le pronunce della Corte Costituzionale secondo cui “va comunque assicurato il diritto di esercitare il contraddittorio sulle prove addotte a sorpresa dalla controparte, in modo tale da contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia dell’effettività del contraddittorio, anche attraverso differimenti delle udienze congrui” (Ord. n. 245/2005; in senso conforme: Cass. Pen. Sez. IV, 29-07-2008 n. 31683).

Ed ancora sul tema: in sede di giudizio abbreviato sono pienamente utilizzabili ai fini della decisione le risultanze difensive prodotte nel corso dell’udienza preliminare, salvo però il diritto di controparte di esercitare il contraddittorio anche mediante l’allegazione di nuove indagini (Cass. Pen. Sez. III, 11-02-2009 n. 15236).

Sull’incidenza delle investigazioni difensive in sede cautelare, uno dei punti cardine dell’impianto normativo in questione, è evidente come il giudice investito dalla richiesta di misura cautelare abbia il dovere di acquisire e valutare gli elementi di prova raccolti dalla difesa e, laddove non ne condivida la rilevanza, di argomentare compiutamente e logicamente in tal senso (Cass. Pen. Sez. II, 30-01-2002 n. 13552).

Importante novità introdotta dalla legge n. 397/2000 è quella relativa alle investigazioni preventive, da espletarsi mediante apposita nomina con autentica e specifica indicazione dei fatti a cui si riferisce, come recita l’art. 391 nonies c.p.p..

Tra le attività che è possibile svolgere in sede di investigazione difensiva preventiva vanno ricomprese solamente quelle che non richiedono l’autorizzazione o comunque l’intervento dell’A.G. e pertanto si sostanziano nel colloquio non documentato, nella raccolta di dichiarazioni scritte o nell’assunzione di informazioni, nella richiesta di documentazione alla P.A. e nell’accesso ai luoghi pubblici o aperti al pubblico (Cass. Pen. Sez. IV, 14-10-2005 n. 1709).

Suscita poi una certa curiosità la pronuncia resa dalla Suprema Corte in sede civile a Sezioni Unite secondo cui, essendo quello della difesa un diritto irrinunciabile, l’attività investigativa svolta dal difensore in proprio favore deve considerarsi illegittima (Cass. Sez. Unite, 10-01-2006 n. 139).  

In relazione alla facoltà di investigazione difensiva all’estero, come in precedenza accennato, è stato considerato che la posizione del difensore non è differente da quella delle altre parti processuali e pertanto l’unica procedura legittima ammessa dall’ordinamento è quella della rogatoria internazionale, da attuarsi mediante idonea richiesta al P.M. o al G.I.P. al fine della relativa attivazione (Cass. Pen. Sez. I, 19-06-2007 n. 23967).

Per concludere, è innegabile che l’immissione di un sistema organico di norme di tal genere in seno al codice di rito abbia rappresentato una vera svolta culturale, rendendo oltremodo “attiva” l’attività difensiva e comportando un onere di ricercare per provare anziché semplicemente contrastare sul piano dialettico il materiale probatorio raccolto da altri soggetti, in primis la Pubblica Accusa.

 E’ però altrettanto evidente come molta strada ci sia ancora da percorrere, anche nel senso di riforma legislativa, per realizzare compiutamente quel principio di giusto processo costituzionalizzato nell’art. 111, da cui troppo spesso parte della giurisprudenza si discosta.

Del resto, a riprova ulteriore della rilevanza in gioco, di quanto cioè le investigazioni difensive finiscano per incidere in profondità sul modo di essere del difensore, vi sono i numerosi adeguamenti dei principi deontologici alla materia, tanto che nel corso degli anni si è reso necessario in seno all’Unione delle Camere Penali introdurre un insieme di regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive, nonché da parte del Consiglio Nazionale Forense procedere alla riscrittura dell’art. 52 del Codice Deontologico Forense.


 

 

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