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UN IMPERO E' CROLLATO 20 anni fa si assiste alla fine di un’Europa stabilita a Yalta. 11/09/2011 - Gen. D. Massimo Iacopi (Roma) Uno ad uno, i paesi “satelliti” dell’URSS, le famose democrazie popolari, sfuggono all’attrazione dell’impero sovietico. La scomparsa dei “gradini” del Cremlino porteranno più tardi alla scomparsa della stessa Unione Sovietica. Per la prima volta, le elezioni europee del giugno 2009 hanno avuto luogo congiuntamente nei 27 stati europei. Fra questi figurano cinque vecchie democrazie popolari integrate nel blocco comunista fino al 1989. (Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania e Cecoslovacchia, ormai separata in Cechia e Slovacchia), essendo la RDT scomparsa nel contesto della “riunificazione” tedesca. “L’autunno dei popoli” del 1989, dopo due decenni di cambiamenti, ha rivoluzionato l’Europa. La scomparsa dell’avamposto sovietico in Europa centrale ed orientale, costituito da Stalin e mantenuto dai suoi successori, concretizza, in effetti, la fine della guerra fredda e la dissoluzione del blocco sovietico in Europa. La subitaneità e la rapidità della scomparsa dell’Impero sovietico nel 1989 ha dato luogo a numerose interpretazioni. Senza risalire alla origini profonde della storia nazionale russa o sovietica, né alle origini lontane della guerra fredda, appare comunque possibile dedurre alcuni elementi che possono spiegare, nel breve termine, il crollo brutale dell’impero “esterno” sovietico del 1989 che costituisce la prima fase di una rivoluzione, seguita due anni più tardi dall’implosione dell’URSS. Gorbacev, l’uomo della rottura I cambiamenti politici intervenuti in Unione Sovietica con la designazione di Mikhail Gorbacev come Segretario Generale del PCUS nel marzo 1985, giocano un ruolo determinante. In effetti, allorché questi perviene al potere, egli adotta una politica che introduce un’interruzione o comunque cerca di rompere, con il periodo di stagnazione della fine dell’era Breznev. Si sa perfettamente, in effetti, che l’URSS non dispone più dei mezzi economici della sua potenza, sebbene considerevolmente rinforzata sotto l’era brezneviana, proprio nel momento in cui gli USA rilanciano la corsa agli armamenti per mezzo delle “Guerre stellari” o IDS. Per questo motivo, egli inizia una politica di ristrutturazione economica, la perestroika e di riforma politica, la glasnost. E’ in queste condizioni che il nuovo Segretario Generale del PCUS viene indotto a chiedere, in occasione del 27° Congresso del Partito nel febbraio 1986, per un “nuovo pensiero” nelle relazioni internazionali. Esso si incentra su una nuova distensione il cui obiettivo è in primo luogo quello di mettere fine alle tensioni ricomparse in Europa dal 1977, a seguito dello scoppio della crisi degli euromissili. Gorbacev, propone, pertanto, il 10 aprile 1987, il ritiro dei missili di media portata in Europa. Un po’ più tardi, il 7 dicembre 1988, egli annuncia alla tribuna dell’ONU una riduzione unilaterale di 500 mila uomini (10% degli effettivi dell’esercito) in due anni. Lo stesso anno, il ritiro sovietico dall’Afghanistan costituisce un evento significativo, nella misura in cui esso opera una rottura con la dottrina Breznev, sull’irreversibilità delle acquisizioni effettuate dal comunismo. I segni tangibili di un radicale riallineamento della diplomazia sovietica divengono pertanto incontestabili, ma per il momento non si trattava di abbandonare il controllo sulle democrazie popolari. Tuttavia, gli effetti della perestroika non tardano a farsi sentire. Un vento nuovo spira all’est Le aspirazioni delle società delle democrazie popolari verso maggiore libertà e verso una sensibile miglioramento delle loro condizioni di vita, che si erano deteriorate dall’inizio degli anni 80 in tutti gli stati comunisti (a prescindere del grado di statalizzazione dell’economia), hanno giocato un ruolo centrale nello sfaldamento del blocco. La crisi del sistema è multiforme, si manifesta ovunque, anche se con diversa intensità, attraverso il rallentamento della crescita, il permanere di un debole tasso di produttività, la penuria di beni, il deterioramento della bilancia commerciale, il peso crescente del debito estero (ad eccezione della Romania) e soprattutto attraverso un’inflazione spesso vertiginosa (ad esempio il 300% in Polonia nel 1982). Gorbacev riesce a fare una analisi pertinente della situazione in un lungo articolo dottrinale dal titolo “L’idea socialista e la ristrutturazione rivoluzionaria”, che egli pubblica sulla Pravda del 16 novembre 1989. Per far fronte a questa difficile situazione, risultava necessario adottare delle riforme economiche impopolari e occorreva soprattutto contare sull’aiuto occidentale. Tutto questo implicava in contropartita un allentamento della presa politica sugli alleati dell’URSS e del controllo esercitato sulle società civili delle democrazie popolari. Gli eventi che colpiscono gli stati del blocco comunista in Europa e si concludono con il suo scollamento sollevano due interrogativi. In primo luogo, la questione del ruolo del Cremlino: sarebbe stato spettatore o attore del processo ? In secondo luogo quello delle condizioni che, nell’ambito delle democrazie popolari, ne costituiscono la specificità. Sebbene la nuova diplomazia sovietica confuti il dogma della sovranità limitata, respingendo con essa l’idea di un intervento militare all’interno degli stati membri del Patto di Varsavia (come Gorbacev ne rende edotto nel dicembre 1988 il generale Jaruselski, confermata peraltro a Erich Honecker in occasione della commemorazione del 40° anniversario della RDT, nell’ottobre 1989), tutto questo non anticipa la fine dell’impero comunista, nel momento in cui difende l’idea di una Casa comune europea, nel celebre discorso di Gorbacev del 6 luglio 1989 davanti al Consiglio d’Europa. L’allentamento confermato della tutela sovietica sulle democrazie popolari incoraggia i partigiani della perestroika, nell’ambito dei partiti comunisti dei paesi “fratelli”, come in Polonia o in Ungheria. Ma esso comunque incoraggia anche le rivendicazioni che emergono dalla società civile, attraverso i suoi rappresentanti nel seno delle Chiese (cattolica in Polonia o protestante nella RDT), i sindacati liberi (la Carta 77 in Cecoslavacchia). In definitiva, la congiunzione del riallineamento della diplomazia sovietica e della crisi profonda del sistema comunista, in piena ristrutturazione, costituiscono gli elementi che determinano la perdita del controllo politico dell’URSS sul suo impero, fra la primavera e l’autunno del 1989. La precocità e le forme che essa assume, dipendono dalla specificità nazionale di ciascuno degli stati, specificità diverse mascherate dal termine, comodo e semplificatore, di democrazie popolari. Il contagio democratico Ed è proprio in Ungheria ed in Polonia, i due cattivi allievi del campo socialista, che ha inizio la rivoluzione democratica che, secondo l’effetto domino, porta alla fine dell’egemonia comunista e della tutela sovietica in Europa. In Ungheria i riformatori del PSOU (Partito Socialista Operaio Ungherese) assumono il controllo del partito e ne allontanano Janos Kadar dalla direzione in occasione di una conferenza straordinaria del maggio 1988. La nuova dirigenza riabilita le vittime della repressione dell’insurrezione del 1956, ma soprattutto rompe con la solidarietà socialista, aprendo le sue frontiere con l’ovest a partire dal maggio 1989, evento di cui approfittano numerosi Tedeschi della Germania dell’est. Questa apertura determina di fatto l’inizio dello smantellamento della Cortina di Ferro. In Polonia, dopo una successione di crisi nel 1956, 1970, 1976, 1980, viene raggiunto un compromesso nel contesto di una tavola rotonda fra i comunisti del PCP ed i suoi oppositori, rappresentati principalmente da Solidarnosc, guidato da Lech Walesa e sostenuto dal papa Giovanni Paolo 2°. L’accordo sfocia sull’organizzazione delle prime elezioni politiche libere che determinano la costituzione del primo governo diretto da un non comunista, Tadeusz Mazowiecki, mentre il generale Jaruselski, al potere dal 13 dicembre 1981 a seguito di un “colpo di stato”, viene eletto Presidente della Repubblica. Indubbiamente, per effetto della sua potente evocazione simbolica, la caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989, prelude alla “riunificazione“ tedesca ed accelera il processo in atto. Nella RDT, tuttavia, i comunisti ortodossi dietro Honecker, hanno cercato di resistere al vento delle riforme che guadagnava ormai l’Europa dell’est. Ma essi devono cedere alla fine al ripetersi delle manifestazioni di massa di Lipsia, che si estendono a tutto il paese. Anche in questo caso viene organizzata una tavola rotonda, che riunisce i rappresentanti del SED ed i suoi oppositori, al fine di preparare libere elezioni, previste per la primavera seguente. Come in Ungheria ed il Polonia, anche nella RDT il dogma del ruolo dirigente del Partito Comunista viene superato. In Cecoslovacchia, come in RDT, la cosiddetta ”rivoluzione di velluto” è stata la conseguenza di quotidiane ripetute manifestazioni di piazza, sempre più massicce a partire dal 19 novembre a seguito dell’invito del Forum Civico. Il 29 novembre, il Parlamento abolisce il ruolo dirigente del partito comunista, il 10 dicembre un governo, formato in maggioranza da non comunisti, assume la direzione del paese, mentre il “normalizzatore” Gustav Husak viene sostituito da Vaclav Husak alla presidenza della Repubblica il 29 dicembre. Lo scenario si ripete in Bulgaria dove, il 10 novembre 1989, si verificano le dimissioni di Todor Jivkov, che è alla guida del paese dal 1962. Il partito comunista è costretto ad impegnarsi all’indizione di elezioni libere nella primavera seguente e mette fine al monopolio politico del partito. Solamente la Romania conosce uno scenario tragico. Questa nazione costituiva una originalità nel seno delle democrazie popolari nella misura in cui essa era diretta da una dittatura staliniana del clan Ceaucescu e la cui diplomazia non era strettamente allineata su quella di Mosca. A causa della politica economica seguita in Romania, la popolazione era in preda a difficoltà molto più dure che nel resto delle democrazie popolari. A partire dal mese di ottobre 1989, l’agitazione nasce in Transilvania nel seno della comunità ungherese e tedesca e viene repressa in maniera sanguinosa. L’agitazione guadagna in seguito il resto del paese ed assume, il 21 dicembre, la forma di una vera e propria insurrezione a Bucarest, che obbliga Nicolae Ceaucescu a lasciare il potere e quindi a fuggire. Arrestato e giudicato sommariamente, viene giustiziato in compagnia di sua moglie il 25 dicembre seguente. Assume il potere un Consiglio del Fronte di Salvezza Nazionale, la cui presidenza viene affidata a Ion Iliescu, un vecchio fedele del vecchio regime. Il governo annuncia l’indizione di elezioni libere sulla base del multipartitismo per il mese di aprile 1990, anche se permane un atmosfera di sfiducia fra i beneficiari del “colpo di stato”, tutti legati al vecchio regime e gli attori reali della rivolta. Verso il crollo definitivo In tale contesto, appoggiando l’arrivo dei riformatori comunisti al potere, come nella RDT o lasciando emergere la possibilità di una evoluzione pluralista, come in Polonia, ovvero sostenendo i preparativi del rovesciamento di Ceaucescu, la perestroika ha destabilizzato gli alleati dell’URSS. Alla fine del 1989, nell’insieme delle democrazie popolari del blocco sovietico, la rinuncia al dogma del ruolo dirigente del partito-stato, fondamento del comunismo, lascia il posto alla costruzione di uno stato di diritto ed apre la strada al multipartitismo e ad elezioni libere. Da quel momento, gli organismi di integrazione, militare ed economica del blocco socialista vanno in pezzi. La richiesta di ritiro delle truppe sovietiche prima del 30 giugno 1990, formulata dai governi ungherese e cecoslovacco, presto seguiti dalla Polonia, conduce alla dissoluzione del Patto di Varsavia il 25 febbraio 1991. La stessa sorte viene riservata al sistema della “divisione socialista del lavoro” che non resiste al colpo di grazia che gli viene portata dalla decisione dei suoi membri di effettuare ormai gli scambi in divise convertibili ai prezzi del mercato mondiale. E tale sistema viene dissolto nel giugno 1991. Ad una attenta analisi, la “desiovietizzazione” dell’Europa dell’est appare come conseguenza di un processo, iniziato dall’alto, dalla perestroika sovietica, il cui esempio si è diffuso in seno al blocco, ma che sembra essere sfuggito di mano al suo iniziatore. Pur giungendo allo stesso risultato finale, le diverse vie che vengono assunte dipendono dalla specificità delle situazioni nazionali, come dalle loro evoluzioni successive. Tutto questo non costituisce che la prima tappa di un processo di collasso, che arriverà ad interessare direttamente anche la stessa URSS nel 1991.
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