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L’IDEOLOGIA RISORGIMENTALE Non fu sinonimo di Risorgimento. Fu codice etico-politico della classe dirigente nazionale. 24/02/2011 - Pietro Vitale (Bari) “La fine del mondo è quando si cessa di aver fiducia”. (Madeleine Ouellette-Michalska) Cari amici, I nodi della storia italiana, indubbiamente sono molti: istituzionali, politici, economici, sociali, religiosi. Non è possibile ricordarli tutti né, tanto meno, affrontarli esaurientemente. Nel contesto di una riflessione come questa, opportunamente proposta in occasione dei 150 anni di storia unitaria, vorrei soprattutto sviluppare (a parte Benigni a Sanremo), qualche considerazione sul rapporto tra questi nodi, l’unità italiana, il ruolo della Chiesa e dei cattolici. Questi 150 anni, infatti, sono stati anzitutto la storia di tale unità, dei suoi successi e dei suoi fallimenti, dei suoi slanci delle sue crisi e delle sue luci e ombre. L’unità italiana che non è mai stata scontata, né prima né dopo il 1861, ma non si tratta di un caso unico. Tutte le nazioni moderne sono “comunità immaginate” e, cioè, costruzioni culturali frutto di complesse “invenzioni” storiche, e la loro esistenza dipende dalla volontà dei loro membri: la nazione, scriveva Renan, è il plebiscito di ogni giorno, perché ogni giorno inglesi, francesi o tedeschi rinnovano, implicitamente, la scelta di stare insieme. Ciò vale, naturalmente, anche per gli italiani, seppure con peculiarità rilevanti. A partire dall’inizio degli anni novanta, però, si è cominciato a discutere in Italia di che cosa può succedere “se cessiamo di essere una nazione” prendendo coscienza che le nazioni non sono eterne e che gli stati possono finire, provocando la disgregazione di ciò che a lungo è sembrato insostituibile. Ad un lettore frettoloso di questo trattato potrebbe apparire non come l’analisi di un fallimento, quello del nostro Risorgimento nazionale, ma come le pagine di una storia “locale”, come un risultato di un’indagine campanilistica votata a spiegare il perché ho voluto inserire il fallimento di una rivoluzione annunciata, quella di Garibaldi che intendeva dare risposte immediate a secoli di frustrazioni contadine, nel fallimento più grande dell’idea risorgimentale, un fallimento che, è detto nel titolo, rende antiche le origini del malessere nazionale. Orbene, dopo questa breve e doverosa introduzione, cari amici, anch’io desidero dire la mia, come studioso di storia di ordini cavallereschi crucesignati, di filosofia e scienze esoteriche. Dopo tante insistenze e richieste da quotidiani e periodici, mi sono deciso porre alla vostra attenzione queste poche linee, non dico che sia la vera storia del risorgimento italiano, ma, in linea di massima ciò che la maggior parte dei testi storici hanno sempre riportato e divulgato dopo una mia attentissima lettura e ricerche. “DECLINO E MORTE DELL’IDEOLOGIA RISORGIMENTALE?” Sono grato al Prof. Gianni Clara per spunti storici e delucidazioni inviatemi, ed argomenti che sono stati pubblicati su Serenamente, (i quaderni del dott. Alberto VACCA) Il Dottor Pietro Vitale è giornalista, scrittore e direttore del blog International www.legestadellacavalleria.blogspot.com. Tessera Ordine Nazionale dei Giornalisti n°116644. L’ARCHITETTURA DELLO STATO CENTRALIZZATO E IL REGIME PREFETTIZIO. Il breve intervallo fra ordine vecchio e nuovo, durante il quale lo Stato italiano fece le scelte che ne avrebbero fissato i caratteri e segnato l’evoluzione, durò dal gennaio all’ottobre del 1861. Fedeli alla loro ideologia liberale e all’ispirazione inglese della loro cultura politica, gli uomini della destra concepirono per le nuove province del Regno un sistema politico-amministrativo che avrebbe rispettato e valorizzato le tradizioni locali, le identità regionali e i vecchi patriottismi municipali. Al governo centrale sarebbero rimaste alcune competenze unitarie: gli esteri, la difesa, i trasporti, le poste. Ma il 9 Ottobre Bettino Ricasoli, presidente del Consiglio dopo la morte di Cavour, estese per decreto a tutto il Paese la legge con cui Urbano Rattazzi aveva applicato alla Lombardia, nell’Ottobre del 1859, il regime amministrativo, fortemente centralizzato, delle province piemontesi. Fu istituito il Prefetto, rappresentante del governo nelle province del regno, fu abbandonato il modello inglese e adottato, con una radicale inversione di fronte, il modello francese. Moriva, ancor prima di nascere, lo Stato decentrato che Minghetti aveva prefigurato nei decreti del marzo precedente, e nasceva al suo posto lo Stato napoleonico. Che cosa era accaduto fra il marzo e l’ottobre del 1861 perché il paese imboccasse improvvisamente una strada così radicalmente diversa da quella che il partito vincente aveva immaginato per il futuro? Era morto Cavour, era scoppiata la guerra del brigantaggio, era emersa con evidenza la precarietà nazionale ed internazionale dello Stato Unitario. Dopo avere miracolosamente raggiunto traguardi che nessuno si era prefisso, il governo dovette improvvisamente misurarsi con l’ostilità del clero, l’indifferenza di una larga parte dell’opinione pubblica delle regioni annesse, la diffidenza di alcune grandi potenze, la distanza economica e civile fra il nord e il sud, le condizioni dell’ordine pubblico meridionale. La risposta del governo alle minacce che insidiavano il nuovo Stato fu il regime prefettizio; una scelta frettolosa e necessaria, imposta da problemi di cui nessuno, nei mesi precedenti, aveva immaginato la complessità e la grandezza. Il rapido susseguirsi di due strategie amministrative così profondamente diverse conferma che l’unità nazionale non fu il risultato di un disegno preordinato. Nessuno, se non le frange radicali del movimento garibaldino e mazziniano, aveva immaginato negli anni precedenti l’improvvisa scomparsa di tutti gli Stati italiani. E nessun ministro piemontese aveva nei propri cassetti, alla fine del 1860, un dossier politico-amministrativo sull’unificazione della penisola. L’UNIFICAZIONE Ci ritrovammo uniti fra il Settembre e il Novembre del 1860 perché gli stati pre-unitari, e in particolare il regno delle Due Sicilie, si rivelarono infinitamente più fragili di quanto Torino avesse previsto. Quando fu chiaro che l’Austria non avrebbe potuto difenderli e che l’Inghilterra, fingendosi indifferente e neutrale, avrebbe perfidamente incoraggiato la loro morte, essi crollarono su sé stessi. Il fattore decisivo non fu la pressione esterna degli «unitari», che furono complessivamente una piccola minoranza. Decisivi furono, in Sicilia, i vecchi rancori del patriottismo isolano contro la dominazione di Napoli e, altrove, il rapido dissolversi delle strutture amministrative, militari e sociali che avevano assicurato l’esistenza degli Stati pre-unitari. Decisivo, in altre parole, fu l’immediato voltafaccia di una parte delle classi dirigenti-funzionari dello Stato, militari, liberi professionisti - che corse a ingrossare le fila del partito risorgimentale. Come spiegare altrimenti i plebiscitari (1.312.366 contro 10.302 nelle province continentali, 432.053 contro 667 in Sicilia) con cui i sudditi di Francesco «chiesero di diventare sudditi di Vittorio Emanuele»? Persino in Toscana ed in Emilia, dove il movimento nazionale poté contare sulla guida autorevole di Ricasoli e Farini, i referendum furono una manifestazione di feudale lealtà per i leader locali piuttosto che un atto di fede nella monarchia sabauda. Ecco come Ricasoli, in Toscana, organizzò la partecipazione popolare al referendum: « (…) gli intendenti agricoli a capo dei loro amministrati, il più influente proprietario rurale a capo degli uomini della sua parrocchia, il cittadino più autorevole a capo degli abitanti di una strada, di un quartiere, ecc. (…) ordineranno e condurranno gli elettori alle urne della Nazione in gruppi o in file più o meno numerose, ma sempre disciplinate e procedenti in buon ordine. In testa sarà la bandiera italiana; ciascuno deporrà nell’urna la propria scheda, poi si ritirerà e in un punto determinato il gruppo si scioglierà con quella calma e quella dignità che proviene dalla coscienza di avere compiuto un alto dovere». Se questi furono i nuovi battaglioni dell’Italia unitaria, la nuova classe dirigente avrebbe dovuto rendere rispettoso omaggio, nel momento in cui assumeva la direzione del nuovo Stato, agli ostinati difensori borbonici di Messina, Civitella del Tronto, Gaeta, e avrebbe dovuto aggiungerne i nomi al «ruolo degli eroi» di cui venerare la memoria. Come gli svizzeri alle Tuileries nel 1792, quegli uomini si batterono perché avevano giurato fedeltà al loro re e non meritavano l’oblio a cui li ha condannati la leggenda risorgimentale. Ma nessuno può permettersi il lusso di scrivere una storia che non tenga conto delle proprie esigenze e non favorisca la realizzazione dei propri obiettivi. Anziché raccontare l’unità come effetto di circostanze impreviste e di opportunistiche adesioni, la nuova classe dirigente nazionale fu costretta a raccontarla come il risultato di un grande sforzo unitario e di una forte volontà collettiva. Fu taciuto il ruolo delle navi inglesi davanti al porto di Marsala, furono taciuti l’opportunismo e il doppiogiochismo delle classi dirigenti locali, fu ignorato o dimenticato l’eroismo di coloro che tentarono un’ultima difesa contro i piemontesi e i garibaldini. Proprio perché scaturito da circostanze impreviste, lo Stato unitario ebbe quindi immediatamente bisogno di una forte ideologia dominante. UN’IDEOLOGIA STRUMENTALE PER “FARE” GLI ITALIANI L’opera nata per caso finì per condizionare i suoi involontari creatori e per orientarne la strategia politica. Per consolidare il proprio potere ed acquisire legittimità morale, la classe dirigente dovette credere fermamente nella necessità della propria esistenza e realizzare il mandato di cui si vide improvvisamente investita. L’ideologia risorgimentale non è quindi l’antefatto ideale e morale dello Stato unitario. È la somma delle convinzioni, delle certezze, degli obiettivi e dei metodi con cui la classe dirigente conferisce a sé stessa il diritto di governare. Improvvisamente proiettata al vertice di uno Stato imprevisto, essa deve proclamarne la necessità, il fondamento storico, la missione morale. Ma deve anche realizzare il più rapidamente possibile ciò che avrebbe dovuto, in buona logica, precedere l’unificazione e giustificarne l’avvento. Deve «fare gli italiani». Assistiamo così sin dall’inizio a una sorta di sdoppiamento della ideologia risorgimentale e alla nascita, in seno alla classe dirigente, di due partiti. Il primo pensa che gli italiani debbano farsi «col ferro e col fuoco» nel vivo dell’azione, nel crogiolo delle guerre e delle battaglie. Lo rafforza in questo convincimento il ricordo e lo spettacolo di altri Stati nazionali europei. Nulla ha giovato alla nascita di una nazione francese quanto le grandi guerre di espansione e conquiste, da Luigi XIV a Napoleone. Nulla ha «fatto» la Germania quanto la grande insurrezione antifrancese del 1813 e le due guerre degli anni ‘60. Nulla ha «fatto» la Santa Madre Russia quanto Poltava e la «guerra patriottica» del 1812. Non v’è nazione in Europa che non abbia definito la propria identità e creato il proprio territorio senza lottare per la propria esistenza. La riscrittura romantica della storia italiana può servire a puntellare le pretese della classe dirigente, ma non può sostituire la storia vera. Lo voglia o no l’Italia ha bisogno, per esistere, di guerre e di sangue. Il secondo partito non nega l’utilità delle guerre, ma ne valuta più attentamente i costi e i pericoli. Sa che la guerra del 1859 è stata prevalentemente francese, che la spedizione di Garibaldi in Sicilia non basta da sola a provare le virtù guerriere del popolo italiano, che la guerra del 1866 è stata vinta in Boemia, non in Adriatico e nel Veneto. Sa soprattutto, per diretta esperienza, che le guerre costano molto denaro e pesano per molto tempo sul bilancio dello Stato. Per «fare gli italiani» occorre quindi tentare una strada diversa, più graduale, meno rischiosa. Occorre unificare il territorio e le istituzioni, promuovere l’educazione dei cittadini creare fra essi i vincoli della convivenza economica e della comunità culturale. Vorrei poter dire che queste due famiglie dell’ideologia risorgimentale corrispondono alle tradizionali denominazioni degli schieramenti politici, che la prima è di destra, la seconda di sinistra. Ma l’affermazione sarebbe del tutto infondata. Durante la prima generazione unitaria è vero, piuttosto, il contrario: la Sinistra è volontarista, aggressiva, nazionalista, mentre la Destra è cauta, poco incline ai colpi di testa e alle avventure militari. Più tardi la distinzione fra le due famiglie attraverserà in diagonale tutta la società politica italiana raggruppando in ciascuno dei campi, fianco a fianco, progressisti e conservatori. Accadrà persino che gli stessi uomini politici - Crispi, Giolitti, Sonnino, persino Mussolini - passino da un campo all’altro perseguendo strategie diverse in momenti diversi della loro vita politica. Per semplificare dirò schematicamente che Crispi, Salandra, Sonnino e Mussolini cercarono di «fare gli italiani» con la guerra, mentre Spaventa, Sella, Minghetti, Depretis, Giolitti e altri leader minori cercarono di «fare gli italiani» con le riforme, le infrastrutture, la scuola, lo sviluppo economico. L’uomo che dette alla seconda famiglia la sua politica estera più efficace e coerente fu probabilmente Emilio Visconti di Venosta, sette volte ministro degli esteri tra il 1863 e il 1901. Accade spesso nella storia che le grandi strategie politiche siano fondate sull’esito, talora casuale di un episodio. FARE LA GUERRA PER “FARE” GLI ITALIANI La sconfitta di Adua ebbe l’effetto di mettere fuori gioco per parecchi anni il partito del «ferro e fuoco», ma la guerra di Libia, che Giolitti cercò inutilmente di declassare a «fatalità storica», ebbe quello di estendere la voglia di sangue e di cimenti che continuava ad agitare gli animi di una parte delle élite nazionali. Se è assurdo sostenere che la guerra italo - turca fu tra le cause della prima guerra mondiale, è certamente lecito sostenere che essa contribuì largamente a creare i quadri interventisti della primavera del 1915. Entrammo quindi in guerra nel maggio di quell’anno, per «fare gli italiani». Che questo fosse il principale «fine di guerra» dello Stato Italiano è dimostrato dalla spregiudicata indifferenza con cui le élite nazionali presero in considerazione le due alleanze possibili. Il governo italiano era onnivoro, cioè pronto ad espandersi sia verso il Mediterraneo orientale sia verso il Mediterraneo occidentale, perché la guerra era anzitutto un mezzo per «forgiare» l’unità nazionale. Per entrare in guerra, tuttavia, una delle famiglie risorgimentali dovette sbarazzarsi dell’altra con un colpo di mano. Dopo essere stata una monarchia parlamentare, l’Italia divenne improvvisamente per qualche settimana, nella primavera del 1915, un Reich tedesco e Salandra una sorta di cancelliere. Ma non si trattò di colpo di Stato. Lo scontro fu tra le due famiglie dell’ideologia risorgimentale e il duello fu arbitrato dal Re che buttò il peso della monarchia nel campo degli interventisti. IL “METODO MUSSOLINI” Mussolini si presentò al re, sin dalla prima udienza, il 30 Ottobre del 1922, come l’esponente più radicale e intransigente del volontarismo risorgimentale. Le parole «vi porto l’Italia di Vittorio Veneto», con cui dichiarò di essersi indirizzato a Vittorio Emanuele, indicavano che egli avrebbe, per l’appunto, «fatto» gli italiani col ferro e col fuoco. In realtà, come alcuni dei suoi predecessori, tentò strade diverse, a seconda delle circostanze, e non esitò a fare in alcuni momenti, sia pure con linguaggio sprezzante e tracotante, la politica guardinga della Destra storica. Ma il successo della guerra etiopica, l’ascesa di Hitler e la docilità con cui le democrazie accettarono tutti i colpi di mano del Fuhrer, dalla occupazione della Ruhr alla spartizione della Cecoslovacchia, dovettero convincerlo che le sorti del paese erano a un bivio: buttarsi nella mischia per fare gli italiani o starsene fuori e rinunciare all’obiettivo. L’idea che l’Italia potesse restare neutrale non gli passò mai per la testa. Considerata nella logica del volontarismo risorgimentale l’ipotesi, del resto, era del tutto irrealistica. I tre maggiori esempi europei - Svizzera, Belgio, Svezia - dimostrano che la neutralità incute rispetto e produce i risultati desiderati soltanto quando è sostenuta alle spalle da coesione, fermezza, comunanza di valori e principi, un esercito forte e temuto, vale a dire tutto ciò che ancora faceva difetto «all’Italia di Vittorio Veneto». Furono queste in gran parte le ragioni per cui funzionò bene in Svizzera e Svezia, male in Belgio. Paradossalmente potrebbe dirsi che l’Italia avrebbe potuto essere neutrale soltanto il giorno in cui qualcuno, finalmente, avesse fatto gli italiani. UNA GUERRA CIVILE? Sappiamo che cosa accadde fra il 1940 e il 1943 e sappiamo ormai, grazie al libro di Claudio Pavone, che anche la storiografia progressista ammette essersi combattuta in Italia dal 1943 al 1945 una guerra civile. L’espressione è particolarmente calzante. Più che di guerra tra fascisti ed antifascisti si trattò infatti di uno scontro mortale tra le due famiglie dell’ideologia risorgimentale. Sino a quel momento si erano combattute in Parlamento, si erano scomunicate a vicenda e una di esse, il fascismo, aveva perseguitato l’altra con misure di polizia. Ma durante gli ultimi due anni della seconda guerra mondiale i nipoti del Risorgimento passarono alle armi e si uccisero. Fu questo l’aspetto più tragico di quella vicenda: il Risorgimento diviso in due campi contrapposti, un’Italia non ancora fatta e già lacerata da un insanabile contrasto fra due rami di una stessa famiglia. La vittima più illustre di questa lotta intestina fu l’uomo che ne comprese meglio di altri il carattere «familiare» e che fece il possibile per interporsi fra i combattenti. Giovanni Gentile fu certamente ucciso dai gappisti di Firenze davanti alla sua villa del Salviatino, ma avrebbe potuto cadere sotto i colpi del fascismo radicale. Così muore Antigone quando cerca di contrapporre le leggi della pietà a quelle della forza. Vinse come sappiamo la «Famiglia» risorgimentale che voleva fare gli italiani con l’educazione civile e con il progresso economico. Per le condizioni in cui si era combattuto un paese sconfitto e diviso dopo una lunga dittatura, gli orrori di una guerra mondiale, una lotta spietata fra nemici «terminali» - la guerra fu necessariamente un fratricidio e amputò l’ideologia risorgimentale di un suo membro. Non basta. Quella del partito risorgimentale vincente fu una vittoria di Pirro perché il campo dei vincitori fu dominato durante la lotta da due forze - i comunisti e in misura minore, i cattolici – che non appartenevano alla tradizione del Risorgimento e avevano altri ricordi, altri obiettivi. Si delinea così sin dall’inizio dello Stato repubblicano un contrasto tra coloro che vorrebbero tenere viva l’idea del Risorgimento e coloro che vorrebbero - esplicitamente i comunisti, implicitamente i cattolici negarne il valore morale, svelarne le ipocrisie, sottolinearne i fallimenti e cancellarne il ricordo. Al centro del dibattito fu spesso la Resistenza che i «Risorgimentisti» Saragat, ad esempio - cercarono di accreditare come ultima «guerra d’indipendenza» e che i comunisti esaltarono invece come lotta di liberazione sociale, insurrezione di popolo, promessa di rivoluzione. A chi vorrà fare la storia dell’idea di Risorgimento durante la prima generazione dello Stato repubblicano propongo alcuni temi di ricerca: i manuali di storia nelle scuole, le discussioni provocate dal libro di Rosario Romeo su Risorgimento e capitalismo e da quello di Mack Smith sulla storia d’Italia, i discorsi presidenziali di Saragat, la graduale scomparsa del 20 Settembre dagli annali delle feste nazionali e infine, il dibattito sull’europeismo. L’EUROPEISMO L’europeismo fu infatti, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, la preoccupazione dominante di coloro che erano maggiormente consapevoli della precarietà dell’ideologia risorgimentale. Einaudi fu tra i primi a rendersi conto che la guerra perduta colpiva a morte non soltanto il partito «del ferro e del fuoco», ma l’intero Stato nazionale. Sin dall’esilio in Svizzera giunse alla conclusione che l’Italia aveva bisogno per sopravvivere di una nuova ideologia e che soltanto «l’idea d’Europa» come Chabod intitolò in quei mesi le sue lezioni di Milano, poteva dare un senso all’esistenza del paese sconfitto. Fu questa la ragione per cui, contrariamente a Croce, accettò senza esitare la ratifica del trattato di pace: per liquidare un passato fallimentare ed evitare che il paese si attardasse inutilmente nella contemplazione delle proprie frustrazioni. Credo che le ricerche degli storici futuri sul crepuscolo del Risorgimento dovranno concludersi con la fine degli anni ‘60. Da quel momento in poi lo studioso troverà probabilmente sulla sua strada temi più modesti: il socialismo tricolore, il culto garibaldino e i pellegrinaggi a Caprera di Bettino Craxi, la pietà risorgimentale di Giovanni Spadolini, le stanche discussioni provocate dalle invettive antirisorgimentali di Vittorio Messori e del cardinale Biffi. LA MORTE DELL’IDEOLOGIA RISORGIMENTALE L’agonia dell’ideologia risorgimentale si protrae nel tempo, ma a chi esige, per periodizzare la storia degli italiani, una data di morte propongo il 1976. L’anno in cui il 73,1% degli italiani dà il proprio voto alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista se si deducono dal resto i voti di Democrazia Proletaria, della Sudtiroler Volkspartei e della Union Valdotaine, alle due vecchie famiglie dell’ideologia risorgimentale rimane il 24,9%, di cui il 6% al Movimento Sociale Italiano e il resto diviso fra socialisti, socialdemocratici, liberali, repubblicani e radicali. Nell’anno in cui Giulio Andreotti diventa presidente del Consiglio, Amintore Fanfani presidente del Senato e Pietro Ingrao presidente della Camera, gli italiani risorgimentali sono ormai minoranza e vivono nel loro paese in una condizione intellettuale analoga a quella che caratterizzava gli orleanisti e i bonapartisti dopo l’avvento della Terza Repubblica. Si potrebbe naturalmente sostenere che l’emergenza di forze nuove non comporta necessariamente la fine degli ideali risorgimentali. Perché non riconoscere che il partito comunista e la Democrazia Cristiana hanno accettato il retaggio del Risorgimento e tentato di «fare gli italiani»? Perché non riconoscere che i cattolici furono sin dall’inizio fervidamente europeisti e che i comunisti divennero tali nella prima metà degli anni 70? Non avevano gli stessi ricordi e le stesse tradizioni, ma si proposero di realizzare, con la solidarietà, la giustizia sociale e l’Europa, ciò che i partiti risorgimentali non erano riusciti a compiere nelle generazioni precedenti. La Cassa del Mezzogiorno e gli insediamenti industriali nelle province meridionali furono certamente un tentativo per unificare il paese dando agli italiani eguali possibilità di lavoro, di educazione e di promozione sociale. Ma lo sciagurato risultato di quella politica è sotto i nostri occhi. Il giudizio sulle responsabilità spetta agli storici del futuro, ma non è necessario attendere il loro responso per constatare che la prassi della democrazia consociativa - risorse contro consenso, favori contro voti - ha accentuato le differenze tra le diverse parti della penisola e che la strategia della Cassa del Mezzogiorno è complessivamente fallita. In un momento in cui una parte del territorio nazionale ancora sfugge al controllo giudiziario, poliziesco e fiscale dello Stato unitario, la distanza fra il sud e il nord è più forte, paradossalmente, di quanto non fosse all’epoca in cui l’Italia era, come scrisse Croce, «divisa in due». Gli anni felici tra il 1850 e il 1860, quando gli intellettuali napoletani e siciliani, lavoravano fraternamente a Torino con i loro amici piemontesi, liguri, lombardi e veneti per preparare un futuro comune, ci appaiono terribilmente lontani. Occorre risalire alla guerra contro il brigantaggio, ai moti di Palermo del settembre 1866 e ai fasci siciliani per ritrovare l’estraneità che caratterizza oggi i rapporti fra le due parti della penisola. L’ESTRANEITÀ FRA NORD E SUD Questo fenomeno è andato accentuandosi col passare del tempo, ma può farsi risalire, simbolicamente, a due catastrofi naturali: il terremoto in Friuli del 1976 e quello nelle province meridionali del 1980. Se le elezioni nazionali del 1976 registrarono il brusco declino delle forze politiche risorgimentali, i quattro anni che corrono fra i due terremoti segnano nella vicenda dell’Italia unitaria l’inizio del processo di scissione morale fra le due parti della penisola. Per la prima volta gli italiani videro «in diretta», grazie alla televisione, gli effetti in diverse regioni di uno stesso avvenimento naturale: al nord una regione ansiosa di riparare i guasti e ricominciare a lavorare, al sud la macchina perversa di un assistenzialismo senza progetti e prospettive. Non basta. Quei due avvenimenti produssero, sotto gli occhi degli italiani, conseguenze radicalmente diverse; in Friuli un processo modernizzatore che ne ha fatto in pochi anni una delle più intraprendenti regioni mitteleuropee; nelle province meridionali un processo di criminalizzazione che ha sottratto una larga parte della penisola all’impero della legge. Gli stessi denari che hanno permesso al Friuli di costruire nuove infrastrutture e nuove imprese hanno creato in Campania, nella migliore delle ipotesi, opere fittizie, nella peggiore una vasta rete di «intermediari» che ha barattato il denaro dello Stato contro i voti delle clientele elettorali. Alla spaccatura orizzontale fra le regioni settentrionali e meridionali si aggiunge un’altra spaccatura, non meno pericolosa. Il fallimento dell’ideologia risorgimentale nella sua duplice versione militare e civile ha trasformato l’Italia in uno Stato senza fondamenta etico - politiche. UN NEO-CORPORATIVISMO Questo non significa che la sua unità sia in forse; gli interessi comuni prevalgono sulle divergenze. Significa tuttavia che il paese è progressivamente divenuto nel corso di questi ultimi anni una costellazione di grandi corporazioni tribali o professionali, ciascuna delle quali è preoccupata, anzitutto, dalle proprie prerogative e dalla propria autotutela: i giudici, la Banca d’Italia, i giornalisti, le forze dell’ordine, la Commissione episcopale e le organizzazioni che ne dipendono, le Forze Armate, le nomenklature accademiche, gli apparati burocratici dei partiti e dei sindacati, le clientele della criminalità organizzata e giù sino alle corporazioni minori dei commercianti, dei farmacisti, degli edicolanti, dei tabaccai, dei tassisti. Non tutte le corporazioni hanno la stessa rilevanza. La loro compattezza e coesione di pende dal livello di partecipazione. La corporazione è forte quando il socio si identifica totalmente con essa e trae grandi benefici dalla sua tutela. È debole quando l’identificazione dipende da occasionali interessi di categoria o il socio, per ragioni personali o familiari, divide la propria lealtà fra corporazioni diverse. Ma è la corporazione-tribù ormai la vera patria degli italiani, l’istituzione attraverso la quale essi trattano con lo Stato. Non esistono più cerimonie pubbliche, in Italia, in cui la comunità nazionale celebra se stessa. Esistono cerimonie corporative in cui la corporazione celebra il diritto di auto elogiarsi e a cui lo Stato rende omaggio con la propria presenza. Si va all’Altare della Patria il 4 Novembre per compiacere la corporazione delle Forze Armate, si va all’inaugurazione dell’anno Giudiziario per compiacere i magistrati, si mandano telegrammi ai meeting di Comunione e Liberazione per rendere omaggio a una particolare tribù della famiglia cattolica, si è votato il lunedì 28 marzo 1994 (e non soltanto domenica 27) per compiacere la nomenklatura dell’ebraismo italiano a cui non era permesso, in linea di principio, votare nel giorno di una propria festività religiosa. La fine dell’ideologia non comporta necessariamente la fine dei riti risorgimentali. Gli uomini politici continueranno a salire i gradini del monumento a Vittorio Emanuele, a deporre corone d’alloro, a visitare gli ossari della prima guerra mondiale e quello di El Alamein, a celebrare ricorrenze dimenticate, a commemorare martiri di cui nessuno ricorda più di quando e perché siano morti. Così fece Giuliano l’Apostata negli anni in cui i suoi connazionali avevano già smesso di credere agli dei dell’Olimpo. Il vuoto ideologico post-risorgimentale L’establishment politico-amministrativo continuerà a parlare il linguaggio del Risorgimento anche per nascondere il vuoto ideologico della repubblica. Ma è difficile immaginare che il nuovo Stato italiano possa costituirsi sulla base di ideali così duramente provati dalla realtà storica e così fortemente minoritari. Nascerà, se i suoi cittadini non riusciranno a dargli un’anima nuova, sulla base di un pragmatico patto di convivenza fra popoli che parlano la stessa lingua, vedono la stessa televisione, partecipano allo stesso campionato di calcio e hanno un evidente interesse a non pregiudicare, con gesti avventati o decisioni emotive, le prospettive della loro comune prosperità. La storia dell’Italia risorgimentale si è conclusa. Quella degli anni ‘80 e della crisi presente appartiene ad un libro nuovo che potremmo chiamare, per meglio marcare, la cesura col passato, “dell’Italia post – risorgimentale”.
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