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TALIBANIZZAZIONE E INSICUREZZA. LA NATO IN TRAPPOLA Il modello di sicurezza realizzato nella Valle dell’Hindu Kush è ormai un ricordo 26/11/2014 - Massimo Iacopi (Guidonia) Nel vocabolario militare, un conflitto viene definito “asimmetrico”, quando il “debole” riesce ad invalidare la superiorità del “forte”, imponendogli un combattimento d’usura ed impiegando tutti i mezzi offerti dall’ambiente naturale per imporsi. Questa é la sfida che devono affrontare le potenze occidentali in Afghanistan. Vale la pena, a tal proposito, ricordare i fatti. Nel 1989, dopo 10 anni di conflitto, l’esercito sovietico lascia l’Afghanistan sotto lo sguardo ironico degli osservatori occidentali. Passano altri dodici anni. Nel 2001, il trionfalismo americano si scatena quando l’US Army si ingaggia in Afghanistan in una atmosfera euforica di vittoria “fresca e gioiosa”. Oggi mentre il conflitto promette di battere il record di longevità del precedente, i cantori di ieri sembrano voler farsi dimenticare. In teoria, il nuovo conflitto é stato “legittimamente” scatenato dagli Americani per distruggere i mandanti designati dell’attentato dell’11 settembre 2001 ed abbattere il regime talebano che li protegge. L’area in questione era da troppo tempo di interesse il Pentagono perché questi non disponga già di un ampio ventaglio di piani di intervento. Una prima fase viene pertanto francamente condotta da una azione delle forze speciali e con dei bombardamenti di “precisione”. Essa viene combinata con una azione puramente convenzionale di occupazione del terreno, affidata e subappaltata alla Alleanza del Nord /equipaggiata con materiale sovietico). Questa fase si conclude con la ricerca sfrenata di un nemico che si é dileguato nelle grotte del Tora Bora ed in altre aree montagnose similari. Segue quindi un periodo di calma apparente, in cui sembrano riunite tutte le condizioni per dare inizio alla ricostruzione dello Stato afghano. Occasione perduta: il secondo tempo della manovra non era stato pensato in anticipo (proprio come quello in Irak). Nel frattempo, gli Europei si sono affiancati, sotto la bandiera della NATO, agli Americani dell’OEF (Operation Enduring Freedom) per costituire la coalizione “occidentale”, incaricata di mettere in sicurezza il paese. L’anno 2003 ha segnato una prima svolta con lo scoppio del conflitto irakeno che ha deviato l’attenzione, ma anche una parte delle risorse e dei mezzi necessari. Simultaneamente, l’esercito pakistano, attraverso i servizi segreti, ISI, sebbene alleato della coalizione, ma sempre obnubilato dalla minaccia indiana, ha ricominciato a ricostituire i talebani sul suolo afghano. 1^ constatazione: per conseguire i loro obiettivi, gli Americani hanno dovuto trattare con i “capi di guerra” odiati dalla popolazione e flagello ricorrente dell’Afghanistan. Questi dubbi alleati, contando su dei solidi traffici, non tardano a ritagliarsi dei feudi ed a diventare il sostegno insostituibile del nuovo regime. Allearsi con i futuri nemici sembra essere negli ultimi anni una costante della strategia americana. Il regime appoggiato dalla coalizione si rivela perfettamente corrotto. La manna internazionale che si riversa sul paese si evapora a danno della ricostruzione. 2^ constatazione: La coalizione sembra non aver compreso che l’Afghanistan multietnico é una nazione che rimane ingovernabile senza l’accordo dei Pastuni, l’etnia maggioritaria (40% della popolazione). Questa etnia dispone di solidi appoggi nella zona tribale del Pakistan. Essa si sente emarginata dal nuovo potere. Tra l’altro, la popolazione, che non ha altra aspirazione di soddisfare le sue esigenze elementari (sopravvivenza, sicurezza, giustizia), non si riconosce per nulla in uno stato corrotto i cui rappresentanti locali (governatore e polizia) la taglieggia. Per di più l’improntitudine di molti contingenti della coalizione, che vorrebbe “guadagnare i cuori”, contribuisce ad alienare le simpatie ed a spingere la popolazione verso l’insurrezione. 3^ constatazione: La coalizione si é sbagliata sulla designazione del nemico. Essa sembra ignorare che il Talebano storico (studente di religione proveniente dalle Madrase), associato alla minaccia di Al Qaeda, ha da molto tempo lasciato il posto al ribelle pastun, che vuole la partenza delle forze occidentali. Questo ribelle si appoggia sulla inesauribile manna del papavero di cui l’Afghanistan continua ad essere il primo produttore mondiale. 4^ constatazione: L’assenza totale di audacia nella coalizione. Sul terreno, l’asimmetria dei mezzi, come quella delle volontà, colpisce l’osservatore. La ribellione evita lo scontro frontale, impiegando un combattimento di guerriglia ed il terrorismo. Questo riesce a stabilire un clima di insicurezza che spinge la coalizione a mettersi al riparo di “bunker”, abbandonando così il controllo della popolazione. La coalizione crede di poter valutare la sua efficacia sulla base delle perdite dei ribelli. Occorrerà attendere il 2009 per ascoltare un alto grado americano spiegare che se “10 – 2 fa 8” nella guerra convenzionale, “10-2 fa 20” nella guerra asimmetrica. In altre parole, per effetto della cultura locale (vendetta), le perdite ribelli aggiunti ai frequenti “danni collaterali” subiti dalle popolazioni, hanno come effetto quello di aumentare le file dell’insurrezione. Tra l’altro la ribellione sa che la coalizione finirà per partire e che il tempo gioca comunque a suo favore. Se, come é noto, la guerra é uno scontro di volontà, nel caso in esame, il ribelle rustico, fanatico credente, legato alle solidarietà tribali, si rivela più combattivo, più resistente e più astuto del suo nemico superprotetto, poco motivato e più adatto alla guerra “coca cola” ed allo scontro in ambiente climatizzato dietro una consolle video. Ma la questione può essere posta in modo diverso. La coalizione dispone veramente di una vera strategia ? Per gli Americani si é trattato all’inizio di un misto fra una lotta messianica contro il “male” e della presa di controllo di pegni strategici in una zona di interesse rilevante, posta alla confluenza dei mondi iraniano, pakistano, indiano, cinese e russo. Per gli Europei, ad eccezione del Regno Unito che ha un rapporto storico con l’Afghanistan, la loro presenza nella coalizione evidenzia poche ragioni valide, oltre alla solidarietà ed una adesione agli USA, per di più, come lo ha magistralmente affermato lo storico Dominique Venner, recentemente scomparso, l’Europa vive una situazione di “dormizione” e non costituisce un attore strategico del conflitto. Essa, in fin dei conti, si limita a fornire degli effettivi sotto la bandiera della NATO. E che pensare di quei dirigenti politici europei che incapaci di dare sicurezza alla nostra gente e di evitare una talebanizzazione della nostra società, pensano che la nostra sicurezza collettiva passi per le vallate dell’Hindu Kush? Gli Americani, nella loro difficoltà ad individuare una strategia, si sono messi a sognare su dei vecchi manuali di contro guerriglia e molti pensano che si potrebbe ancora vincere la partita, imitando, ad esempio, l’azione dei Francesi in Algeria (1). Ma forse, più che evocare l’Algeria, varrebbe la pena di ricordarsi del Vietnam. Dopo la sgradevole sorpresa dell’offensiva vietcong del Tet buddista nel 1968, il presidente Richard Nixon aveva concesso ai suoi generali un aumento di effettivi. Per l’Afghanistan, questo tipo di sforzo supplementare é stato accompagnato con la promessa del presidente Barak Obama di un rimpatrio nel 2012, l’anno elettorale. Il rimpatrio, é proprio quello che aveva fatto anche Nixon in vista di garantirsi la rielezione del 1972. Sempre dopo l’offensiva del Tet, il comando americano aveva avuto l’idea di estendere il conflitto alla Cambogia con il brillante risultato che si conosce. In Afghanistan, é stata parimenti concessa all’OEF l’autorizzazione di estendere il conflitto alla zona tribale del Pakistan, considerata come base arretrata della insurrezione. Il Pakistan é certamente un elemento chiave del conflitto, ma é anche una specie di ex Jugoslavia che può scoppiare da un momento all’altro, con un esercito in via di islamizzazione. Questo significherebbe l’apertura di un secondo pantano assai più pericoloso in prospettiva. In conclusione, gli scenari futuri si riconducono a tre eventualità. La prima é quella di un successo della coalizione attraverso lo sradicamento dell’insurrezione. Fatto poco probabile. La seconda, che rappresenterebbe il male minore per gli Occidentali, sarebbe una uscita “onorevole”, che consisterebbe nel disimpegnare “legittimamente” le forze della coalizione dopo aver annunciato, mediaticamente, la capacità della polizia e dell’esercito afghano di assumersi da soli la sicurezza del paese. Questa opzione non pregiudicherebbe in nessun modo l’avvenire del paese, quando si pensi alla partenza delle forze americane dal Vietnam. La terza opzione é quella che normalmente non viene presa in considerazione, tenuto conto della debolezza degli insorti nel campo dei materiali (antiaerei, in particolare). Sarebbe lo scenario dell’inaccettabile che vedrebbe la partenza affrettata della coalizione. sotto l’effetto di perdite giudicate insopportabili. Si sa che delle capacità antiaerei erano state attribuite da parte della CIA ai mujahidin negli anni 1980 e tutto questo aveva provocato delle gravissime perdite ai Sovietici, in uomini e materiali. Non si può escludere a priori che una potenza non abbia interesse a provocare la stessa cosa negli anni a venire, se i suoi rapporti con gli USA dovessero volgere ... al brutto! NOTA (1) Da certuni si suggerisce, con forza, l’influenza esercitata, in certi ambienti militari americani, dalle teorie di un ufficiale francese, il tenente colonnello David Galula (1919-67), ignorato persino nel suo stesso paese. Nato da una famiglia ebrea di Tunisi, uscito dall’accademia francese di St Cyr nel 1939, egli partecipa alle campagne dell’Africa del nord, d’Italia e di Germania. Addetto militare ad Hong Kong dal 1949 al 1955, si sposa con una americana, Ruth Morgan. Egli comanda successivamente una compagnia in Kabylia, in Algeria, dal 1956 al 1958 ed, inviato a Norfolk (USA) alla fine del 1959 nel quadro della NATO, vi allaccia delle relazioni, venendo invitato a lavorare per la Rand Corporation dopo il 1962. Pubblica in seguito diversi lavori ed il suo libro “Controinsurrezione. Teoria e pratica” del 2008 é stato pubblicato con una prefazione del gen. D. H. Petraeus, Comandante in capo nell’Irak.
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