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TALLEYRAND L’UOMO PER TUTTE LE STAGIONI Un Personaggio che ha inciso profondamente nei destini della Storia d’Europa 15/08/2015 - Massimo Iacopi (Bardonecchia) TALLEYRAND L’UOMO PER TUTTE LE STAGIONI Nel marzo 1814, Talleyrand ha ormai capito che Napoleone è “finito”. Amico dello zar, schierato con i Borboni, fuori dalla Francia durante i 100 giorni, egli riesce a costruire, in 18 mesi, il suo momento di gloria. “Mefistofele !”, questa è l’immagine che, nel 1814 e 1815, emerge spontaneamente da più parti per evocare Carlo Maurizio de Talleyrand-Perigord (1754-1838). Di fatto, il conte Jacques Claude de Beugnot (1761-1835), un proveniente dell’ambiente ministeriale, ed il Auguste François Faveau barone de Frenilly (1768-1828), difensore accanito dell’assolutismo, non faranno sconti, nelle loro Memoires e Souvenirs, al nostro personaggio. Ma a questo diavolo, zoppo o non, gli hanno attribuito la furbizia e la seduzione, la pazienza ed i tempi lunghi e l’hanno fatto ben considerare dai suoi contemporanei. Anche se le testimonianze nei suoi riguardi sono state molto diverse e difformi, esse, nondimeno, convergono tutte nel giudicare che i 18 mesi che vanno, dal marzo 1814 alla metà di settembre del 1815, l’hanno consacrato come uno fra i migliori uomini politici di Francia e dell’Europa. La sua capacità, durante questo periodo, di adattarsi alle circostanze per conseguire allo scopo che si era prefisso, ha impressionato sino alla stupefazione tutti quelli che hanno avuto la sorte di conoscerlo. In effetti, nel suo lavoro, il conte de Beugnot si domanda, alla fine del giugno 1815,: “Ma che tipo di uomo è questo Monsieur de Talleyrand ? ”. Uomo insultato, ma necessario La prima risposta dell’autore, che corrisponde del resto alle sue intime convinzioni, è che egli è stato un uomo necessario. Non si diventa indubbiamente, senza alcun merito e sotto tre regimi successivi, l’inamovibile Ministro degli Affari Esteri, dal 1797 al 1807. E quando lascerà l’incarico, il suo vecchio “padrone” lo coprirà d’onori. Di fatto Napoleone Bonaparte (1769-1821) lo nomina Vice Grande Elettore il 9 agosto 1807 e Luigi 18° Borbone (1755-1824), Gran Ciambellano il 28 settembre 1815. Ma come disfarsi di Talleyrand: egli si oppone vivamente nel 1808 alla Campagna di Spagna e, nonostante ciò, Napoleone imperatore lo porta ad Erfurt, qualche mese più tardi, per incontrare lo zar; nel novembre 1813 egli rifiuta di riassumere il dicastero degli Esteri per negoziare con gli Alleati, ma, nel pomeriggio del 23 maggio 1814, entra nel Consiglio di Reggenza – creato un anno prima per sostituire l’imperatore durante le sue assenze – alla vigilia della Campagna di Francia e dopo che nella stessa mattinata aveva dovuto subire una sfuriata dell’Imperatore in pubblico. “Questo che c’era di strano nella condotta di Napoleone nei miei riguardi – riporta lo stesso Talleyrand – è che nel momento in cui egli aveva maggiori sospetti nei miei riguardi egli cercava comunque di riavvicinarmi a lui”. Infatti, una strana condotta: da un lato era meglio avere Talleyrand presso di sé per controllarlo meglio, dall’altro, per quanto fosse un personaggio corrotto, i suoi consigli valevano molto di più di quelli di una nullità fatta uomo, come Hugues Bernard Maret, duca di Bassano (1763-1839) o più ancora di quelli di un cretino fedele come Jean Baptiste de Champagny, Conte de Nompére, duca di Cadore (1756-1834), i suoi due successori. Talleyrand si impone anche a Luigi 18° per delle ragioni analoghe. Ricevuto a Compiegne, il 3 maggio 1814, dal re appena sbarcato dall’Inghilterra, egli viene inizialmente trattato con disprezzo dall’ex conte di Provenza, che non aveva più rivisto da 25 anni, per poi, 10 giorni più tardi, essere nominato il suo Ministro degli Esteri. Nel giugno 1815, stesso scenario: allontanato a Mons dal re il 24 dello stesso mese in termini ironici e sprezzanti – “Andate alle terme, vi faranno bene e dateci vostre notizie … “ – due giorni dopo a Cambrai, per intervento di Wellington, viene riconvocato per assumere la guida del governo che dirigerà ufficialmente a partire dal 9 luglio seguente. Il fatto è che la superiorità di Talleyrand, come lo nota un contemporaneo, risultava evidente specialmente in tempi di crisi o nei periodi di congressi. Il principe dei diplomatici passa in tal modo come il virtuoso delle circostanze e delle opportunità. Ma questo saper fare, che sfiora alle volte il tradimento, risulta orientato da una linea guida che risale ai primi tempi della sua esperienza ministeriale: “Quello che serve alla nazione francese – scrive il nostro nel luglio 1799 – è quello di indicargli lo scopo ed i sacrifici che sono quello che serve alle nazioni straniere, è di rassicurarle sulla loro indipendenza, presentando loro una costituzione incrollabile ed un governo stabile con il quale possano trattare”. Con il Brumaio e l’instaurazione del Consolato, qualche mese più tardi egli crede di essere arrivato “in porto”. 14 anni più tardi, dopo la sconfitta francese di Lipsia, l’analisi rimane valida, ma le condizioni sono completamente cambiate: il sistema napoleonico è riuscito a privare i Francesi di prospettive ed a sconvolgere tutta l’Europa. Deve pertanto arrivare, come l’affermerà lo stesso Talleyrand: “l’ora del 18 Brumaio in senso contrario”. Il Principe di Benevento non ha aspettato l’ottobre 1813 per considerare che Napoleone sta portando il mondo e lui stesso al disastro. Egli non è certamente il solo a pensarlo, ma, a Parigi, sarà uno dei rari personaggi a dirlo, non senza coraggio, già dagli inizi del febbraio 1814: Napoleone è finito, occorre preparare il dopo. L’ultima possibilità, offerta dal la Conferenza di Chatillon - ultima trattativa, per iniziativa dell’Austria, fra il regime imperiale ed i coalizzati (il cui quartier generale risulta insediato in questa località della Costa d’Oro) e che propone, in buona o cattiva fede, di trattare sulla base delle “vecchie frontiere” della Francia - non viene presa in considerazione dall’Imperatore. Talleyrand, lasciando intravvedere una soluzione di ricambio, rappresenta qualcosa di fronte alla decisione degli Alleati di marciare su Parigi. Quale soluzione ? Una reggenza in nome di Napoleone 2°, nel quale il principe di Benevento sarebbe stato l’uomo forte. L’idea, accarezzata per qualche tempo, viene considerata aleatoria, soprattutto quando si dovrà trattare la pace con gli Alleati. In effetti, si impone il ristabilimento dei Borboni, in parte perché nessuno sa più chi sono e perché essi hanno la legittimità che deriva dal loro nome e dalla loro anzianità. “Con la casata di Borbone – scrive – la Francia smette di essere gigantesca per ritornare ad essere grande” ed in questo contesto egli si fa forte di ricondurre i Borboni sul trono alle sue condizioni. Il diplomatico nell’ultima settimana di marzo 1814, è un uomo solo, fiancheggiato da qualche comparsa come Karl Theodor Anton Maria duca von Dalberg (1744-1817), il barone Joseph Dominique Louis (1755-1837), il Amail François conte e marchese di Jaucourt (1757-1852) e l’abate de Prandt ed alcuni altri uomini oscuri, ma buoni per tutte le occasioni e le stagioni. Egli non riveste alcun mandato e non possiede alcuna legittimità d’azione. Ma, mentre il Consiglio di Reggenza ed i grandi dignitari del regime imperiale si sbandano, egli rimane il solo personaggio conosciuto, in Francia ed in Europa. Questo capitale, accantonato da lunga data e con abilità, egli lo gioca nel giro di pochi giorni e ne raccoglie gli effetti: capitolazione di Parigi di concerto con i marescialli, captatio benevolentiae dello zar insediato presso di sé, convocazione del Senato che designa un governo provvisorio da lui diretto, pronuncia la decadenza di Napoleone ed emana in 72 ore un progetto di Costituzione che conserva le acquisizioni della rivoluzione ed instaura un regime rappresentativo. Indubbiamente un comportamento che in queste circostanze mette in evidenza un grande sangue freddo e che farà dire al duca Etienne Denise Pasquier (1767-1862), allora Prefetto di Polizia, “Questa occasione è senza dubbio, in tutta la vita di M. de Talleyrand, quella in cui ha meglio manovrato”. Senza dubbio, con l’arrivo del Charles Philippe de Bourbon, conte d’Artois (1757-1836), futuro Carlo 10° di Francia, quindi con l’entrata in Parigi di Luigi 18°, il 3 maggio 1814, il principe di Benevento prende la mano nella partita. Ma il Trattato di Parigi, negoziato da Talleyrand, porta il 30 maggio una pace a condizioni che si sforza di presentare come insperate – le frontiere del 1792, niente occupazione, niente indennità. Un regime stabile all’interno, basato su istituzioni liberali, una pace solida, al di fuori, che consente il ritorno degli scambi commerciali e finanziari, un’opera, comunque considerevole, portata a termine, da Talleyrand in persona o in suo nome, nel giro di qualche settimana. Chi, appena tre mesi prima, avrebbe pensato ad una transizione senza crisi significative e senza guerra civile ? Quando, però, si tratta di governare il Principe di Benevento apare decisamente meno a suo agio. “Egli non aveva né il gusto, né l’abitudine al lavoro regolare” scrive François Guizot (1787-1874), a quel tempo segretario generale del ministero degli interni. “Il chiarore e l’atmosfera del giorno della libertà non erano di suo gradimento, vi si sentiva spaesato e non sapeva come muoversi. A quel punto egli si è affrettato a uscire dalle Camere e dalla Francia per andare a ritrovare a Vienna la sua società ed il suo ambiente”. Marzo 1815: tutto da rifare Dal settembre 1814 al marzo 1815, egli si dedica con successo a riportare la Francia nel concerto delle grandi nazioni, appoggiandosi sempre di più, secondo i suoi vecchi principi, sull’Austria e l’Inghilterra contro la Russia ed, in particolare sul trattato segreto del 3 gennaio 1815, che lo zar Alessandro 1° (1777-1825) non gli perdonerà. La sua fortuna è quella di essere lontano dalla Francia, in occasione del ritorno di Napoleone dall’isola d’Elba e di non essere stato costretto a schierarsi immediatamente. Egli si preoccupava, del resto e da molto tempo, delle possibili iniziative di Napoleone, la cui posizione giudicava troppo vicina alle coste italiane. Egli aveva sperato, durante la Campagna di Francia, che sarebbe andato incontro ad una morte “salutare” e forse ha anche visto di buon occhio l’oscuro progetto di Armand Marie Guerry conte de Maubreuil (1782-1855) di assassinare l’imperatore a Fontainebleau. Da Vienna, egli si preoccupa di una possibile connessione fra Napoleone e Gioacchino Murat (1785-1824), scrivendo nel novembre a Luigi 18°: “La conclusione che traggo è che occorre sbarazzarsi dell’uomo dell’isola d’Elba e di Murat. La mia opinione sta portando frutti”. Ma questa visione non incontra il favore degli Alleati, specialmente da parte dello zar che rifiuta un trasferimento alle Azzorre o, già allora, a S. Elena. “D’altronde, l’incidente, così sgradevole, della comparsa di Bonaparte in Francia, avrà perlomeno l’effetto di affrettare qui la conclusione delle discussioni e degli affari” (12 marzo 1815), inizialmente votando Napoleone alla morte civile, con la dichiarazione comune del 13 marzo. Rimane comunque il fatto, per Talleyrand, che sul campo è tutto da rifare: ristabilire un minimo di fiducia con gli alleati esasperati per conservare il più possibile il maggior numero di clausole del Trattato di Parigi, mantenere in linea di principio il diritto dei Borboni, la cui fuga ha penosamente impressionato il Congresso, preparare il loro secondo ritorno, preservando le acquisizioni della carta del 1814. Egli lavora ai fianchi in tal senso Luigi 18°, scrivendogli il 18 aprile: “Si considera come molto necessario che la Vostra Maestà si impegni a far schierare intorno a sé tutti i partiti, assicurando loro, senza distinzioni, tutti i vantaggi di un regime costituzionale”, ed egli parla di “ministri responsabili che godano della fiducia del re e della Nazione”. Il compito risultava molto più difficile dell’anno precedente, ma Talleyrand appariva, ancora una volta, come il meglio possibile nella situazione da risolvere, anche secondo i monarchici convinti come François Renée de Chateaubriand (1768-1848), che reclamava, allo stesso modo del re in persona, il suo arrivo a Gand. Il principe preferisce, prudentemente, aspettare in Germania la definitiva sconfitta imperiale. Per preparare il suo arrivo, egli aveva indirizzato al re un promemoria, invitandolo alla moderazione ed alla lucidità di fronte alle pretese del suo contorno di emigrati.: “Per quanto legittimo sia un potere, il suo esercizio deve variare a seconda dei casi a cui si applica, a seconda dei tempi e dei luoghi. In effetti, lo spirito del tempo in cui viviamo esige che, nei grandi Stati moderni, il potere supremo debba essere esercitato solo con il concorso dei corpi tratti dall’ambito della società che esso governa”. Le cose andranno in modo diverso, Luigi 18°, alleviato dall’esito di Waterloo e spalleggiato da suo fratello, è ormai convinto di poter ormai fare a meno del suo ingombrante ministro e lo allontana il 24 giugno a Mons. Tuttavia, due giorni più tardi, Talleyrand riprende la mano. “Per la seconda volta – scrive Jean Marie Duvergier de Hauranne (1771-1831) – il Signore de Talleyrand teneva nelle sue mani i destini politici della Restaurazione ed il suo stesso destino”. Egli deve, tuttavia, mettersi d’accordo con Joseph Fouché, duca di Otranto (1759-1820), designato a Parigi, come Presidente della Commissione esecutiva formata dalle Camere, lo stesso giorno dell’abdicazione di Napoleone, il 22 giugno. Il vecchio regicida negozia la sua alleanza per mezzo del suo mantenimento nelle funzioni di polizia nel nuovo governo. Addormentato sulla sua poltrona Le relazioni fra Talleyrand e Fouché hanno fatto scorrere fiumi d’inchiostro. Alla fine del giugno 1815, davanti al conte Louis Mathieu Molé (1781-1855), a Parigi, Fouché si lascia andare: “Egli diceva Talleyrand o “questo birichino de Talleyrand”, con una naturalezza, una negligenza ed una facezia che supponevano una assai lunga abitudine alla complicità o un certo disprezzo” (probabilmente entrambi !). Ma il reinsediamento dei Borboni ed il ritorno dello stesso Talleyrand alla guida del governo avevano avuto un prezzo. Chateaubriand ha immortalato la scena della presentazione di Fouché al re, da parte di Talleyrand, a S. Denis il 6 luglio 1815. Il 9, Luigi 18° reinstallato alla Tuileries afferma, secondo i desideri di Talleyrand, di “voler attribuire al nostro ministero un carattere di unità e di solidarietà che ispiri nei nostri sudditi una certa fiducia” e firma in questo spirito la nomina del gabinetto Talleyrand, che vi fa entrare 4 dei suoi amici ed è costretto ad ammettere Fouché, che, dalla posizione di associato, assumerà ben presto la figura di rivale. Tutti hanno prestato servizio sotto l’Impero, e non figurandovi nessun monarchico della vecchia base, Talleyrand dovrebbe avere maggiore libertà d’azione che nel maggio 1814. Nella realtà la situazione per lui è molto più difficile. Parigi ed una parte del paese sono occupati, spesso sotto dure condizioni, il Terrore bianco si scatena nel Mezzogiorno, l’amministrazione risulta disorganizzata, occorre licenziare il personale dell’esercito ed esercitare una certa repressione contro i principali attori dei 100 giorni. Gli alleati, soprattutto, che non hanno alcuna fiducia nel re ed ancor meno nel suo governo, fanno sapere che questa volta essi non acconsentiranno condizioni favorevoli nel futuro trattato di pace, tenendo completamento isolato dalle loro discussioni il ministro francese degli esteri. E’ troppo per il Presidente del Consiglio, i cui ministri hanno più tardi sottolineato l’indebolimento durante l’estate del 1815. Pasquier, titolare allora del dicastero della Giustizia e ad interim degli Interni, sottolineerà: “Egli si è dimostrato incapace di sopportare il fardello con il quale egli aveva la pretesa di giocare”. La causa sarebbe stata, per una parte, l’ansietà amorosa che gli infligge la sua nipote e successivamente amante, Dorotea von Biron, principessa di Curlandia, duchessa di Dino, di Sagan e Talleyrand (1793-1862) (moglie del nipote Edmond de Talleyrand-Périgord (1787-1872)), di 22 anni, rimasta a Vienna. Il giovane Charles de Remusat (1797-1875), figlio di dignitari imperiali vicini a Talleyrand dirà nelle sue Memorie: “dei tormenti di desiderio e di gelosia che erano la causa per la quale il signore di Talleyrand era apparso negli ultimi mesi al di sotto di sé stesso”. Alla fine di agosto 1815, all’ostilità dello zar nei confronti del governo e del suo presidente, si aggiungono le elezioni legislative, le prime della monarchia costituzionale, che daranno alla nuova Camera una schiacciante maggioranza monarchica. Le clausole leonine del futuro trattato di pace cominciavano a filtrare, inaccettabili agli occhi del governo, poco preoccupato di subirle. Fouché viene allontanato e Talleyrand riunisce il 16 settembre i suoi ministri per una cena di lavoro al fine di constatare che le cose non potevano più continuare in quel modo. Alla fine, racconta ancora “Pasquier: “Nel momento in cui doveva finalmente essere presa una decisione, ci si accorse che il Presidente si era addormentato sulla sua poltrona”: Il 19 settembre, il Presidente del Consiglio presenta le dimissioni del gabinetto a Luigi 18°. Con sua grande sorpresa, questi accetta immediatamente le dimissioni “all’inglese”, afferma il re, vale a dire prendendo atto che la nuova maggioranza necessitava la formazione di un altro gabinetto. In tal modo Talleyrand diviene vittima delle sue stesse azioni: egli aveva operato per stabilire un regime parlamentare in Francia ed è proprio a sue spese che esso comincia a funzionare. Egli è convinto che sarà, ben presto e ancora una volta, richiamato, tanto egli si crede indispensabile. Ma, a quel punto, egli ha smesso di esserlo, avendo esaurito il suo ruolo storico, che in ogni caso non è stato certamente trascurabile: l’instaurazione, dopo la tormenta rivoluzionaria e la dittatura imperiale, di un governo libero e stabile e, nonostante il duro colpo del ritorno di Napoleone dall’isola d’Elba, la reintegrazione della Francia nel concerto delle potenze. Nei fatti, un compromesso fra l’ancien regime e la rivoluzione, ai quali egli aveva appartenuto.
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