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Economia e Mercati
Il debito estero
Analisi macroeconomica dei fattori strategici legati all'economia di una nazione
Jun 15 2005 12:00AM - Ing. Ivan CIOFFI
(Torino) Economia
Introduzione.
Quando un paese registra un deficit nelle partite correnti significa che esso necessita, per consumi ed investimenti, di un ammontare di risorse maggiori di quelle disponibili. Deve dunque attrarre capitali dall'estero. Vi sono due opzioni per attrarre capitali dall'estero: la prima, che prende il nome di “Investimenti Diretti Esteri” (FDI), prevede la vendita di attività produttive (azioni di società) nazionali ad investitori esteri; la seconda prevede invece l'emissione di debito (obbligazioni) verso istituzioni internazionali come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, verso banche commerciali o infine verso privati cittadini.
Le due forme di finanziamento differiscono notevolmente tra di loro; l'investimento diretto estero prevede infatti una compartecipazione da parte del finanziatore al rischio dell'attività. Se ad esempio una società telefonica europea acquista partecipazioni in una società telefonica brasiliana si assume direttamente parte del rischio di un eventuale fallimento o di una cattiva performance di quest'ultima. L'acquisto di un titolo di debito invece non comporta alcuna compartecipazione diretta al rischio; acquistando dei titoli emessi dal Brasile si ha infatti diritto a ricevere il rimborso del capitale più gli interessi dovuti per la durata del prestito, indipendentemente dalle condizioni economiche (recessione o boom economico) che possano contraddistinguere il Brasile.
La condizione necessaria che deve essere soddisfatta affinché un paese debitore possa far fronte ai debiti che ha contratto è costituita dal rispetto del vincolo di bilancio intertemporale. Tuttavia questa condizione, quando si considera il debito emesso da Stati sovrani, si rivela una condizione solo necessaria ma non sufficiente. Se infatti il vincolo di bilancio intertemporale non viene rispettato, il debitore non è in grado di produrre in futuro un ammontare di risorse sufficienti a ripagare il debito contratto e dunque fallisce. Mentre però una società commerciale (e non) può fallire, uno Stato sovrano non può assolutamente farlo. Più che un atto economico il fallimento è infatti un atto giuridico che viene regolamentato da apposite norme, il che presuppone l'esistenza non solo di leggi in materia (in Italia come nella maggior parte dei paesi industrializzati esiste un Diritto Fallimentare), ma soprattutto di una autorità capace di applicare le leggi obbligando debitori e creditori al rispetto delle stesse (in Italia tale autorità è rappresentata dalla sezione fallimentare del tribunale civile). Queste autorità hanno il potere di imporsi su tutti i soggetti giuridici (persone giuridiche e/o fisiche) all'interno di un singolo Stato, ma non hanno alcun potere quando il soggetto giuridico diviene lo Stato stesso.
Detto in altri termini, un tribunale fallimentare può dichiarare fallita e liquidare una impresa ma non può fare la stessa cosa per uno Stato sovrano; al tempo stesso non esistono istituzioni sovranazionali che abbiano simili poteri.
In questo senso il soddisfacimento del vincolo di bilancio intertemporale non è una condizione sufficiente se riferita ad uno Stato: tale vincolo facendo infatti riferimento alla sola capacità del debitore di ripagare il debito necessita di una autorità che renda il contratto di debito vincolante. In assenza di questa autorità occorre fare riferimento non solo alla capacità di ripagare il debito ma anche alla volontà del debitore di farlo. Se infatti, come detto, non esiste alcuna autorità che può imporsi su uno Stato sovrano, quest'ultimo, anche se tecnicamente solvente, può rifiutarsi ugualmente di pagare il debito contratto.
La mancanza di una autorità capace di far rispettare contratti di debito che riguardino Stati sovrani pone immediatamente la questione della giustificazione a livello teorico dell'esistenza stessa di questa forma di debito. Se non è possibile obbligare il debitore al pagamento, come possono gli Stati sovrani ottenere tali tipi di finanziamenti? E, ancora, per quale motivo, una volta ottenuto il finanziamento, uno Stato non dichiara immediatamente default?
Una risposta a questi interrogativi sarà possibile darla presentando dapprima l'evoluzione storica del debito estero dei PVS (paesi in via di sviluppo); in seguito analizzeremo la nota crisi debitoria degli anni '80 illustrandone i fattori determinanti e le strategie di risoluzione adottate; infine affronteremo dal punto di vista teorico il problema dell'esistenza e della configurazione del contratto di debito con Stati sovrani.
1. Il debito dei PVS: dalle origini al primo shock petrolifero.
L’indebitamento dei PVS non è un fenomeno recente. Il finanziamento tramite debito da parte dei paesi in via di sviluppo è diffuso infatti sino dalla metà del secolo scorso ed è stata una delle modalità maggiormente utilizzate dai paesi ricchi per impiegare le proprie risorse, allargando il proprio mercato cercando nuovi spazi di investimento e di lavoro.
Tra la fine del 1800 e l’inizio della prima guerra mondiale i flussi finanziari dai paesi industrializzati verso i PVS aumentarono infatti considerevolmente. In questo periodo il maggior fornitore di fondi era costituito dalla Gran Bretagna, vero cuore del sistema finanziario internazionale improntato sul “gold standard”. Due fattori fondamentali spiegano l'aumento dei flussi finanziari verso i PVS registrato in questi anni: in primo luogo l'investimento nelle economie in via di sviluppo forniva rendimenti molto elevati (anche se rischiosi) che si fecero sempre più attraenti a fronte di rendimenti decrescenti nelle economie sviluppate; in secondo luogo questi capitali erano stimolati da una parte dal crescente ammontare di risparmio (per lo più inglese) orientato ad una crescente diversificazione internazionale e dall'altra dalla stabilità che il gold standard conferiva al sistema finanziario internazionale.
Dopo la prima guerra mondiale si iniziarono ad intravedere i primi segnali di crisi: paesi come Francia e Gran Bretagna che prima della Grande Guerra erano creditori netti sul mercato finanziario internazionale si trovarono nella posizione di essere debitori netti in virtù degli ingenti debiti di guerra contratti con gli Stati Uniti; si veniva dunque ad esaurire una delle principali fonti di finanziamento per i PVS[1]. Contemporaneamente si registrarono forti segnali di crisi anche all'interno del sistema monetario internazionale con le difficoltà incontrate dal gold standard nel riprendere la posizione di perno del sistema monetario internazionale.
La crisi degli anni 30 segnò da una parte la disintegrazione del sistema monetario internazionale e dall'altra rallentò notevolmente le relazioni commerciali tra il Nord e il Sud del mondo, provocando il pressoché completo esaurimento delle fonti di finanziamento disponibili. Impossibilitati a trovare adeguate fonti di finanziamento molti PVS si trovarono stretti in una morsa da cui era impossibile uscire. Da una parte lo stock di debito esistente necessitava di fondi finanziari per essere servito, fondi la cui offerta si era fortemente ridotta, ma dall'altra la crisi economica mondiale riduceva drasticamente la domanda di esportazioni di materie prime da parte dei PVS e dunque la disponibilità di valuta estera necessaria a servire il debito. La Bolivia fu il primo paese a dichiarare default nel 1931 e nell'arco di due anni fu seguita dalla quasi totalità dei paesi dell'America Latina. Quella degli anni '30 fu la prima grande crisi di debito che si verificava nel sistema finanziario internazionale e comportò la quasi totale esclusione dai mercati dei capitali dei paesi coinvolti in tali crisi debitorie.
Solo dopo la seconda guerra mondiale, con la creazione, tramite gli accordi di Bretton Woods, della nuova architettura del sistema monetario internazionale, si cercò di definire uno schema di risoluzione delle crisi debitorie dei PVS. In nessuno dei casi di default degli anni '30 era stata infatti trovata una soluzione che accordasse debitori e creditori.
Nel 1956 i creditori dei PVS (paesi industrializzati ed istituzioni internazionali) fondarono così il cosiddetto “Club di Parigi” (Allegato “A”), ovvero un tavolo permanente di trattative che gestisse la rinegoziazione[2] del debito tra i paesi debitori e i loro creditori. A seguito di tale rinegoziazione dei debiti i PVS tornarono ad accedere ai mercati finanziari internazionali.
1.a. Le origini della crisi
Il primo shock petrolifero del 1973 segna una svolta nella posizione debitoria dei paesi in via di sviluppo: prima di tale data infatti le banche commerciali erano coinvolte solo marginalmente nel finanziamento diretto dei PVS. Il motivo andava ricercato da una parte nell'atteggiamento prudente che le banche sono tenute ad avere nella gestione delle proprie attività, dall'altra nel fatto che le singole banche commerciali hanno un minor potere contrattuale rispetto ad uno Stato o una istituzione internazionale di fronte ad un default di uno Stato sovrano.
Il 1973 segna un repentino cambiamento nell'atteggiamento delle banche commerciali; a seguito dell'aumento del prezzo del greggio i paesi produttori di petrolio del Medio Oriente depositarono enormi quantità di denaro presso le banche commerciali europee e statunitensi, per cui esse si trovarono a gestire un eccesso di disponibilità di fondi[3] che iniziarono ad indirizzare verso i PVS. Inoltre all'inizio degli anni '70, inoltre, i tassi di interesse internazionali erano particolarmente bassi e questo costituì un ulteriore incentivo, per le banche commerciali alla ricerca di buoni rendimenti, di aumentare i prestiti nei confronti dei PVS.
La combinazione di elevati flussi finanziari provenienti dai paesi esportatori di petrolio e di bassi tassi di interesse fece sì che i PVS (che all’epoca promettevano ancora di crescere in modo benaugurante), mentre precedentemente avevano incontrato un atteggiamento diffidente se non ostile da parte delle banche commerciali, si trovarono a trattare con banche fortemente orientate al prestito nei loro confronti. In sostanza, ci fu un vero e proprio incentivo all’indebitamento.
In questo contesto i flussi finanziari provenienti dalle banche commerciali furono indirizzati prevalentemente verso i paesi dell'America Latina evitando le economie più arretrate ed in particolare i paesi africani, il cui debito ha continuato ad essere finanziato prevalentemente da governi o da organizzazioni internazionali.
1.b. Debito, tassi di interesse e vincolo di bilancio
All'inizio degli anni '80 la situazione economica in America Latina era dunque fortemente critica: i paesi erano caratterizzati da livelli di debito estero molto elevati per i quali dovevano pagare tassi di interesse in continua crescita, la crescita economica si era fortemente ridotta, l'apprezzamento del tasso di cambio reale dovuto ad una politica monetaria restrittiva dei paesi industrializzati (soprattutto nei governi inglese ed americano rispettivamente con le amministrazioni Tatcher e Reagan) aveva sensibilmente ridotto le importazioni di beni provenienti dai PVS peggiorando in questo modo il saldo delle partite correnti di tali paesi. La riduzione della domanda e quella dei consumi provocarono a loro volta un drastico ridimensionamento dei prezzi delle materie prime (di cui i principali esportatori erano i PVS) ed una conseguente drammatica riduzione dei ricavati delle esportazioni e quindi della capacità di servire il debito stesso.
L’aumento dei tassi d’interesse fu una vera e propria stangata per i paesi del Sud i quali, infatti, avendo ricevuto la gran parte dei prestiti con interessi flessibili, videro accrescere i loro debiti in modo vertiginoso. Tutto ciò spiega come è potuto accadere che, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, i paesi del Sud del mondo hanno moltiplicato i propri debiti esteri di almeno dodici volte.
La risposta dei governi a questa situazione fu il ricorso all'unica fonte di finanziamento non ancora utilizzata intensamente: il signoraggio tramite la monetizzazione del deficit. In questo modo tuttavia non si fece altro che accendere la miccia di una situazione già fortemente esplosiva.
L'adozione infatti di un regime di cambi fissi è assolutamente incompatibile con la monetizzazione continua di deficit persistenti di bilancio; prima o poi, in al modo, si verifica una crisi valutaria. Monetizzando il deficit, dunque, i paesi dell'America Latina hanno sommato alle crisi debitorie le crisi valutarie.
1.c. Lo scoppio della crisi
La data ufficiale dello scoppio della crisi debitoria la si può individuare nell’Agosto del 1982 quando il Messico, avendo appurato il proprio stato di effettiva insolvenza, dichiarò che non era più in grado di fare fronte al pagamento del proprio debito. Il Messico costituisce un esempio emblematico della gestione macroeconomica dell'America Latina tra gli anni '70 e '80. Essendo uno dei maggiori esportatori di petrolio tale paese beneficiò notevolmente dell'incremento del prezzo del greggio durante gli anni '70; inoltre, sia in quanto produttore di petrolio, sia in quanto detentore di rapporti commerciali privilegiati nei confronti degli Stati Uniti, questo paese ha assistito ad un vero e proprio boom di prestiti da parte delle banche commerciali nei suoi confronti.
Tuttavia il governo messicano non ha saputo gestire questo incremento di fondi in modo oculato utilizzando i proventi del petrolio per finanziare programmi di carattere populista (aumenti dei salari statali, programmi sociali, lavori pubblici ecc.) con il risultato che la spesa pubblica crebbe ben più delle maggiori entrate. Dal 1980 con la discesa dei prezzi del petrolio i problemi di bilancio del Messico si fecero via via più acuti.
Invece di imporre consistenti tagli alla spesa pubblica il governo ricorse in maniera sempre più massiccia al signoraggio per finanziare il deficit di bilancio. Ma l'aumento dei tassi di interesse mondiali, la recessione del 1981 e l'apprezzamento del dollaro innestarono una spirale insostenibile. Tanto più il peso del debito si faceva rilevante tanto più il governo ricorreva al signoraggio, per cui i creditori, preoccupati della reale capacità del governo messicano di far fronte agli impegni presi, iniziarono a richiedere scadenze sempre più brevi sui prestiti concessi.
La situazione precipitò dopo la prima svalutazione del Febbraio 1982 in seguito alla quale ci fu un profondo calo di fiducia da parte degli investitori, che conseguentemente chiusero alcune linee di credito nei confronti del Messico. Impossibilitato a reperire crediti per far fronte al debito esistente il governo fu allora costretto a dichiararsi insolvente. Conseguentemente gli investitori esteri, colpiti dalla crisi messicana e convinti del fatto che problemi simili accomunavano la maggior parte dei PVS, ritirarono massicciamente i capitali da questi paesi ed in particolare dall'America Latina.
In sostanza mentre sino al 1982 i paesi dell'America Latina hanno sperimentato un afflusso di capitali da parte del resto del mondo determinato da crescenti flussi finanziari netti e da limitate spese per interessi, da quest’anno in avanti si assiste ad un massiccio deflusso di capitali spiegato da un aumento della spesa per interessi ma soprattutto dal crollo dei flussi finanziari in entrata.
L'impossibilità di reperire fondi sui mercati acuì enormemente la crisi dei paesi fortemente indebitati. Dal 1982 al 1985 quasi tutti i paesi dell'America Latina non riuscirono ad onorare gli impegni presi con i propri debitori risultando sempre più marginalizzati dal mercato internazionale dei capitali.
1.d. La gestione della crisi
La crisi debitoria dell'inizio degli anni '80 ebbe ripercussioni molto pesanti sui mercati finanziari internazionali. Il principale canale di trasmissione della crisi fu il comportamento delle banche commerciali. Gran parte del debito estero dei PVS era stato infatti acquistato dalle banche commerciali per cui la crisi debitoria di questi paesi ebbe pesanti ripercussioni sul valore di mercato del debito creando serie difficoltà alle banche. Queste ultime, infatti, assistettero ad una drastica diminuzione del valore effettivo delle proprie attività e molte di esse si trovarono in uno stato di effettiva insolvenza (esplicitato in Allegato “B”).
Particolarmente fragile risultava essere la condizione delle principali banche statunitensi che risultavano essere fortemente esposte verso i PVS, in particolare nei confronti dei paesi dell'America Latina[4], che rischiavano di porre in serio pericolo la stabilità dell'intero sistema finanziario internazionale.
Di fronte ad un rischio così rilevante i maggiori paesi industrializzati si attivarono ponendo notevoli pressioni sui paesi colpiti dalla crisi debitoria affinché questi non dichiarassero default ma almeno continuassero a pagare gli interessi sui debiti. Come spiegato nell’Allegato “B” la continuazione del servizio sul debito oltre che alleviare le perdite dei creditori è stata particolarmente importante in quanto non ha obbligato le banche commerciale ad apporre nel bilancio i crediti verso i PVS al loro valore di mercato, salvandole in sostanza da un possibile fallimento. Anche la Federal Reserve, preoccupata della stabilità del sistema bancario americano, agì con decisione aumentando notevolmente l'offerta di liquidità nel sistema (in Allegato “C” è esplicitata la relazione tra liquidità e solvibilità).
Le misure adottate dai paesi debitori per fronteggiare la crisi si rivelarono invece generalmente inefficaci se non controproducenti. In particolare la riduzione del deficit di bilancio avvenne soprattutto tramite consistenti tagli alla spesa per investimenti. Se efficace nel breve periodo, questa misura si è dimostrata fortemente controproducente nel lungo periodo poiché ha avuto effetti negativi sulla crescita di questi paesi e dunque sulla loro capacità di pagare il debito in futuro. Inoltre a fronte di un divario sempre crescente tra spese interessi sul debito ed entrate fiscali i paesi dell'America Latina hanno fatto affidamento in misura sempre maggiore alle entrate derivanti dal signoraggio.
Politiche di questo tipo hanno accentuato le preoccupazioni dei mercati finanziari: gli investitori internazionali erano sempre più scettici sia sulle reali possibilità di crescita di questi paesi a fronte degli elevati tagli agli investimenti pubblici, sia sulla possibilità di sopportare gli elevati tassi di inflazione causati dal frequente ricorso al signoraggio. A parte il caso di vera e propria iperinflazione verificatosi in Bolivia nel 1985 la maggior parte dei paesi dell'America Latina sperimentò prolungati periodi di elevata inflazione (maggiore del 100% annuo) sino all'inizio degli anni '90.
1.e. Il problema del debt overhang
Il debt overhang può essere definito in questo modo:
il valore di mercato (V ) del debito equivale al valore attualizzato atteso dei futuri flussi di pagamenti e non è necessariamente pari al valore nominale (D) del debito stesso. Quando V < D il mercato valuta la capacità di ripagare il debito come inferiore al valore del debito stesso. Identifichiamo con debt overhang O = D – V, ovvero la parte del debito che non può essere ripagata dallo Stato. Il debt overhang influenza la condotta economica del paese debitore in modo indiretto più che diretto:
poiché infatti “O” si riferisce alla parte del debito che il paese non è in grado di ripagare, in quanto non ripagato non pesa in alcun modo direttamente sulla condizione economica del debitore.
Tuttavia il debt overhang esercita un effetto fortemente distorsivo sugli incentivi sia del policymaker che degli investitori. Mantenendo l'assunzione che V < D, “V” identifica una componente stocastica: è il valore atteso della capacità di generare flussi di pagamenti da parte dello Stato. Questa capacità è infatti incerta in quanto dipende dall'ambiente economico che è per definizione incerto anch’esso: un periodo di boom genera un incremento delle entrate fiscali aumentando la capacità di ripagare il debito, mentre un periodo di recessione diminuisce le entrate fiscali riducendo la capacità del paese di ripagare il debito. “V” tuttavia dipende anche dalle politiche economiche intraprese dal governo.
La presenza di un debt overhang può distorcere fortemente questa scelta: “O” infatti definisce una obbligazione latente che, a meno che il contratto di debito non venga rinegoziato, continua a pendere sulle finanze dello Stato debitore. In queste condizioni il governo dello Stato debitore vede ridursi gli incentivi a compiere politiche economiche che ne migliorino le condizioni economiche. Infatti non potrebbe godere dei benefici che sarebbero assorbiti dal pagamento del debt overhang.
Il debt overhang agisce dunque come una tassa latente su tutte le possibili azioni migliorative delle condizioni economiche dei paesi indebitati e distorce fortemente le conseguenti scelte economiche.
L'effetto distorsivo del debt overhang influisce anche sulle scelte di investimento verso il paese indebitato. Poiché infatti esiste una tassa latente sul paese in questione gli investitori possono temere una possibile confisca dei profitti o una tassazione straordinaria sugli stessi.
Ciò costituisce un forte deterrente ad investimenti privati nei paesi in cui è presente il debt overhang.
Alcuni economisti (tra cui Paul Krugman, Jeffrey Sachs e Peter Kenen) ritengono che gli effetti distorsivi del debt overhang siano tali da essere in grado di generare una curva di Laffer del debito (figura 1).
Vedasi Figura 1 : curva di LAFFER del debito.
La figura ci aiuta a comprendere meglio l'argomento che stiamo trattando: in essa sull'asse delle ascisse è rappresentato il valore nominale dei pagamenti dovuti dal paese debitore (?), ovvero il valore nominale del debito più gli interessi; sull'asse delle ordinate è invece rappresentato il valore di mercato del debito (V), che indica ciò che i creditori si attendono venga ripagato.
La relazione tra le due variabili non è necessariamente monotona: per piccoli ammontare di debito, al crescere dello stesso aumenta anche il valore di mercato V . Tuttavia man mano che il debito cresce, contemporaneamente aumenta anche il rischio di insolvenza dello Stato; inoltre gli effetti distorsivi del debt overhang si fanno via via più consistenti. Esiste un livello di D oltre il quale la relazione tra le due variabili da positiva diviene negativa, cioè in corrispondenza di aumenti di una di esse, l’altra diminuisce.
Consideriamo ora un paese che si trovi sul lato destro della curva e supponiamo che l'ammontare nominale di risorse che deve pagare sia pari a D; il corrispondente valore di mercato è pari a V. Se i creditori insistono per avere il completo pagamento del debito, ciò che ragionevolmente si possono attendere è dunque V anziché D. Tuttavia se i creditori si potessero accordare per cancellare parte del debito, ad esempio l'ammontare D - D vedrebbero aumentare (da V a V ) il pagamento atteso da parte del debitore.
L'intuizione che sta alla base di questo risultato è la seguente: cancellando parte del debito vengono anche rimosse tutte le distorsioni che erano presenti con il debt overhang e vengono allo stesso tempo liberate risorse che possono essere investite più proficuamente nel paese debitore permettendogli di crescere maggiormente.
Occorre sottolineare che questo risultato va preso con la dovuta cautela. Innanzitutto gli economisti sono divisi sul fatto che una curva di Laffer del debito esista veramente, secondariamente non è detto che tale curva esista per tutti i paesi. L'aspetto più problematico, inoltre, è costituito dal fatto che è molto difficile valutare in quale punto della curva un paese si trovi. Ne consegue che gli schemi di riduzione del debito dei PVS dovrebbero essere considerati caso per caso proprio perché è difficile valutare la posizione di ogni singolo paese.
Alla fine degli anni '90 era tuttavia opinione diffusa che la maggior parte dei PVS fortemente indebitati si trovasse alla destra della curva di Laffer e che dunque per essi uno schema di riduzione del debito fosse opportuno.
1.f. La soluzione della crisi
Alla metà degli anni '80 era dunque chiaro che i PVS dovessero essere alleviati in qualche modo del peso del debito, altrimenti sarebbero stati impossibilitati ad una sufficiente crescita economica.
Quanto esposto nel paragrafo precedente ci aiuta a comprendere quanto fosse difficile e lunga la strada verso la risoluzione della crisi. Da una parte infatti i governi dei paesi industrializzati, preoccupati della sorte del proprio sistema bancario, facevano pressione sui PVS affinché questi ultimi continuassero a servire il debito, dall'altra i crescenti oneri debito contribuivano a rendere sempre più insostenibile il debt overhang. Ciò rendeva più probabile il default dei paesi indebitati facendo diminuire maggiormente il valore di mercato del debito e peggiorando ulteriormente la condizione economica delle banche commerciali che detenevano il debito stesso.
1.g. Il piano Baker
Il primo tentativo di risoluzione generalizzato della crisi debitoria fu il piano proposto nel 1985 dall’allora Segretario di Stato americano James Baker.
Il piano prevedeva un differimento temporale nel pagamento delle obbligazioni da parte dei paesi debitori; questi ultimi avrebbero anche potuto usufruire di aiuti aggiuntivi da parte del Fondo Monetario Internazionale. Non veniva tuttavia proposto alcuno schema di riduzione del debito, sostanzialmente perché si temeva che i bilanci delle banche commerciali dei paesi industrializzati fossero ancora troppo fragili. Ma il piano Baker si rivelò un sostanziale fallimento, anzi aveva dimostrato che la traslazione del debito verso scadenze più lunghe non faceva altro che peggiorare le cose accrescendo il debito totale.
Spostare i pagamenti in avanti o rifinanziare gli arretrati fu una scelta fallimentare che non teneva assolutamente conto che il vero e proprio problema non era limitato alla sola carenza di liquidità, ma era strutturale.
1.h. Il piano Brady
Nel marzo 1989 il Segretario di Stato americano Nicholas Brady propose un ulteriore schema di risoluzione della crisi debitoria.
Il piano Brady affrontava il punto decisivo, ovvero le forme di riduzione del debito dei PVS e, in sintesi, prevedeva che il paese debitore proponesse alle banche commerciali creditrici un insieme di alternative forme di riduzione del debito tra cui le banche potevano scegliere. In pratica con tale piano, che comunque sortì qualche effetto, si è tentato di realizzare la riduzione del debito attraverso la rinegoziazione su un mercato secondario al suo valore reale.
1.i. Debito estero e default : aspetti teorici
Finora abbiamo brevemente ripercorso la storia del debito estero ed abbiamo analizzato le problematiche suscitate dalla crisi debitoria degli anni ‘80.
Riassumendo brevemente le conclusioni tratte dall'evidenza empirica possiamo affermare che:
· la storia del debito dei PVS è una storia complessa in cui i casi di default totale o parziale sono stati relativamente frequenti;
· i paesi debitori, anche in stato di effettiva insolvenza, hanno generalmente cercato di onorare i debiti esistenti anche a costo di notevoli sacrifici;
· la relazione tra paesi debitori ed i loro creditori è una relazione a lungo termine complessa che spesso ha comportato, nell'arco della sua durata, default parziali e /o rinegoziazioni dei termini.
Questi fatti, seppur stilizzati, pongono notevoli questioni dal punto di vista teorico, tenendo in considerazione la natura particolare del contratto di credito con uno Stato sovrano, in cui non esiste, come già detto in precedenza, una istituzione sovranazionale in grado di imporsi facendo rispettare i contratti.
Richiamiamo, per cercare ora di dare una risposta, i due quesiti formulati nell’introduzione: per quale ragione dunque gli Stati sovrani, pur in stato di insolvenza, non dichiarano default totale ma sostengono sforzi economici onerosi pur di onorare seppur parzialmente i loro debiti? Per quale ragione, inoltre, i PVS ricevono credito tout court, anche in seguito a casi di default?
Un semplice motivo per cui i PVS ricevono fondi dai mercati finanziari è spiegato dal fatto che tali crediti sono relativamente remunerativi. Eichengreen and Portes (1989) hanno dimostrato che i rendimenti effettivi (ovvero tenuto conto dei casi di default o di rinegoziazione) dei titoli di debito emessi dai PVS negli anni '20 erano equivalenti ai rendimenti dei più sicuri titoli di stato inglesi o statunitensi. Inoltre Lindert and Morton (1990) hanno esaminato un ampio campione di prestiti effettuati ai PVS tra il 1850 ed il 1970 trovando che il rendimento effettivo di questi titoli superava dello 0.42% il rendimento reale dei titoli del tesoro americani. Dunque malgrado si verifichino casi di default e/o di rinegoziazione, il rendimento medio effettivo ex post di questi titoli si è rivelato essere positivo e maggiore del rendimento dei titoli non rischiosi.
Il fatto che i rendimenti effettivi siano elevati non costituisce comunque un elemento sufficiente per giustificare a livello teorico il prestito ai PVS. Non si spiega inoltre per quale motivo, una volta ricevuto il prestito, gli Stati sovrani compiano ogni sforzo per ripagarlo in quanto in assenza di un organismo che possa obbligare uno Stato sovrano al pagamento del debito è necessario che lo Stato stesso desideri ripagarlo. In altri termini il contratto di debito deve contenere al suo interno esplicitamente o implicitamente dei meccanismi di punizione che lo rendano auto-vincolante.
Una prima ipotesi è che un meccanismo di punizione sia costituito dalla perdita di reputazione sui mercati finanziari internazionali. Stando a questa ipotesi i paesi debitori cercherebbero in ogni modo di onorare i propri impegni debitori temendo che in caso contrario verrebbero esclusi dai mercati finanziari da cui non potrebbero più attingere in futuro. Questa ipotesi non trova tuttavia una chiara conferma dall'analisi empirica: Lindert and Morton (1990) mostrano infatti che il comportamento passato dei paesi debitori esercita una influenza molto limitata sulle scelte degli investitori.
Una seconda ipotesi suggerisce che il meccanismo di punizione sia costituito dalla minaccia di sanzioni commerciali. In effetti nei casi di default si è spesso osservato che i paesi debitori hanno dato priorità, nel pagamento del debito, ai creditori dei paesi con cui avevano i legami commerciali più stretti: ad esempio Brasile e Argentina diedero un trattamento privilegiato ad Inghilterra e Stati Uniti durante la crisi degli anni '30.
2. Provvedimenti adottati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale.
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM) sono le istituzioni che si sono occupate di intermediare negli anni le relazioni tra banche, governi dei paesi creditori e governi dei paesi debitori. La strategia del FMI risponde ad un preciso modello di sviluppo dell’economia.
L’obiettivo delle politiche di aggiustamento strutturale (PAS) si concentra in via prioritaria sulla crescita economica attraverso una forte spinta dal lato delle esportazioni. Si tratta di ridurre la domanda interna di risorse e di estendere le possibilità di ripagare il debito, sfruttando l’avanzo commerciale realizzato con le esportazioni. Allo scopo di ottenere questo risultato, si impongono politiche di svalutazione del cambio (che permette di incrementare le esportazioni specie verso quei paesi che hanno una moneta “forte”), di liberalizzazione delle attività economiche attraverso privatizzazioni e di riduzione del deficit pubblico.
Queste politiche sono accompagnate dalla liberalizzazione dei prezzi dei salari e dalla riduzione dei dazi allo scopo di favorire il commercio con l’estero. L’attivazione delle procedure di negoziazione del debito con i PVS è condizionata alla realizzazione di queste misure ma in molti paesi, però, la stessa ricetta ha semplicemente rafforzato le situazioni di disagio, facendo crescere i prezzi dei beni essenziali, riducendo i salari ed aumentando drammaticamente il numero di famiglie in condizioni di povertà. E’ questo il caso di 41 paesi HIPC (Heavily Indebted Poor Countries -Paesi poveri molto indebitati-).
Se infatti nel breve periodo la svalutazione della moneta favorisce l’export di materie prime, prodotti agro-alimentari e fibre tessili, nel lungo periodo attiva una concorrenza tra altri PVS produttori delle medesime merci producendo come risultato un calo dei loro prezzi sul mercato internazionale.
La liberalizzazione delle attività economiche, invece, ovvero il cosiddetto “riordino dei prezzi”, prevede l’eliminazione di tutte le sovvenzioni ed i controlli atti a sostenere il mercato interno nei confronti dell’import. Tale liberalizzazione, però, in molti casi ha comportato una riduzione delle entrate doganali dello Stato che si è visto così costretto ad inasprire (dove poteva) la pressione fiscale sui propri cittadini.
La riduzione del deficit pubblico, inoltre, ha spesso comportato dei tagli notevoli alla spesa pubblica, ottenuti in seguito a notevoli licenziamenti di personale impiegato in tale settore, quali insegnanti, medici e/o paramedici, con gravi conseguenze sull’indice di alfabetizzazione e sulla salute pubblica. Ciò ha però almeno fatto sì che la BM accettasse, di recente, strumenti di misurazione della povertà meno semplificativi del mero “tasso di crescita dell’economia”. Da qualche anno infatti si è imposto all’attenzione degli analisti “l’indice di sviluppo umano” elaborato dalle Nazioni Unite (UNDP) per la misurazione del benessere economico dei paesi. Esso considera non solo indicatori di reddito, ma anche gli obiettivi realizzati nella promozione della salute e dell’alfabetizzazione. Per dirla in breve, non è assolutamente veritiero che un paese “X” con un reddito pro-capite ad esempio di 1000 dollari/anno ma con un indice di alfabetizzazione ed una spesa pubblica per la salute molto bassi, sia “più benestante” di un paese “Y” con un reddito pro-capite minore ma con un tasso di alfabetizzazione e con una spesa per la salute pubblica molto maggiori.
A titolo di curiosità, nell’ultima graduatoria relativa all’indice di sviluppo umano stilata dall’UNDP, il primo posto è occupato dal Canada, il sesto dagli USA, il ventesimo dall’Italia. Agli ultimi sedici posti risultano esservi solo paesi dell’America Latina e dell’Africa (l’ultimo in assoluto è della Sierra Leone).
2.a. Programmi di implementazione.
Nel 1996 (quando l’ammontare complessivo del debito estero ha raggiunto i 2200 miliardi di dollari, esattamente il doppio del valore raggiunto solo dieci anni prima, nel 1986) è stato elaborato un programma di rientro del debito per i paesi più poveri, implementando una procedura per i paesi HIPC. Si tratta di un’iniziativa promossa dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale e relativa al coordinamento tra il programma di rientro del debito ed il programma di aggiustamento strutturale, finalizzato alla cancellazione del debito stesso.
I PVS devono impegnarsi in un programma di riforme economiche accompagnato da misure di lotta alla povertà nei primi tre anni, ovvero fino al raggiungimento del cosiddetto "Decision Point". Allorché i risultati pianificati sono raggiunti, si provvede alla cancellazione del debito dopo una seconda fase di tre anni (Completion Point). Con un recente intervento questi tempi sono stai ridotti ad un unico anno.
L’iniziativa è ancora insufficiente e solo agli inizi e pone forti condizioni ai paesi indebitati. Allo stato attuale è in corso la procedura di raggiungimento del "decision point" per 36 paesi dei 41 HIPC.
Di recente si sono individuati tre principi chiave aggiuntivi a quelli originari dell’iniziativa HIPC, che coniugano in modo appropriato la lotta al debito e la povertà:
· la realizzazione di un appropriato schema macroeconomico integrato con lo schema di riduzione della povertà;
· un programma di riduzione della povertà che sia coordinato dal paese debitore e che coinvolga le popolazioni locali;
· l’integrazione della remissione del debito in una strategia anti-povertà, con l’iscrizione nel bilancio dello stato della disponibilità di spesa "liberata" dall’onere di ripagamento del debito.
La democratizzazione del processo economico è inoltre uno degli obiettivi ultimi di questa strategia. Ovviamente, in paesi dove è difficile la stessa implementazione di un sistema democratico, si tratta di un obiettivo di lungo periodo. Ma è un obiettivo importante affinché le politiche di intervento raggiungano effettivamente la popolazione.
Inoltre, si segnala la flessibilità richiesta da questi paesi nei confronti degli obiettivi macroeconomici fissati dai creditori affinché le strategie di stabilizzazione ed aggiustamento strutturale (finora realizzate con eccessiva rigidità), lascino ampio spazio ad un utilizzo mirato per esempio dei programmi di spesa pubblica.
Sembrano importanti due conclusioni: da un lato si riconosce l’urgenza di trattare in modo consistente la remissione del debito e la lotta alla povertà, dall’altro si sollecita un processo di riduzione del debito capace di condizionare anche le scelte dei governi locali, inducendoli ad adoperarsi per il cambiamento della qualità della vita dei cittadini.
Affinché la cancellazione del debito sia lo scenario concreto per il futuro, è bene ricordare il ruolo giocato dall’iniziativa giubilare della Chiesa italiana, la quale ha predisposto un’importante piano di sostegno alla riduzione del debito nel corso dell’anno Giubilare, facendo seguito ad un impegno già intenso degli anni passati. L’iniziativa ha il carattere di un progetto e di un modello particolarmente rilevante per lo sviluppo futuro dei Paesi coinvolti.
Un comitato della Chiesa Italiana ha contrattato con il paese debitore alcune condizioni per la remissione del debito in termini di politiche di lotta alla povertà. Ha posto, inoltre, come condizione l’esistenza di un governo democratico, in modo da limitare il rischio di comportamenti opportunistici da parte di un governo autoritario. Inoltre, poiché la raccolta fondi implica che sia cancellato il debito (almeno quello considerato esigibile), il detentore del credito è coinvolto nel programma.
I fondi raccolti dalla Chiesa Italiana serviranno ad "acquistare" il debito per la cancellazione successiva al prezzo di mercato e il governo del paese debitore dovrà rendere disponibile una somma equivalente nel suo bilancio in un fondo di contropartita, che sarà gestito insieme alla Chiesa locale e ad altre organizzazioni per progetti di lotta alla povertà. Con questo meccanismo il governo locale non viene disincentivato dal predisporre somme nel proprio bilancio, perché la contropartita concreta è la remissione del debito. I soggetti locali sono poi coinvolti in un’azione di monitoraggio, oltre che di partecipazione ai benefici del programma.
Essa ottiene contemporaneamente alcuni risultati:
· la remissione del debito ed il riconoscimento del valore di mercato del debito nel momento in cui esso viene rimesso, ovvero nel momento in cui viene restituito;
· l’attivazione di una misura di compensazione nel bilancio pubblico del paese debitore, cui il governo è incentivato dalla prospettiva di uscire dalla spirale del debito;
· l’implementazione di corrispondenti misure di lotta alla povertà, in collaborazione con i governi che rimettono il debito, monitorate da soggetti locali e da organizzazioni della società civile.
Sembra prefigurarsi uno scenario futuro migliore, sebbene il realismo debba indurre a pensare che solo in alcuni anni si potrà raggiungere l’obiettivo finale (la cancellazione del debito).
Nel frattempo, occorre non sprecare l’attenzione attuale verso una questione centrale per lo sviluppo economico di quei paesi. Solo l’attiva partecipazione del mondo sviluppato potrà trasformare un programma di riequilibrio finanziario in un’occasione per la riduzione della povertà.
I Paesi industrializzati hanno comunque deciso di scommettere sul "rinascimento dei PVS": infatti, alla Conferenza Internazionale sullo Sviluppo, tenutasi a Monterrey (Messico) nel marzo 2002, essi hanno sottoscritto solennemente l'impegno di elevare l'aiuto allo sviluppo allo 0,39% del proprio PIL entro il 2006 (attualmente, tale percentuale è dello 0,20% circa), nella prospettiva di elevare successivamente tale livello allo 0,70%. Questo significa che il nostro paese si è impegnato (e tale impegno è stato ribadito anche al Vertice UE di Barcellona ed alla Conferenza della FAO del 10 giugno 2002) quasi a triplicare i suoi livelli attuali di aiuto allo sviluppo.
I paesi sviluppati devono essere consapevoli che avere la libertà e soprattutto la responsabilità di dover decidere della sorte di quelli poveri può tramutarsi, quando le politiche vengono condotte per scopi personali, nel “peggior danno che si possa fare” (Platone), e che usare tale potere per saccheggiare liberamente o “legalmente” le proprietà ed i diritti degli inermi e dei deboli è inammissibile ed eticamente condannabile (Giddens).
“La libertà dalla fame e dalla povertà è un diritto fondamentale, senza il quale tutti gli altri diritti non esistono” (intervento del Presidente del Consiglio Italiano alla Conferenza della FAO del 10 giugno 2002).
Questa è la vera pre-condizione per la crescita economica dei PVS.
Allegato A
Club di Parigi e Londra.
I club di Parigi e Londra sono tavoli di negoziazione cui si siedono i paesi debitori e i loro creditori per rinegoziare i termini del debito esistente. La differenza tra i due club sta nella composizione dei creditori partecipanti: mentre al club di Parigi sono riuniti i governi e le istituzioni internazionali creditori, al club di Londra sono riunite le banche commerciali private creditrici. Il club di Parigi è stato istituito nel 1956 mentre il club di Londra è più recente e risale al 1976 [1]. Al fine di partecipare a questi tavoli negoziali il paese debitore deve essere accertato (generalmente dal Fondo Monetario Internazionale) essere impossibilitato a far fronte al servizio del debito (questa condizione è necessaria al fine di evitare un uso strategico del default). I due club non sono delle istituzioni vere e proprie ma semplicemente un insieme di regole e convenzioni cui debitori e creditori decidono di aderire. I fondamentali principi ispiratori sono un eguale trattamento dei diversi creditori (il paese debitore si impegna a non offrire a creditori che non aderiscono agli accordi negoziali termini migliori di quelli contrattati durante tali accordi) e la condizionalità degli accordi al rispetto da parte del paese debitore a piani di risanamento economico definiti in genere dal Fondo Monetario Internazionale. La ragione di fondo che ha determinato la nascita di questi due club è duplice: da una parte, riunendo contemporaneamente molti creditori le procedure di rinegoziazione del debito divengono più efficienti, dall'altra i creditori stessi hanno un maggior potere contrattuale insieme piuttosto che presi singolarmente.
Allegato B
Crisi bancarie e crisi debitorie.
Per comprendere meglio il meccanismo con cui le crisi debitorie possano trasformarsi in crisi bancarie è opportuno considerare una rappresentazione semplificata del bilancio di una banca commerciale.
Le passività sono costituite da due componenti principali: i depositi dei clienti e i depositi dei soci (azionisti), ovvero il capitale sociale. In genere i depositi ammontano a circa il 90% delle passività mentre il capitale a circa il 10%.
Il lato delle attività è invece composto da tre componenti principali: i prestiti effettuati, i titoli (azioni e titoli di stato) detenuti in portafoglio e gli immobili.
L'aspetto cruciale è costituito dalla valutazione delle attività : i prestiti e i titoli in genere, se quotati nel mercato, hanno due valori: un valore nominale ed un valore di mercato. Ad esempio supponiamo che l'Argentina emetta un prestito obbligazionario sul mercato. Il titolo emesso ha tre caratteristiche principali: il valore nominale, solitamente pari a 100, che costituisce il valore di rimborso del titolo, il tasso di interesse (fisso o variabile) e la durata. Il titolo ha tuttavia un valore di mercato (o prezzo) che non necessariamente coincide con il valore nominale.
Supponiamo che il titolo argentino abbia le seguenti caratteristiche: valore nominale 100, durata 1 anno e tasso di interesse fisso del 10%. Ciò significa che acquistando il titolo si ha diritto di ricevere per 1 anno una cedola del 10% e alla fine del periodo il valore nominale di 100. Ipotizzando che i tassi di interesse di mercato per titoli di eguale durata siano anch'essi del 10%, il prezzo di mercato del titolo sarà dunque pari al proprio valore nominale. Supponiamo ora che i tassi di interesse internazionali aumentino improvvisamente all' 11%. I detentori del titolo argentino si trovano a possedere un titolo che offre un rendimento minore di altri titoli equivalenti; essi venderanno senza indugio il titolo in questione per acquistare i più attraenti titoli con la cedola all'11%. La vendita fa però diminuire il prezzo del titolo, ma fino a quando tale prezzo diminuirà?
La risposta ci viene fornita dalla semplice relazione di arbitraggio: i rendimenti di due titoli equivalenti devono essere identici. Il prezzo scenderà sino a riportare il
segue Allegato B
rendimento del titolo argentino all'11%. In altri termini il prezzo scenderà sino a 99. In questo modo un investitore può acquistare il titolo a 99, mentre tra un anno gli verrà corrisposta la cedola del 10% e gli verrà rimborsato un valore pari a 100. Il 10% più 1% di guadagno in conto capitale fanno si che il rendimento del titolo argentino sia ora dell'11% soddisfacendo così la relazione di arbitraggio.
Analogamente se l'Argentina dichiarasse default sul debito oppure si rifiutasse di pagare gli interessi sullo stesso gli investitori venderebbero il titolo causando una notevole diminuzione del suo prezzo di mercato. Ritorniamo ora al bilancio della nostra banca e supponiamo che essa abbia tra i prestiti un titolo argentino. A quale valore la banca deve mettere a bilancio il titolo? Al valore di mercato (99) o al valore nominale (100)? I principi contabili dei vari paesi stabiliscono delle regole in questo senso, tuttavia esistono notevoli discrezionalià nella valutazione dei titoli. In generale la banca dovrebbe mettere a bilancio quello che valuta essere il reale valore del titolo[2], ma appunto questa valutazione può essere alquanto discrezionale. Supponiamo che la banca abbia tra i propri prestiti numerose obbligazioni di paesi coinvolti nella crisi debitoria. In seguito al default di alcuni paesi il valore di mercato dei prestiti è ora di 30 anziché 60. Se la banca registrasse nel bilancio il valore di mercato dei propri prestiti diverrebbe ufficialmente insolvente: il valore delle proprie attività non sarebbe sufficiente non solo a ripagare il capitale (e i dividendi) degli azionisti ma nemmeno a ripagare in toto i depositi. La banca dovrebbe dunque dichiarare fallimento.
Le principali banche statunitensi negli anni '80 si sono trovate esattamente in questa situazione; essendo fortemente esposte verso i paesi dell'America Latina coinvolti nella crisi debitoria si sono trovate di fatto in situazioni di insolvenza. Hanno reagito a questa situazione nascondendo le proprie situazioni problematiche riportando nei propri bilanci il valore nominale dei prestiti anziché il valore di mercato.
segue Allegato B
Ciò spiega anche il crollo del mercato dei titoli negli anni '80: pur avendo prezzi di mercato molto al di sotto del valore nominale, di fatto non vi era alcun mercato per questi titoli: nessuna banca o istituzione finanziaria cercava di vendere questi titoli perché in caso di vendita sarebbe stata obbligata a riportare nel bilancio il valore di realizzo del titolo e quindi la perdita sullo stesso.
Allegato C
Liquidità versus insolvenza.
E' fondamentale comprendere la differenza esistente tra liquidità e solvibilità. La
solvibilità ha a che fare con la natura stessa del bilancio di una istituzione economica (sia essa una impresa, una banca o lo Stato stesso), mentre la liquidità ha invece a che fare con la struttura temporale di attività e passività presenti nel bilancio stesso. Consideriamo una tipica banca commerciale. Essa raccoglie i depositi presso la clientela e utilizza questi depositi per effettuare investimenti (titoli, obbligazioni, immobili e prestiti vari). La solvibilità ha a che fare con il valore complessivo di attività e passività. La banca è solvente fintantoché il valore delle proprie attività è pari a quello delle proprie passività, ovvero quando i propri investimenti riescono almeno a preservare il valore del capitale conferito da azionisti e depositanti. Può accadere che una cattiva gestione dei propri investimenti oppure un evento drammatico rendano la banca insolvente. Ad esempio la banca può aver investito buona parte dei propri fondi in attività immobiliari che improvvisamente vengono distrutte da un terremoto. Questo evento riduce drasticamente il valore delle attività che non sono più in grado di coprire i depositi: la banca diviene insolvente e fallisce.
La maggior parte delle banche, pur essendo solventi, sono tuttavia illiquide. Esiste cioè un mismatch tra la struttura temporale dei depositi e quella degli investimenti. Mentre infatti i depositi sono a breve termine, buona parte degli investimenti effettuati sono a lungo termine[3].Ciò significa che se una quota consistente dei clienti ritirasse i depositi (perché ad esempio si diffonde la voce che la banca è insolvente anche se effettivamente non lo è) la banca potrebbe trovarsi senza sufficienti fondi liquidi, non potendo liquidare in tempi brevi gli investimenti a lungo termine (si pensi ad esempio ai tempi necessari per vendere un immobile). In questo caso la banca, pur essendo intrinsecamente solvente, si trova in una crisi di liquidità.
E' chiaro che il significato economico di insolvenza e illiquidità è radicalmente differente. Mentre una banca insolvente è economicamente inefficiente e deve
Segue Allegato C
essere liquidata, una banca esposta ad una crisi di liquidità non è economicamente inefficiente.
In questo caso la soluzione più opportuna sarebbe quella di trovare prestiti a breve per far fronte alla crisi di liquidità.
BIBLIOGRAFIA
Emilio Colombo-Marco Lossani , (2002) Economia Monetaria Internazionale.
Sito internet www.studiperlapace.it
Sito internet www.puntodifraternità.it
Sito internet www.manitese.it
Sito internet www.unimondo.org
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[1] Il nome club di Parigi deriva dal fatto che la negoziazione deve tenersi a Parigi alla presenza di un funzionario francese; il termine club di Londra deriva dal fatto che la prima sessione di negoziazione (1976 per il debito dello Zaire) si svolse per l’appunto a Londra, ma non vi è alcun obbligo a svolgere tali negoziazioni nella capitale Britannica.
[2] In Italia, secondo il Principio prudenziale le banche dovrebbero mettere a bilancio il minor valore tra il prezzo di mercato ed il valore nominale.
[3] Le banche investono a lungo termine sia per diversificare il proprio portafoglio sia perché devono ripagare i propri azionisti pagando loro i dividendi. Gli investimenti a lungo termine offrono infatti in genere un rendimento superiore rispetto a quelli a breve termine.
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[1] Gli USA sostituirono i paesi europei come fonte di risparmio cui i PVS potevano attingere, ma solo in parte. In quegli anni infatti gli Stati Uniti erano in forte crescita e gran parte dei risparmi veniva indirizzata verso forme di investimento interne.
[2] Per rinegoziazione si intende la ridefinizione dei termini del contratto tra debitori e creditori. In genere viene posticipato il pagamento degli interessi, ridiscusso il tasso d’interesse e ridotto il capitale (montante) che il debitore deve corrispondere.
[3] Il cosiddetto mercato degli EuroDollari –depositi denominati in dollari detenuti presso banche europee- subì una crescita esponenziale durante gli anni ’70.
[4] Alla fine del 1982 le nove maggiori banche statunitensi avevano una esposizione verso i PVS di quasi il 300% del valore del proprio capitale.
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