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LA GUERRA IN SIRIA Una guerra tra comunitą stanziali nella quale i problemi demografici hanno avuto il loro peso 20/06/2016 - Massimo Iacopi (Assisi (Perugia)) Premessa La guerra civile in Siria è anche una guerra di comunità. Gli Alawiti, per lungo tempo favoriti dal potere, sono oggi politicamente potenti, ma il loro peso demografico si assottiglia. Questa situazione ha alimentato presso di loro una forma di paura, quella di scomparire, elemento che è, in parte all’origine della crisi siriana. Se le conseguenze della guerra in Siria sulla demografia del paese sono più o meno conosciute e percepibili, le cause propriamente demografiche di questo conflitto lo sono di meno. In tutti i media, hanno molto spesso la priorità le spiegazioni che mettono in scena gli attori internazionali (USA, Russia, Francia) o regionali (Iran, Turchia, Israele). Eppure la guerra siriana - occorre ricordarlo - ha in primo luogo mobilitato i Siriani. Le loro divergenze socio-economiche, confessionali, ideologiche sarebbero all’origine della disputa ? In ogni caso, una analisi delle sfide demografiche che si pongono al paese consente di comprendere meglio la genesi di questa guerra. Vale la pena iniziare col ricordare gli effetti catastrofici sulla popolazione di un conflitto la cui durata supera ormai quella della guerra civile americana, della guerra di Spagna o della Grande Guerra. Se le cifre di cui si dispone rimangono approssimative, il bilancio umano che ne consegue si appesantisce sempre di più nel corso dei mesi. Le cifre di 250 mila morti, 20 mila dispersi, 8 milioni di profughi all’interno del paese, come anche 4-5 milioni di rifugiati fuori dai suoi confini saranno ben presto inevitabilmente superati, senza contare che queste stime sono spesso indicate per difetto. Un bilancio drammatico La Siria disponeva di 21 milioni di abitanti nel marzo 2011, alla vigilia del conflitto; essa ne conterebbe oggi poco più di 18 milioni. Questa diminuzione è dovuta soprattutto ad un esodo massiccio delle popolazioni che fuggono dai combattimenti verso i paesi vicini (Libano, Giordania o la Turchia) e più recentemente verso l’Europa. Prima del conflitto, la mortalità “normale” evidenziava una perdita di 70 mila persone all’anno. Dal’inizio della guerra, sono state all’incirca 130 mila persone che risultano morte ogni anno, vale a dire circa il doppio della media annuale. Meno visibili dei decessi, le nascite hanno subito una diminuzione a causa dei matrimoni differiti e della recrudescenza delle pratiche antinatali, come la contraccezione e l’aborto. La situazione è tanto più calamitosa, tanto più risulta a pezzi il sistema scolare: esso lascia uscire dalla scuola milioni di ragazzi o adolescenti con l’alta probabilità di diventare ragazzi soldati, obiettivo dei diversi gruppi armati e delle milizie che lacerano il paese. La Siria prima del 2011 era un paese in transizione e specialmente in transizione demografica. La sua fecondità, ancora esuberante negli anni 1980 (8 figlio per donna), è stata ridotta a meno della metà in 30 anni. La modernizzazione del paese e la crisi economica che ha imperversato a partire dagli anni 1980 hanno contribuito a tele risultato. Ma, dal 2000, questa transizione ha rallentato: 3,8 figli per donna nel 2000, 3,6 nel 2004 e 3,5 nel 2009. Come dire, che non esisteva più, prima della guerra, una diminuzione effettiva della fecondità. Questa rimaneva, peraltro, fra le più elevate del mondo arabo e mussulmano; a titolo di paragone, essa era due volte più elevata rispetto al Libano o nell’Iran, 60% più importante rispetto al Marocco ed una volta e mezza più elevata della Turchia. Soprattutto, la transizione demografica siriana non è stata omogenea. Le variazioni regionali nell’evoluzione della natalità sono tali che ci si domanda se si può ancora parlare per la Siria Stato-nazione coerente, come la Tunisia o il Marocco, che sono andati incontro negli ultimi anni ad una omogeneizzazione della loro demografia. In tal modo, contrariamente al resto del paese al centro, al nord e ad est, i Mohafazat (governatorati) costieri di Latakia, di Tartus e, più a sud, di Sueida presentano una fecondità molto bassa - non molto lontana dai tassi europei e di una crescita ugualmente debole, circa l’1,6%, avvero due volte meno che nel resto del paese. Queste disparità regionali in materia di fecondità ritagliano, in parte, le differenze confessionali o etniche della popolazione siriana. In effetti, in Siria l’ideologia giacobina dello Stato rifiuta e respinge questo genere di suddivisioni che considera come un reliquato dell’Impero ottomano o dell’epoca del Mandato francese (1920-1946), seguito allo smantellamento dell’Impero. Questa ideologia spiega in parte il mutismo ufficiale dei censimenti, dello stato civile o delle inchieste a riguardo. Tuttavia, la demografia confessionale riprende forza. I dati dei censimenti, dello stato civile e delle inchieste demografiche per sondaggio vengono messe in sistema per ottenere delle stime sui diversi gruppi che compongono il mosaico siriano. Le distinzioni percepibili sotto il mandato francese, che aveva frazionato la Siria in territori, in parte su basi confessionali, sembrano, a volte ed in maniera allarmistica, ritornare, almeno parzialmente all’ordine del giorno. Ricordiamo che la Francia aveva diviso la Siria in Territori degli Alawiti, Stato dei Drusi, Sangiaccato di Alessandretta, l’attuale Iskenderum (sunnito-turchi, alawiti e cristiani), Stato di Damasco (in maggioranza sunnita) e Stato di Aleppo (sunniti, con una grossa minoranza cristiana). I censimenti francesi fornivano la composizione confessionale con molti più dettagli rispetto ai censimenti ottomani, dove i mussulmani, siano essi sunniti, sciiti, alawiti o drusi, venivano fusi sotto un’unica denominazione. Oggi, le stime - spesso poco attendibili - della composizione confessionale ed etnica della Siria sono innumerevoli e sono talmente tante che appare impossibile riportarle tutte. Alcune fra di loro tendono ad ingrossare le minoranze, ponendole al 40% di fronte ad una ridotta maggioranza sunnita araba valutabile intorno al 60%. Una stima più ragionevole sarebbe quella del 27% delle minoranze contro il 73% degli arabi sunniti. Gli Alawiti al potere I Sunniti arabi sono ormai egemoni nella popolazione, ma essi risultano largamente marginalizzati dalla cosa pubblica dall’avvento al potere del Partito Baath a partire dal 1963. Ben lungi dall’essere un gruppo uniforme, i sunniti arabi formano piuttosto un aggregato composito costituito da cittadini e da contadini, da sedentari e da beduini, da Aleppini e da Damasceni. In altre parole, si tratta piuttosto di un gruppo informe, senza reale ossatura, senza uno “spirito di corpo”, senza “sentimenti di appartenenza” (asabiyyya, in arabo (1)). Oggi come ieri, la maggior parte dei sunniti arabi si sono schierati nei ranghi dell’opposizione. Tuttavia, in Siria come altrove, non esiste una congruenza perfetta fra l’appartenenza confessionale e le sensibilità politiche dei gruppi e degli individui. Il regime siriano degli Assad, padre e figlio, è riuscito ha rendere fedeli sunniti provenienti da gruppi di interessi diversi: politici, militari, membri degli ambienti d’affari di Damasco e più recentemente d’Aleppo, ma anche del sotto proletariato urbano o di certe tribù beduine. La confessione alawita, alla quale apparteneva il presidente Hafez el Assad, morto nel 2000, ed oggi suo figlio Bashar, come una parte del suo clan, conta complessivamente 2,5 milioni di anime, ovvero un po’ più del 12% della popolazione. Essa è dopo il 1970 e la presa di potere di Hafez el Assad per mezzo di un colpo di forza (detto il “movimento correttivo”), la sola confessione realmente intrecciata con il potere, pur essendo intimamente associata alla Siria. 500 mila alawiti arabi vivono in Turchia nel sangiaccato di Alessandretta e 100 mila risiedono nel Libano, il solo paese nel quale essi hanno una esistenza ufficiale (due deputati alawiti siedono nel parlamento libanese). Ben inteso, come è stato sottolineato, le sfere demografiche e politiche non coincidono perfettamente e l’opposizione siriana contra fra i suoi membri diverse personalità alawite. La confessione alawita, derivata dallo Sciismo duodecimano, si è a poco a poco allontanata da questo. Gli Alawiti hanno sviluppato delle forme di credenza trinitarie, iniziatiche e sincretiche. Essi credono, in particolar modo, alla metempsicosi, ovvero alla credenza nella reincarnazione dell’individuo dopo la morte. Essi non praticano la loro religione nelle moschee (luoghi che non possedevano fino a poco tempo fa), sono tolleranti nei confronti del consumo dell’alcool (ma non per la carne di porco), accettano le donne non velate ed hanno adottato strutture familiari che lasciano un grande spazio alla matrilocalità (era il fidanzato o lo sposo che andava ad abitare presso la famiglia della sua donna). Nel XIII secolo, il predicatore integralista Ibn Taymiyya aveva messo gli Alawiti al bando dell’islam ufficiale. Ma nel XX secolo gli Alawiti si sono riavvicinati all’islam, sia al Sunnismo che allo Sciismo. Emarginati durante l’era ottomana, gli Alawiti hanno saputo inserirsi nel periodo successivo nelle sfere più importanti del potere: l’esercito, il partito e lo Stato. Instaurando fra il 1922 ed il 1936 uno “Stato degli Alawiti”, il mandato francese ha consentito loro l’accesso alle forze militari dove si sono affermati ben al di là del loro peso demografico. Per questa minoranza, allora largamente debole, questa diventava la via reale della mobilità sociale. Paradossalmente, a partire dal 1946, in una Siria indipendente e dominata dai Sunniti, gli Alawiti hanno saputo consolidare le loro posizioni; a partire dal 1955, il 65% dei sottufficiali siriani era alawita, 15 anni prima del loro accesso al vertice dello Stato. Nel 1977, il 61% dei militari di alto rango e delle forze di sicurezza erano alawiti, mentre solo il 35% era sunnita. Naturalmente, il potere ha favorito questa tendenza. Sotto il mandato francese, il 97% degli Alawiti viveva nella campagna, praticando una agricoltura di montagna, piuttosto povera. Essi erano per la maggior parte di loro dei mezzadri che lavoravano sotto il potere di signori locali, quelli di Hama, in particolare. Per completare i loro modesti introiti, alcuni “vendevano” lo loro figliolette come “serve tuttofare” per i servizi dei borghesi di Latakia, di Hama, di Damasco ed anche di Beyruth. Il nuovo regime ha aperto loro le porte del litorale come Latakia, Tartus e Baniyas, tutte originariamente bastioni sunniti. L’espansione alawita, nondimeno, non si è arrestata alla costa; essa ha proseguito verso la capitale Damasco e verso le grandi città di Homs e di Hama (ma non in Aleppo), grazie ad un reclutamento preferenziale nel settore pubblico (specialmente nelle amministrazioni e nelle imprese di Stato) e più tardi grazie ad un accesso al settore privato, a lungo tempo “terreno privato” dei Sunniti e dei Cristiani. L’accesso all’insegnamento, specialmente universitario, con la concessione preferenziale di borse di studio all’estero, ha consentito agli Alawiti di scalare molto rapidamente la gerarchia sociale. La rendita politica associata ad una “discriminazione positiva” marca, in tal modo, il nuovo paesaggio socio-economico siriano. Questa situazione è deducibile dalle statistiche: il livello di vita risulta nettamente più elevato sul litorale (a parte la capitale) che nel resto del paese. Ad esempio, nel 2005, la spesa mensile per persona era di 3.310 lire siriane nella regione costiera, mentre essa era solamente di 2.270 lire nel Mohafazah di Aleppo. Ben altri indicatori mostrano la stessa situazione: la regione costiera è quella che conosce la più debole proporzione di attività agricole (che sono le meno remunerate), il più basso tasso di analfabetismo, specialmente femminile, la più forte scolarizzazione dei giovani nella scuola primaria, secondaria ed all’università e, infine, una importante femminizzazione della manodopera non agricola, importante criterio per valutare la modernità di una società. Inoltre, il governo ha prodigato alla costa, con maggiore generosità che altrove, l’accesso all’elettricità, all’acqua potabile, ed al sistema fognario. Beninteso, tutti gli Alawiti non sono passati dallo stato di mezzadri a quello di piccoli o grandi borghesi ed esiste ancora più di un villaggio o di un quartiere alawita povero. Ma è certo che, grazie ad una politica volontaristica dello Stato, la loro comunità e la loro regione hanno mediamente conosciuto una progressione disuguale rispetto al resto del paese. A fianco dei Sunniti e degli Alawiti, coabita in Siria un mosaico di minoranze religiose, confessionali o etniche. I Curdi, con l’8% della popolazione (alcuni la stimano al 10%) formano la seconda minoranza del paese. Se essi sono per la maggior parte sunniti (circa il 95%), essi non utilizzano la carta del “sunnismo politico”, da cui la loro avversione per l’ISIS ed Al Qaeda (2). La guerra in Siria consente loro di affermarsi dopo essere stati a lungo tempo privati dei loro diritti di nazionali e dell’uso della loro lingua e per molto tempo è stato loro rifiutata persino la nazionalità siriana. Nel 9162 il governo di Damasco aveva proceduto ad un censimento nel governatorato di Hassaké a seguito del quale le autorità avevano denaturalizzato 120 mila Curdi, vale a dire il 2% della popolazione curda dell’epoca. Alla promulgazione del decreto dell’aprile 2011, che restituisce loro la nazionalità siriana, esistevano di 300 mila senza patria. Questo bel gesto, destinato a guadagnarsi il loro sostegno al regime, non è stato poi seguito da effetti attesi, poiché i Curdi di Siria hanno continuato ad avere una marcata preferenza per l’autonomia, come i loro cugini del Curdistan irakeno, se non per l’indipendenza. Altre minoranze sballottate Il numero dei Cristiani di Siria è, per quanto li concerne, largamente sopravvalutato: secondo la CIA, essi rappresenterebbero il 10% della popolazione. Una stima più plausibile indica il valore del 4,5% prima della guerra del 2011. Essi sarebbero ancor meno numerosi oggi per effetto di una emigrazione massiccia, specialmente da Aleppo, verso i paesi vicini, l’Europa e l’America del Nord. Questa sopravvalutazione è senza dubbio l’effetto di proiezione mentale: si estrapola alla demografia la sovra rappresentazione dei Cristiani nel mondo degli affari, della cultura e della politica. In effetti, come gli Alawiti, i Cristiani sono stati, in qualche maniera, “vittime del loro successo”. La loro transizione demografica ha determinato la loro diminuzione in numero assoluto e relativo. Aleppo, la più “cristiana” delle città della Siria, evidenzia bene questo declino: negli anni 1940, si stima che il 30% degli abitanti fosse cristiano; essi si erano ridotti al 3,5% nel 2011. Soprattutto, i Cristiani sono disuniti, sia sul piano del dogma (ci sono, in tale contesto, Melkiti, Maroniti, Caldei, Siriaci, Armeni cattolici o ortodossi, protestanti, ecc.), sia in quello della politica. Per alcuni di questi che sostengono il potere, ci sono altri che si sono ribellati e l’opposizione attuale a Bashar conta numerosi dirigenti cristiani. I Drusi, anche essi, sono stati largamente sopravvalutati: si era detto che fossero circa 700 mila, mentre sembrerebbe che il numero effettivo sarebbe di circa 400 mila. Come i Curdi ed i Cristiani, essi non hanno posizioni politiche univoche. Il “riflesso dei minoritari”, li spingerebbe a fare fronte comune con l’altra grande minoranza, ma un lungo contenzioso con il potere alawita li incita alla diffidenza, soprattutto per il fatto che il leader libanese druso Walid Jumblatt, che ha una certa influenza nel Gebel druso, sostiene l’opposizione. In ogni caso, la maggioranza dei Drusi sembrerebbe allineata con il governo contro il pericolo comune sunnita. Le altre minoranze, ancora meno numerose, presentano preferenze politiche contrastanti. I Turkmeni sono vicini all’opposizione, quindi piuttosto solidali con i Sunniti e, come turco foni, in simbiosi con la Turchia. Gli Sciiti, naturalmente, sono in fase con l’Iran e quindi vicino al potere di Damasco. Gli Ismaeliti (che fanno riferimento ad una forte minoranza dello Sciismo) sarebbero ugualmente abbastanza vicini al potere. I Circassi, sunniti non arabi, sono piuttosto neutri. Gli Yazidi, non mussulmani e turcofoni, hanno demograficamente e politicamente un peso trascurabile. Infine, poco conosciuti, i Murciditi, una componente minore alawita, rimangono vicini al potere Molto poco numerosi, essi risultano ben piazzati nei servizi. Una “bolla di giovani” fra i Sunniti Politicamente potenti, ma poco numerosi, gli Alawiti (come le altre minoranze) per effetto dei loro successi sociali e culturali, subiscono per di più un attrito demografico. Dal 2004, il tasso di natalità della regione costiera era appena di 2,2 figli per donna fra gli Alawiti. Un fenomeno ancora più marcato fra i Drusi (1,8 figli per donna) e fra i Cristiani. Per contro, nelle regioni, che hanno occupato le cronache dei giornali per l’intensità dei combattimenti, il numero medio di figli per donna era più elevato nel 2009: 3,2/donna nel Governatorato di Aleppo, 3,3 in quello di Hama, 3,1 in quello di Homs e soprattutto 4,8 in quello di Idlib, 6,9 in quello di Deir ez Zor, 5,2 in quello di Deraa (dove avevano avuto inizio le rivolte del 2011) ed il 5 in quello di Raqqa. Una pari disparità di velocità di transizione risulta un fenomeno raro. Ci si trova in Siria con una parte della popolazione maggioritaria (73%), alimentata da un flusso di nascite abbondanti ed in aumento; l’altra parte con una o più minoranze che contano per meno di 1 quarto della popolazione e che si riproducono con difficoltà, in quanto le loro nascite risultano stazionarie se non in diminuzione. In un contesto conflittuale, il legame fra le cifre della demografia civile e quelli della demografia militare non un elemento certamente senza valore (anodino). Si attribuisce all’esercito governativo 150 mila combattenti ed altrettanti nelle milizie pro regime. I ribelli delle diverse tendenze sarebbero state all’inizio del conflitto intorno ai 200 mila effettivi. Ma le cifre concernenti le forze armate di una parte e dell’altra sono altamente volatili e soggette a molta cautela (3). In età di portare le armi, una abbondante schiera di giovani provenienti dalla maggioranza della popolazione si presentano volontariamente o di forza e sempre più giovani “sotto le bandiere”. Di fronte i giovani provenienti dalle minoranze sono sempre meno numerosi ad entrare nell’esercito. Inoltre, la minoranza subisce una forte tasso di mortalità di guerra: è pur vero che complessivamente conta meno decessi, ma ha alle spalle una popolazione decisamente meno popoloso e quindi più vulnerabile. La maggioranza, per quanto la riguarda, approfitta della “bolla di giovani” (youth bulge) derivata dalla sua disponibilità demografica. Fra il 1963 ed il 2012, i soggetti dai 15 ai 24 anni nella maggioranza sono stati moltiplicati per 5,3, mentre la minoranza ha avuto, nello stesso periodo, un incremento di complessivo di 2,4. Si capiscono meglio le consegne per la coscrizione nell’esercito governativo. Nel settembre 2012, esso raccomandava di ignorare i coscritti potenziali provenienti dalla maggioranza sunnita (considerati poco affidabili, pronti a disertare o a cambiare di casacca) e di sforzarsi di arruolare i giovani provenienti dalle minoranze in particolar modo fra : i Cristiani, gli Alawiti, il Murciditi, gli Sciiti, i Curdi, i Drusi e gli Ismaeliti. Una delle ragioni della ferocia e della logica di lunga durata del conflitto è che il potere e le minoranze che lo appoggiano avrebbero avuto decisamente molto di più da perdere rispetto alle altre “primavere arabe”, in Egitto o in Tunisia. Anche se le paure non sono che un miscuglio di realtà e di fantasmi, la paura demografica risulta ben presente presso gli Alawiti: la paura di essere costretti a ritirarsi nel ridotto costiero o più semplicemente la paura di scomparire, a causa della violenza, dalla demografia della Siria. Il disequilibrio demografico fra le minoranze al potere e la maggioranza è stato un fattore essenziale nella genesi del conflitto. Ci si può domandare a che punto questa situazione può giocare anche nella conclusione della guerra. Durante i primi anni del conflitto, il disequilibrio evidente fra la base demografica del potere e quello dell’opposizione è passato in secondo piano, per effetto della superiorità militare e finanziaria del potere che beneficiava dell’appoggio senza limiti di donatori “amici” come la Russia - che si manifesterà apertamente a partire dopo il 30 settembre 2015 -, l’Iran, l’Irak e facevano beneficiare l’esercito regolare di vantaggi economici (linee di credito, annullamento e rinvio di pagamenti di debiti, forniture gratuite di armi e munizioni). Dai primi mesi del conflitto, una delle “risposte” del regime a questo disequilibrio demografico è stato quello di attingere, per i combattenti di terra, alle “risorse umane nell’emigrazione internazionale”: Libanesi di Hezbollah, Irakeni sciiti e qualche turco e libanese alawita. Nel momento della crisi operativa, coincisa con l’attacco concentrico contro Bashar dell’ISIS e dell’opposizione, l’intervento della Russia, particolarmente nell’appoggio di fuoco e nella forza aerea da parte di Russi, ha fatto ribaltare la grave situazione venutasi a creare per il governo. Ma su questo piano l’ISIS ed Al Qaeda che reclutano parallelamente combattenti che provengono dal mondo intero dell’universo sunnita, cercano di fare altrettanto, attingendo ad un serbatoio ben più importante, che va dalla Nigeria alla Cina. Resta comunque il fatto che l’ISIS, con l’intervento russo, ha visto decisamente compromesse le sue capacità operative terrestri, costretta ovunque a ripiegare davanti alla massa di fuoco espressa dai suoi avversari e che il numero dei combattenti non può certo compensare. Tuttavia, a medio termine, se il conflitto dovesse durare a lungo, prendendo come unità di misura quello libanese (che è durato dal 1975 al 1990), il fattore demografico potrebbe riprendere tutta la sua importanza. NOTE (1) Per riprendere il termine con il quale lo storico arabo Ibn Khaldun designava nel XIV secolo, la valorizzazione della rete sociale e dell’appartenenza familiare, clanica o comunitaria; (2) D’altronde i Curdi si sono venuti a trovare in una morsa: da una parte l’ISIS che voleva debellarli e dall’altra la Turchia che non vede di buon occhio la possibilità della costituzione di uno stato autonomo curdo alle sue frontiere, dalle ceneri della vecchia Siria; (3) La Cia stima in tale contesto che i combattenti di ISIS in Siria sarebbero dell’ordine dei 31 mila uomini, mentre secondo le valutazione dei Curdi sarebbero complessivamente sui 200 mila effettivi. BIBLIOGRAFIA Cartalucci Tony e Bowie Nile, “Obiettivo Siria”, Arianna Editrice Galletti Mirella, “Storia della Siria contemporanea”, Bompiani Editore Schiavore R. (a cura), “Syria, quello che i media non dicono” Arkadia editore, 2013 Trombetta Lorenzo, “Dagli Ottomani agli Assad. E oltre”, Mondadori editore, 2011
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