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Karol Magno II

Il Papa che venne da un paese lontano

Non abbiate paura! Aprite le porte! Anzi, spalancate le porte a Cristo!


Apr 5 2005 12:00AM - C. SARCIA'


(Rieti) Tutti hanno imparato qualcosa dalla morte di Vojtyla. A tutti Vojtyla con la sua morte ha insegnato qualcosa. Tanti giornalisti, tantissimi cronisti, altrettanti opinionisti, si sono cimentati in questi giorni nel difficile compito di descrivere un fatto straordinario come l’agonia del Papa e la sua morte e si sono adoperati con fervore per restituire intatta la descrizione dei sentimenti che questa morte ha scatenato negli animi più lontani e diversi. L’agonia in diretta televisiva di Papa Giovanni Paolo è cominciata quasi in sordina. Il Papa aveva ormai abituato il mondo alla sua sofferenza ed alla sua forza e si era radicata in ognuno la convinzione di una sorta di immortalità che avrebbe conservato a lungo al Pontefice le capacità di comunicazione e di governo. Tutti avrebbero scommesso sul suo immancabile ritorno sulla scena; magari con il fisico un po’ più malconcio, ma ancora lucido e capace di comunicare, con la sua voglia di vivere, il messaggio d’amore e di speranza destinato ai cattolici e «a tutti gli uomini di buona volontà». Così non poteva essere: anche il cuore di un Papa come lui, avrebbe, presto o tardi cessato di battere. Ma nel corso della narrazione mediatica la malattia evolveva in stadi d’irreversibilità e dunque il fatto da narrare andava sempre più assumendo i connotati della grandezza e del mistero. In pochi avevano creduto che per il Papa fosse giunta la fine ed anche gli ultimi bollettini contenevano sempre una speranza nei loro pur scarni enunciati. Poi la morte, improvvisa, irrevocabile, catalogata alle 21.37 del primo sabato di aprile 2005. Uno schiaffo mondiale. Solo dopo l’annuncio tutti i ruoli della sua straordinaria interpretazione terrena si sono materializzati nell’immaginario collettivo in un'unica espressione, allo stesso tempo severa ed incoraggiante: il forte, l’infaticabile, lo sportivo, il giovane, lo scanzonato, il deciso, l’amabile, non ce l’aveva fatta. Il male corporeo aveva vinto ed agli uomini non è restato altro da fare che piangere. Abbiamo visto fedeli, cardinali, vescovi, anglicani, ortodossi, ebrei, mussulmani, credenti, agnostici, laici, donne, vecchi, giovani, bambini, potenti, umili, cinesi, negri, arabi, indiani, piangere di un pianto umano che non conosce frontiere, etnie, religioni, politica, filosofia. Oltre alle migliaia di persone accampate in piazza San Pietro, una moltitudine incommensurabile di umanità dolente si è raccolta simbolicamente, senza che alcuno potesse prevederne lo slancio e la voglia di partecipazione, intorno ad uno smisurato individuo che dal suo catafalco parla ancora ai potenti e agli umili, agli eserciti ed alle speranze, ai mafiosi ed ai poveri ed urla:

«Non abbiate paura! Aprite le porte! Anzi, spalancate le porte, a Cristo!»

Non abbiate paura, dunque. Questo è il messaggio che perpetuerà nella storia l’insegnamento di Karol. Un messaggio coinvolgente e prepotente che si è insinuato tra le onde e i flutti del mare, tra le colline e le montagne, tra le correnti del vento e gli uragani ed ha raggiunto ogni coscienza d’uomo, commovendola fino al punto da annullare di colpo differenze di razza e di religione, istanze di predominio e di influenza:

«Non abbiate paura!»

Questa esortazione è divenuta immediatamente una spada capace di trafiggere le coscienze ed è stata percepita da tutti come un messaggio di accoglienza, di solidarietà, di riconoscimento reciproco. I grandi della terra verranno a rendere omaggio alla sua indimenticabile figura. Tutto il mondo guarda ora a Roma come ad una nuova e più consistente «caput mundi» la cui immagine si era forse sbiadita nel folclore. Risulta di fatto oscurata la pervicace disattenzione del Parlamento europeo di dare ascolto alla accorata richiesta del Papa di inserire nella Costituzione Europea la citazione delle radici cristiane dell’Europa. La morte di Vojtyla ha trasmesso al modo intero la testimonianza reale dei valori e dei sentimenti della cristianità, oltre gli ormai ristretti confini dell’Europa.

Il mondo, per alcune ore, ha semplicemente taciuto e si è raccolto attorno a quell’essere sofferente da cui, malgrado sia ormai sopraggiunta la morte, continuano a provenire insegnamenti morali e sentimenti di pacificazione dell’umanità che non lasciano spazio alla polemica politica o all’opposizione ideologica. Il mondo in lacrime, unito da un pianto enorme, totale, come mai sarebbe potuto accadere, neanche nella mente di un fervido romanziere, ha coinvolto ogni abitante della terra. Lo sbalordimento cresceva con il crescere della commozione. Persino cronisti in età matura, hanno lasciato sugli schermi televisivi la traccia della loro espressione smarrita di araldi della tristezza; hanno trasferito agli spettatori attoniti la narrazione degli accadimenti che si susseguivano nella piazza, delle voci, dei bollettini, delle notizie di agenzia, come un lamento, con frasi smorzate miste a singhiozzi e commozione, come stessero descrivendo una loro personale disgrazia o un inconsolabile momento della loro stessa esistenza. Solo una volta, prima d’ora, il mondo intero era stato unito da un sentimento comune: quando nell’estate del 1945 si apprese la notizia delle due esplosioni atomiche che avevano messo la parola fine alla seconda guerra mondiale. Tutti i popoli della terra furono presi da un senso di smarrimento acuto e generale, per l’atroce pericolo di una guerra atomica che avrebbe potuto sconvolgere l’intera umanità. In quella terribile occasione una terribile paura accomunò i popoli incapaci di reagire ad una catastrofe come quella che era toccato di vivere al Giappone e contro la quale non si profilavano possibilità di scampo. Dopo 60 anni il mondo si unisce ancora in un sentimento comune di smarrimento per una morte che lascia nell’umanità un vuoto incolmabile.

L’epilogo silenzioso dell’esistenza spettacolare di questo Papa memorabile ha commosso il mondo intero ed ha di colpo rivelato i significati più reconditi dei suoi interventi, delle sue reprimende, delle sue richieste di perdono. L’umanità ha compreso l’urgenza di affrontare i mali della terra, prima che sia troppo tardi, prima che il sole tramonti definitivamente sulla storia. E sembra che tutti gli uomini si siano riconciliati in Karol Vojtyla e scoperto la possibilità di un’esistenza pacifica e solidale e di un progresso comune.

Il monito del Papa è rimasto pressoché inascoltato ai più. Sembrava scontato, monotono, troppe volte ripetuto. Si volle credere che era un dovere del Papa quello di rivolgere appelli e, nel frattempo, il secolarismo si radicava nel sentire comune, ammorbando le famiglie, i parlamenti, gli stati. L’umanità è infatti ferma su un baratro. Qualche volta azzardammo un’analisi, e tra i colpevoli scoprimmo una Chiesa cattolica incapace di uscire dalla sua formazione tradizionale, costruita sulle rovine dell’inquisizione e del potere temporale. Non diremo, qui, che non era vero; non è il momento dell’acquiescenza e sarebbe anche inopportuno oscurare con giustificazioni inopportune i sentimenti di cordoglio e di affettuosa stima per un Papa che ormai a gran voce è celebrato come Grande. Le colpe della Chiesa non si possono negare, e lo testimoniano le stesse implorazioni di perdono del Papa; ma i germogli del secolarismo generati da quelle colpe hanno sottratto alle coscienze la capacità di percepire fino in fondo il messaggio di Vojtyla.
La sua agonia cristiana, il suo martirio eroico, la sua sofferenza fiera, didattica, escatologica, hanno scosso le coscienze ed hanno prepotentemente aperto le menti intorpidite alla comprensione del mistero della vita e della morte ed alla riconsiderazione dell’idea del divino che contiene quei misteri. Dopo Vojtyla i termini sono scaduti e non c’è più tempo per gli accomodamenti individualistici, né per la sopravvivenza dei dissidi storici che hanno penalizzato il destino dell’umanità.

 

 

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