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Il Miracolo che rivoluzionò la pittura

I GRANDI DEL RINASCIMENTO IN TOSCANA

Botticelli, Giotto, Lorenzetti e gli altri Grandi dei secoli XIII, XIV e XV


09/11/2016 - Massimo Iacopi


(Assisi (Perugia))

I GRANDI DEL RINASCIMENTO

Solo due secoli separano due opere fondamentali della pittura italiana, la Maestà di Santa Trinita, dipinta da Cenni di Pepo detto Cimabue (1240-1302) verso il 1285 e la Nascita di Venere di Sandro di Mariano di Vanni Filipepi detto il Botticelli (1445-1510), datata 1482, opere entrambe conservate presso il Museo degli Uffizi a Firenze. Due opere toscane e più precisamente fiorentine. La Maestà di Cimabue appare ancora inquadrata nella tradizione bizantina, la Vergine ed il Bambino, sul trono in maestà, risultano in un contesto compartimentato, dove gli angeli vengono equamente ripartiti. Alla base, il pittore ha disposto in alcune nicchie Abramo, Davide, Isaia e Geremia. Una composizione fredda, rigida e che ha lo scopo di invitare i fedeli alla preghiera. La Nascita di Venere è invece una pittura allegorica che trae ispirazione dal mondo antico riscoperto. Anch’essa è una versione antica del tema iconografico del battesimo del Cristo: Gesù disceso nelle acque del Giordano, che occupa il posto centrale fra Giovanni Battista e gli angeli pronti a coprire le sue nudità. Per rappresentare la dea sorta dalle onde, portata da Zefiro, accolta da Cloris, la dea della primavera, il Botticelli, secondo il professore Michel Feuillet (1949 -), “è portato ad inventare un nuovo linguaggio per una tematica che proviene dalla tradizione cristiana, non esitando a riattivare i canoni ideologici più sacri per adattarli alle esigenze della cultura umanistica …” (1). Per apprezzare la evidente e flagrante differenza fra le due opere, appare necessario parlare del cammino percorso, del progresso intercorso, perché altrimenti si rischierebbe di fornire una interpretazione causale, oppure di fare un riferimento ozioso al concetto di Rinascimento, che comunque, da solo, esprime almeno l’idea di un “eterno ritorno” (Le temps revient). Per procedere a questa analisi verranno fissati due “paletti” nel tempo (quello definito dalle due opere predette) e nello spazio (limitando l’indagine alle botteghe di Siena e di Firenze) e facendo riferimento alla logica metodologica adottata dallo storico dell’arte André Chastel (1912-1990). Le fonti scritte, che riguardano il Rinascimento italiano, non sono così numerose. Occorre attribuire un posto a sé stante all’opera di Giorgio Vasari (1511-1574) che ha pubblicato nel 1550 le sue Vite dei più eccellenti pittori, scultori ed architetti. Un’opera di riferimento che ha acquisito una cattiva reputazione col passare del tempo: troppi aneddoti sospetti, troppi pregiudizi ed approssimazioni. Dal 1950, lo storico canadese Wallace K. Ferguson (1902-1983) (2), autore di un saggio magistrale, contribuisce a rimettere il Vasari al suo giusto posto, ma la familiarità con i tre secoli che lo precedono, le sue competenze nel mestiere che esercitava rendono tuttavia indispensabile la lettura del suo lavoro di ricostruzione della “Rinascita dell’arte”. Vediamo cosa ci racconta il Vasari riguardo a Cenni di Pepo detto Cimabue. Egli ci dice che questo pittore fiorentino “aveva in primo luogo imitato i maestri greci (bizantini) ed aveva grandemente perfezionato la loro arte, avendo superato i limiti della scuola”, in quanto - spiega il Vasari - “nelle sue composizioni, egli ha superato i limiti della vecchia maniera, trattando le sue figure ed i suoi drappeggi con una maggiore vivacità, con maggiore naturalezza e leggerezza rispetto ai Greci, così rigidi e così secchi, sia nelle loro pitture come nei loro mosaici”. Di fatto, se il Vasari riconosce Cimabue come un innovatore, egli lo pone comunque dietro a Giotto di Bondone (1266-1337), il suo principale allievo: “Veramente Giotto ha oscurato la gloria di Cimabue, allo stesso maniera con cui una grande luce fa apparire meno brillante una luce più piccola”, concetto che viene ripreso dai versi di Dante Alighieri, contemporaneo di Cimabue e di Giotto, nel canto 11° del Purgatorio: Cimabue si era creduta in pittura maestro del campo, oggi Giotto tiene il primo posto talmente bene che la fama del primo ne è oscurata”. La vita di Giotto è abbastanza ben conosciuta. La sua famiglia era originaria della valle del Mugello (la regione d’origine dei Medici), ma suo padre si era già stabilito a Firenze. La leggenda vuole che Giotto, appena adolescente, sia stato notato da Cimabue: “Un giorno, Cimabue, andando per suoi affari da Firenze a Vespignano, incontra Giotto che, stando al pascolo con il suo gregge, era intento a disegnare una delle sue pecore, su una pietra piana e pulita, per mezzo di una pietra appuntita, senza aver avuto alcun maestro se non la natura. Vedendo tutto ciò, Cimabue si ferma sorpreso e gli chiede se voleva seguirlo. Il ragazzo risponde che, se suo padre l’avesse consentito, l’avrebbe seguito volentieri. Cimabue richiede a quel punto a Bondone, che acconsente con piacere a che il figlio lo segue a Firenze” (Vasari). Che Giotto abbia lavorato nella bottega di Cimabue non è provato ma, in ogni caso il giovane si guadagna rapidamente una reputazione. Nel 1296-97, egli si reca ad Assisi per dipingere ad affresco la vita di S. Francesco nella Basilica superiore dedicata al santo. Quindi lavora a Roma all’epoca del Grande Giubileo del 1300. Rientrato a Firenze, Giotto non tarda a riprendere le sue peregrinazioni, a Rimini per la chiesa dei Francescani (il Tempio Malatestiano), a Padova nella Cappella degli Scrovegni. Dal 1311 al 1329 egli rimane a Firenze dove dipinge in Santa Croce e nel Palazzo del Bargello. La sua fama è ormai al massimo e risulta fra gli artisti più richiesti del momento. Nel 1327, come Bernardo Daddi (1280-1348), il pittore viene ammesso nell’Arte dei Medici e Speziali, una delle corporazioni fiorentine, che per la prima volta, accetta i pittori. Dopo un lungo soggiorno a Napoli presso la corte di Roberto d’Angiò (1277-1343), l’artista viene nominato maestro dei lavori del Duomo ed architetto delle fortificazioni di Firenze. Egli lavora al progetto del campanile del Duomo ed alla sua morte viene sepolto nella basilica di Santa Croce, che costituisce il pantheon dei Fiorentini. L’audacia pittorica di Giotto é da associare alla riforma francescana, di cui è stato un fervente adepto, ma non certo al punto da schierarsi dalla parte dei francescani più radicali, i “poverelli”, che ripudiano qualsiasi esaltazione artistica della loro fede, epurata all’estremo. Giotto, all’ideale di povertà, preferisce quello della giustizia, una virtù “che non rinuncia ai beni della terra ma li distribuisce equamente e stimola le attività sociali”. Se, negli affreschi di Assisi, i contenuti rimangono molto conformi alle raccomandazioni papali, essi, però, non lo sono sotto l’aspetto del trattamento stilistico. I volti non sono più solamente presi di fronte, ma anche di profilo o di tre quarti; essi esprimono molteplici sentimenti o anche semplicemente situazioni diverse e miste. I personaggi si muovono ed adottano delle pose dove la ieraticità bizantina cede il passo alla gestualità più ordinaria. Una certa resa prospettica, il rispetto dei canoni di proporzione contribuiscono a rendere più intenso questo repertorio figurativo. Nelle sue opere ulteriori, Giotto approfondisce questa mutazione. Gli affreschi della Cappella degli Scrovegni sono pieni di invenzioni, di soluzioni audaci come il Bacio di Giuda, oppure la folla armata che per certi aspetti prefigura le “battaglie” di Paolo Uccello (1397 - 1475) o di Piero della Francesca (1412 circa - 1492), che verranno dipinti un secolo e mezzo dopo. Rimane l’aspetto più importante, Giotto non costituisce una meteora nel firmamento dell’arte visiva, un caso isolato, egli è un capo scuola e costituisce un riferimento ed il Vasari ci fornisce una lista di pittori che si ricollegano a lui, come Taddeo Gaddi (1290 - 1366) e Pietro Cavallini (1250 - 1330). La nuova tendenza ha ormai conquistato Firenze e si diffonde in tutta la Toscana per arrivare a Roma, Napoli e tutte le altre città della penisola. Nell’altro cenacolo artistico principale della Toscana, a Siena, l’evoluzione pittorica risulta altrettanto evidente e viene iniziata da Duccio di Boninsegna (1255-1319) fra il 1278 ed il 1317. Duccio, come Cimabue, obbedisce rigorosamente alle prescrizioni della Chiesa, ma si concede delle libertà formali sempre più ampie fino ad arrivare, per usare le parole di André Chastel, ad “una scrittura netta e vibrante”.  Le condizioni nelle quali Duccio esegue la commissione per la Maestà destinata al Duomo (oggi conservata nel Museo dell’Opera di Siena) la dicono lunga sul mestiere del pittore e sul rapporto che egli intrattiene con la città. Il contratto stipulato con la Fabbrica del Duomo viene firmato nel 1308. Esso recita che Duccio deve dipingere, di sua mano, l’intero quadro, mettendo in opera tutto il talento ricevuto da Dio; egli deve lavorare con continuità senza accettare altre commissioni prima di aver terminato il lavoro ed, infine, Duccio giura sul Vangelo di rispettare il contratto con “bona fide, sine fraude”. La Maestà lascerà la bottega di Duccio il 9 giugno 1311. Tutti i negozi e le botteghe della città vengono chiusi ed una processione immensa, guidata dal vescovo, coinvolge i capi della città e tutto il popolo (nell’ordine gerarchico delle dignità, funzioni e mestieri) fino al Duomo dove la Vergine in maestà viene installata al di sopra del’altare maggiore. Anche a Siena i pittori affrontano per la prima volta dei temi che si allontanano dalla ispirazione religiosa. Nel Palazzo Pubblico, Ambrogio Lorenzetti (1290 - 1348) riceve la commissione di realizzare degli affreschi, nella Sala dei Nove, sul tema dell’ideale politico. Egli li realizza dal febbraio 1338 al marzo 1339 e li firma (fatto raro): “Ambrosius de Laurentii Senis pinxit utrinque hic” (3). Si tratta di due allegorie, una del “Buon Governo” e l’altra del “Cattivo Governo” ed, ogni volta, egli fiancheggia queste due composizioni con pannelli laterali che trattano i loro effetti sia nella città, sia nelle campagne che domina. Associando realismo di situazioni e paesaggi e strutture rituali, le creazioni del Lorenzetti sono state oggetto di dispute interpretative che durano ancora oggi. L’approccio classico le presenta come una illustrazione della dottrina tomistica che, derivata da Aristotele, esalta il “Bene comune”. Ma un autore, lo storico britannico Quentin Skinner (1940- ), fine conoscitore degli aspetti politici dell’Italia del XIV e XV secolo, vi intravvede piuttosto una esaltazione dell’ideale repubblicano, ispirato a Marco Tullio Cicerone (-106 / -43). Recentemente altri specialisti come Anna Maria Brenot (54 anni) e Patrick Boucheron (1965- ) hanno ancora affinato l’interpretazione con interpretazioni alquanto azzardate. Comunque sia, l’opera di Ambrogio Lorenzetti si sviluppa nello stesso momento in cui Siena è scossa da una crisi economica e finanziaria che si aggiunge alle devastazioni della peste nera (sembra, in effetti che Ambrogio e suo fratello Pietro (1280-1348) siano morti proprio di peste), senza contare le esazioni commesse dai condottieri di Firenze (in particolare John Hawkwood, ovvero Giovanni Acuto - 1320-94 -, nel 1302). La pittura senese perde quindi la sua audacia innovativa per confinarsi nel repertorio sacro (Stefano di Giovanni di Consolo detto il Sassetta, 1400 circa-1450) e sarà solo Bernardino di Betto, detto il Pinturicchio (1454-1513), al servizio del senese papa Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini, 1405-1464), che arriverà più tardi a scuoterla dal suo torpore. A questo punto, conviene tornare a Firenze per apprezzare il ruolo svolto da Sandro Botticelli. Egli viene a trovarsi all’incrocio di due tendenze, indeciso fra un’arte che trae ispirazione da un paganesimo rivisitato ed opere che obbediscono alle prescrizioni della Chiesa. Egli è un personaggio rappresentativo di un ambiente sociale molto particolare, che si articola in laboratori, le famose “botteghe”, che costituiscono molto di più di un semplice luogo di produzione. A tal proposito, André Chastel parla di “piccole fucine di vita” nei quali regna un “individualismo anarchico”. L’artista, quale noi lo definiamo, il creatore di un’opera d’arte, viene solo progressivamente riconosciuto come tale. Lo stesso termine artista non esiste (esso non viene mai impiegato negli scritti di Leonardo da Vinci (1452-1519) ed il Vasari parla piuttosto di “pratici delle arti visuali”. Essi sono, di fatto, degli artigiani che devono iscriversi in un’arte “meccanica”, aspetto che non risulta semplice, in quanto la maggior parte di essi emergono in diversi saper fare. Essi possono essere ebanisti, lavoratori del marmo o del bronzo, cesellatori, decoratori, pittori (a fresco, su tela o su legno), scultori, architetti, ingegneri civili o militari ed anche scenografi e registi di cerimonie sacre e profane. La specializzazione non vieta la polivalenza, che culmina nell’epoca di Leonardo e di Michelangelo Buonarroti (1475-1564). Si tratta dell’ “artifex polytechnes”, una specie di imprenditore capace di rispondere a tutte le richieste. La sottomissione al principale datore di lavoro, spinge a ricercare altri clienti, i principi, i condottieri, i grandi mercanti e fra questi quelli che accedono alla direzione della città, come ad esempio i Medici. Tutti preoccupati di lasciare un segno nel loro tempo attraverso l’acquisizione di opere d’arte di qualità, sia per vivere in un decoro raffinato, sia per la salvezza delle loro anime. E’ proprio in questo contesto che va inserito il Botticelli e la posta vitale che porta la sua arte. Botticelli è un fiorentino verace. Egli è nato nel “borgo” Ognissanti, popolato di artigiani, come suo padre conciatore di pelli, che appartiene alla piccola clientela dei Medici. Egli segue una prima formazione presso un orefice, quindi passa nella bottega di Filippo Lippi (1406-1469), un monaco più o meno in disaccordo con il suo ordine. Il clan dei Medici non tarda a commissionargli dei lavori in una prospettiva profana, ritratti e composizioni mitologiche. Molto presto egli appare come uno degli artisti più legati alla famiglia ed anche uno dei suoi fiduciari, a tal punto che , dopo il fallimento della congiura dei Pazzi contro i Medici, egli si vede incaricato di dipingere delle composizioni ingiuriose per i congiurati. Questi lavori verranno appesi sui muri della città, come una seconda condanna a morte. Botticelli, apprezzato da Cosimo de’ Medici (1389-1464), da Lorenzo (1449-1492) e da Giuliano (1453-1478), ha lavorato per tutta la parentela della famiglia. In circa mezzo secolo, egli ha dipinto più opere sacre che profane, ma la sua fama attuale è legata soprattutto a queste ultime, La Nascita di Venere, La Primavera, Venere e Marte, Minerva ed il Centauro, … . Egli dipinge nei due campi di azione con la stessa sincerità. Questa dualità traduce la lacerazione di un uomo che ha tratto la sua ispirazione dalle due correnti di vita spirituale del suo tempo, il neoplatonismo del circolo letterario riunito intorno a Lorenzo il Magnifico e la predicazione di Gerolamo Savonarola (1452-1498). Il monaco domenicano, venuto da Ferrara, è diventato il fustigatore di tutto quello che sfida la più stretta ortodossia. Le sue prediche, appoggiate per un certo tempo dalla sua gerarchia, assumono una tendenza apocalittica a partire dal 1486. Egli denuncia la lussuria, l’idolatria, la magia, l’astrologia, la simonia, la cupidigia ed annuncia l’arrivo dell’Anticristo portatore di guerra, di peste e di carestia. Il 27 aprile 1491 egli pronuncia la “Terrifica Predicatio”, che invita i Fiorentini a lasciare il loro modo di vita depravato, per raggiungere la montagna della contemplazione, dove riceveranno la rivelazione e la conoscenza del Vecchio e del Nuovo Testamento, una nuova conversione. Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, l’8 aprile 1492, Firenze si consegna al Savonarola, fino alla sua salita al patibolo (rogo), il 23 maggio 1498. L’effetto di questa crisi, senza precedenti per Firenze, è considerevole sul Botticelli. Una parte delle sue opere viene considerata squalificata, votata al fuoco, nei roghi delle vanità, che vedono partire in fumo quadri “lascivi”, libri scabrosi (fra i quali il Decamerone), oggetti da toeletta, parrucche, carte da gioco, bambole. Eppure, Botticelli era stato toccato dalla predicazione del Savonarola ed aveva piegato la sua ispirazione, riducendola ai temi sacri più comuni. Allorché, egli dipinge la Natività nel 1501, conservata oggi a Cambridge, presso il Fogg Art Museum, egli si preoccupa di scrivere, come una firma: “questo quadro è stato dipinto da me, Sandro, alla fine dell’anno 1500, durante i disordini d’Italia, nella metà del tempo dopo il tempo, secondo il capitolo 11° di S. Giovanni, nella seconda disgrazia dell’Apocalisse, quando Satana viene scatenato sulla Terra per tre anni”. Il fallimento di Savonarola, appare evidente, non ha riguardato solamente il divenire della Chiesa. Esso ha risparmiato all’Europa cattolica una scelta che l’avrebbe privata di manifestazioni artistiche, capaci di esprimere il genio del nostro continente.

NOTE

(1) Feuillet Michel, “Lessico dei Simboli cristiani”, Arkeios, 2007 ; “Botticelli e Savonarola, l’Umanesimo alla prova del fuoco”, Cerf, Parigi, 2010; “I volti di S. Francesco di Assisi, iconografia francescana delle origini”, Desclée Brouwer.

(2) “The Renaissance in Historical Thought. Five Centuries of Interpretation (Il Rinascimento nel pensiero storico: cinque secoli di interpretazioni)”, 1948.

(3) “Ambrogio di Lorenzo di Siena ha dipinto qui in entrambi i lati”.


 

 

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