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Una colossale ristrutturazione edilizia

FIRENZE LA RIVOLUZIONE DEI PALAZZI

Durante il XV secolo Firenze modifica l’aspetto urbanistico e si trasforma in città aristocratica


11/12/2016 - Massimo Iacopi


(Assisi (Perugia))

FIRENZE E LA RIVOLUZIONE DEI PALAZZI

In un secolo, dal 1440 al 1550, più di cento palazzi vengono costruiti nella città toscana per iniziativa delle più potenti famiglie, arricchite dal commercio, dalla finanza e dall’artigianato. Questa rivoluzione urbana trasforma Firenze in una città aristocratica. “Fra le altre ragioni, per le quali le città d’Italia sono di norma più grandi delle città di Francia” - scrive nel 1588 Giovanni Botero (1544-1617) nelle “Cause della grandezza e della magnificenza delle città” - “questa non risulta trascurabile: in Italia i gentiluomini abitano nelle città, in Francia nei loro castelli, che sono degli edifici circondati in generale di fossati pieni d’acqua con muraglie e torri capaci di sostenere un assalto improvviso ed imprevisto”. L’aristocratico italiano, sollecitato senza posa dall’ostentazione, viene preso nell’ingranaggio di larghezze dispendiose. Ma questo sistema di mostrare, altrettanto vero a Venezia, Napoli, come a Firenze, necessita per svilupparsi, un punto di partenza ed un appoggio indispensabile: il palazzo urbano. Allorché l’architetto Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi (1396-1472) mette in cantiere, agli inizi degli anni 1440, il maestoso palazzo della famiglia Medici, egli segna l’atto di nascita del modello di dimora aristocratica che, per la sua coerenza architettonica ed ideologica, trionfa, senza cambiamenti significativi durante l’epoca moderna. Il palazzo fiorentino del quattrocento (1) costituisce un blocco isolato, indipendente ed omogeneo. Inutile di ricercarvi tappe successive di una costruzione che si esaurisce nel corso di diversi secoli. Il palazzo fiorentino sorge in un solo colpo dai disegni del suo architetto, un enorme cubo o parallelepipedo che si eleva su due piani intorno ad un cortile centrale, circondato da colonne. Il piano terra, che comunica con l’esterno solamente attraverso un’unica porta principale, costituisce un’area di utilità: rimesse, scuderie, camere dei domestici. La grande sala di ricezione che dà sulla strada, si trova al piano nobile - il primo – che comprende ugualmente gli appartamenti del capo della famiglia. Per non turbare la disposizione di queste grandi stanze, si accede, spesso attraverso scale a chiocciola poste negli angoli o nello spessore dei muri, al secondo piano che ospita il resto della famiglia ed i servitori. Una terrazza coperta, volta verso l’interno, viene talvolta a coronare il tutto.

Tutti gli ornamenti

La grandezza dei palazzi sorprende: le cinque o sei stanze di una abitazione agiata del QUATTORDICESIMO secolo, lasciano il posto a 15, 20, a volte 30 stanze del SEDICESIMO secolo. Certamente interviene la necessità di dare riparo sotto lo stesso tetto ad una famiglia allargata a diverse generazioni ed a diversi rami collaterali - famiglia tanto più potente e quindi tanto più numerosa. Anche il confort ne risulta migliorato: i palazzi, scrive lo storico fiorentino Benedetto Varchi (1503-1565) verso il 1530, “hanno tutti gli ornamenti e le comodità che possono avere le case, come balconi, gallerie, scuderie, cortili, corridoi, ripari e soprattutto, se non due, almeno un pozzo d’acqua buona e fresca” (Storia Fiorentina, 1721). Tuttavia non si tratta della ricerca di una dimora funzionale, di una vita familiare gradevole, che presiede alla concezione del palazzo fiorentino. Nicolò Machiavelli (1469-1527) racconta, nelle sue Storie Fiorentine (1520-25), che Luca Pitti (1398-1479), avendo esercitato per otto anni la carica suprema della Repubblica fiorentina, il Gonfalonierato di Giustizia, fece costruire, per affermare la sua potenza, il più imponente di tutti i palazzi. La tradizione è erronea, ma l’analisi è esatta in quanto “una casa onorevole in città”, scrive Michelangelo Buonarroti (1475-1564) nella stessa epoca, “produce un forte onore, perché essa si vede di più delle altre proprietà”. La sua architettura deve allora cercare, prima di tutto, di mettere in scena i violenti contrasti sociali che dividono la città, per celebrare l’aristocrazia. “La magnificenza di una costruzione deve essere adattata alla dignità del suo proprietario” afferma l’umanista (2) fiorentino Leon Battista Alberti (1404-1472) nel suo Trattato di Architettura (1453). L’ampiezza dell’edificio non è un elemento sufficiente: la dimora aristocratica si segnala per la decorazione della facciata e dell’entrata, visibile a tutti, come per il cortile, cuore della casa. Alberti propugna una codificazione sociale degli elementi architettonici: l’arco sarebbe il privilegio delle classi medie, mentre l’architrave sarebbe più adatto ai potenti. La facciata diventa pertanto il pezzo di bravura: per metterla in valore al massimo, si spezza ogni uniformità, utilizzando per ogni piano dei paramenti o degli ordini architettonici diversi, affinando l’estetica delle finestre, a volte in sintonia con la porta centrale. Gli elementi decorativi abbondano giudiziosamente : anelli per i cavalli, porta torce in ferro battuto. Le facciate interamente dipinte appaiono solamente dopo il 1510, con un apogeo fra il 1560 ed il 1610: nel quattrocento la pietra, che succede al legno ed al mattone é per eccellenza il materiale nobile. Caso esemplare, sebbene eccezionale per le sue dimensioni, la facciata del Palazzo Strozzi, elevata alla fine del QUINDICESIMO secolo, domina una piazza che Filippo Strozzi il Vecchio (1428-1492) fa sgomberare in occasione della costruzione della sua dimora. Due piani, quasi identici, sormontano un piano terra a bugnato, grossi blocchi di pietra sbozzata e sporgente, disposti in file regolari, di cui solo le campanelle, enormi anelli per attaccare i cavalli e le eleganti lanterne d’angolo, realizzate da Nicolò Grosso (Nicolò di Noferi del Sodo) detto il Caparra (fine QUINDICESIMO secolo-inizi SEDICESIMO secolo), rompono lo schema di base. Otto piccole aperture quadrate inquadrano un unico portale a tutto sesto (centrato). Le due file di nove finestre gemine, anche esse a tutto sesto, dei piani superiori, separate da dei supporti in ferro pronti a ricevere torce o stendardi, riposano ciascuna su una piccola cornice lavorata. La facciata appare in tal modo come la superposizione di tre bande orizzontali che perdono di contrasto mano a mano che ci si innalza: il paramento a giunti vuoti del primo piano viene rimpiazzato nel secondo piano da un paramento liscio, che separa sapientemente dal corpo dell’edificio la cornice a strapiombo, capolavoro dell’architetto fiorentino Simone del Pollaiolo, detto il Cronaca (1457-1508). Altrettanto elaborato con cura, il palazzo fiorentino esprime i valori dell’aristocrazia. Esso non afferma la gloria di un uomo ma, prima di tutto, la stabilità di una famiglia i cui emblemi ricoprono i muri, i tre crescenti degli Strozzi, i veli della fortuna che corrono in fregio al primo piano del Palazzo Rucellai, i blasoni che sormontano tutte le entrate principali. Esso è legato per l’eternità a quelli che l’hanno edificato: nel suo testamento, Filippo Strozzi, nel 1491, interdice qualsiasi alienazione del palazzo ed obbliga la sua famiglia a risiedervi. Il mercante Giovanni di Paolo Rucellai (1403-1481) rifiuta, in caso di estinzione della sua discendenza, che passi nelle mani di un’altra famiglia fiorentina: l’onore familiare non si può cedere. Il ricco fiorentino, trasformandosi in costruttore, mecenate (3), mostra con evidenza una della qualità principali dell’aristocrazia, la liberalità. Nel suo elogio di Cosimo il Vecchio de’ Medici (1389-1464), Machiavelli, sottolinea che “la sua magnificenza appare nell’abbondanza degli edifici che egli ha fatto edificare … per i quali ha speso delle somme considerevoli”. Giovanni Rucellai afferma che costruire un palazzo o una cappella fa onore a Dio, alla sua città ed alla sua propria memoria ed aggiunge “Io penso che mi sono più onorato e che ho dato più soddisfazione al mio spirito nello spendere il denaro che nell’averlo guadagnato”. La vecchia morale del risparmio e del profitto cede progressivamente il posto all’elogio della spesa e l’oggetto diventa una passione: Rucellai si vanta di possedere presso la sua dimora dei quadri dei più grandi maestri non solo fiorentini, ma anche italiani come Domenico Veneziano (1410-1461), Frà Filippo di Tommaso Lippi (1406-1469), Andrea del Verrocchio (1435-1488), Antonio Benci detto del Pollaiolo (1431-1498), Andrea di Bartolo di Bergilla detto del Castagno (1423-1457), Paolo Doni detto Paolo Uccello (1397-1475). Il banchiere Jacopo de’ Pazzi (1421-1478) (uno di congiurati contro i Medici), manipolando delle monete d’oro, non si esime dal notare, nel 1464: “Esse sono così belle che mi danno un grande piacere, perché io adoro le monete ben fatte; e tu sai che più le cose sono belle più si amano”. Il palazzo deve a sua volta rispondere alle esigenze dell’oggetto d’arte. Torri e merli che ornavano ancora i palazzi del QUATTORDICESIMO secolo sono scomparsi. Ormai concepito per essere ammirato, esso mobilita tutte le risorse della simmetria, dell’equilibrio formale e soprattutto della prospettiva (4) centrale, di cui i pittori del quattrocento scoprono e sfruttano le possibilità.

Un principio di piacere

Il luogo di lavoro ormai non si confonde più con la residenza: non ci sono più negozi o laboratori al piano terra. Certamente le grandi fortune, derivate dalla banca, dal commercio lontano o dalla terra non richiedono un contatto diretto con il mercato fiorentino, ma si tratta soprattutto di una esigenza di intimità: le logge (5), portici aperti sulla strada che ospitavano le feste familiari, vengono abbandonate. La vita fugge la pubblicità. “Conviene evitare - scrive l’Alberti - che porte e finestre siano accessibili ai ladri, come anche agli sguardi dei vicini che potrebbero annoiare osservando e conoscendo cosa si dice o cosa si fa all’interno”. Il palazzo deriva certamente da un principio di piacere. Il palazzo aristocratico, che può rappresentare fino alla metà della fortuna di un patrizio, emerge nel momento in cui, a Firenze, non si pone più il problema dell’accumulazione del capitale: tre secoli di sviluppo economico, che hanno portato la città al primo rango in Occidente, permettono una tale immobilizzazione di capitale. Nel DODICESIMO secolo, Firenze è ancora una città modesta che vive in simbiosi con la sua campagna. Lo sviluppo dell’industria tessile, spalleggiata dall’apertura sul mercato internazionale, assicura il dominio economico fiorentino. Allorché i Fiorentini succedono ai Senesi come banchieri dei papi, alla fine del TREDICESIMO secolo e che la dinastia angioina apre loro le porte del regno di Napoli, Firenze ed il suo territorio sono in piena espansione: essa è la quinta città d’Europa dopo Parigi, Venezia, Milano e Napoli, con 100 mila abitanti nel 1338, di cui 30 mila impiegati nel tessile. Ormai i suoi mercanti posseggono delle succursali nei grandi centri economici come Parigi, Londra, Avignone, Bruges, Barcellona, Venezia o Genova e si impiantano nell’Oriente mussulmano. La conquista di Pisa, nel 1406, fa di Firenze una potenza marittima. Nel QUINDICESIMO secolo, ancora di più che nel secolo precedente, i Fiorentini sono i banchieri dell’Occidente. Il fiorino, il “dollaro del Medioevo” consente dei guadagni sostanziali grazie alla speculazione bancaria sui cambi. Le grandi compagnie commerciali sono diventate delle vere e proprie holding. La più importante, l‘impero dei Medici, combina la banca, il grande commercio, l’industria della lana e della seta e lo sfruttamento, a partire dal 1459, dell’allume pontificio della Tolfa. Questo sviluppo secolare ha creato una classe dirigente in cui si mescolano le vecchie famiglie nobili, stabilite a Firenze dal TREDICESIMO secolo - di cui certune come i Pazzi si lanciano nel QUINDICESIMO secolo nel commercio - e le famiglie cittadine arricchite negli affari. Dominando solidamente il potere economico e gli ingranaggi delle istituzioni politiche, questa classe sociale entra nell’aristocrazia nel corso del QUINDICESIMO secolo. E’ questo il supporto principale dell’umanesimo che essa favorisce finanziando l’università, proteggendo uomini di lettere, artisti e scienziati, continuando al tempo stesso a gestire meticolosamente i suoi affari. La città mostra evidente questa mutazione: nel QUATTORDICESIMO secolo le grandi famiglie vivevano sotto l’emblema della compagnia di commercio, nel QUINDICESIMO secolo, è il palazzo che simbolizza il loro posto nella società. In un secolo, dal 1440 al 1550, più di cento palazzi vengono costruiti a Firenze, imitando l’iniziativa delle famiglie più potenti che hanno lanciato il movimento, palazzo Medici (1440-60 circa), palazzo Rucellai (1446-51), palazzo Antinori (1461-66), palazzo Pazzi (1462-72), palazzo Pitti (1440-66), il tipo classico che culmina con il palazzo Strozzi (1489-1507). Questa ondata secolare consacra l’asservimento dello spazio urbano a vantaggio dell’aristocrazia: la costruzione di tali edifici necessita di un grande numero si operazioni fondiarie preliminari. Dodici anni prima della posa della prima pietra, Filippo Strozzi il Vecchio comincia ad acquisire una ad una le particelle costruite che occupano lo spazio che egli vuole consacrare al suo palazzo, in totale quindi acquisti di case, con o senza negozio, fra le quali una dimora patrizia completa con la sua torre (caso indubbiamente eccezionale). Un nuovo palazzo rimpiazza normalmente da cinque a dieci edifici anteriori. In tal modo, quasi il 10% della vecchia Firenze è passato nelle mani dell’aristocrazia, che si afferma come motore urbanistico del Rinascimento. Ma questa “rivoluzione del quattrocento” non è in alcun caso una rimessa in ordine di un urbanesimo anarchico. La Firenze medievale, costellata di circa 150 torri signorili, alte una cinquantina di metri, scompare nella metà del TREDICESIMO secolo. Dal 1290, il Comune (6) si è dedicato alla bellezza funzionale della città, una Firenze “più pulita, più bella, più sana”; come lo proclamano i Senesi nel 1309: “Quelli che hanno la funzione di governo della città devono portare un attenzione speciale al suo abbellimento”. A Firenze, si raddrizzano e si allargano le antiche strade, se ne aprono delle nuove “ampie e dritte”, si creano delle grandi piazze. Il palazzo aristocratico segna la fine di questa regolarità urbana, questa uniformità voluta che si può ancora ammirare nelle vie di Siena, in quanto il palazzo è concepita per contrapposizione al suo ambiente urbano, che deve sottomettere ai suoi propri canoni. In un primo tempo, la costruzione aristocratica non modifica per nulla la geografia sociale della città: le grandi famiglie dominano ciascuna una porzione dello spazio urbano, senza concentrarsi in un determinato quartiere, le strade principali sono occupate dai mestieri più lussuosi, incarnazione della ricchezza della città. All’inizio ciascuno costruisce il suo palazzo nel cuore del territorio familiare. Ma rapidamente il palazzo, costruito per essere ammirato, invade le piazze, le arterie di passaggio: nel SEDICESIMO secolo non sono più le corporazioni che simbolizzano la bellezza (7) della città, ma la moltitudine delle dimore aristocratiche. Aperta nella prima metà del QUINDICESIMO secolo, la via Larga, oggi Via Cavour, che collega il centro di Firenze a Porta S. Gallo, passando per il convento di S. Marco, restaurato dai Medici e residenza di Frà o Beato Angelico (1395-1455), rappresenta il grande asse di passaggio verso la Romagna, granaio di Firenze. A seguito dei Medici, la strada si popola di palazzi, che conquistano anche le vie parallele.

Separazione delle classi sociali

A sud dell’Arno, la via Maggiore (attualmente via Maggio) era, nel QUATTORDICESIMO secolo, un centro fiorente dell’industria della lana: nella metà del SEDICESIMO secolo, la spinta aristocratica ha praticamente espulso tutta l’attività laniera, poiché verso il 1560 non restano più che cinque laboratori in tutto Oltrarno e la strada, allineamento di sontuose facciate, prolunga, al di là del Ponte di S. Trinita, la via de’ Tornaquinci, la più ricercata della Firenze bene. La mutazione della città, sotto l’impulso dell’aristocrazia, risponde all’augurio che formulava un secolo prima l’umanista fiorentino Leon Battista Alberti: “Io credo che in molti troveranno buono che le persone nobili fossero totalmente separate dalla turba popolare”. Il nuovo modello di palazzo non consente più la coabitazione, nello stesso immobile, di differenti classi sociali della città. Per di più le classi dirigenti tendono a separarsi dalle classi dominate, lasciando al “popolo” le stradine strette e tortuose della città medievale per accaparrarsi le vie moderne, larghe ed animate. Confrontato con i secoli precedenti, il quattrocento fiorentino non è un periodo di grande crescita economica né di profonda trasformazione sociale. I giochi sono già fatti. Tuttavia gli anni 1430 segnano una indiscutibile frattura: si mettono in opera un nuovo sistema di valori, dei nuovi comportamenti, che non sono né quelli dell’antica nobiltà, né quelli della borghesia degli affari. Per riprendere le parole dello stesso Alberti, comincia a manifestarsi “il generoso impiego della ricchezza”. Il palazzo fiorentino appare allora come il frutto di una “rivoluzione ideologica”, come uno dei primi segni visibili a tutti, della evoluzione in senso aristocratico della società fiorentina.

NOTE

(1) Questo termine designa gli “anni 1400”, ovvero il QUINDICESIMO secolo, considerato in Italia come l’apogeo del Rinascimento;

(2) Termine, apparso nel DICIANNOVESIMO secolo, che designa il diffondersi delle idee nate dalla riscoperta dei manoscritti dell’Antichità nel QUATTORDICESIMO e QUINDICESIMO secolo in Europa. Gli umanisti pongono l’uomo al centro della loro riflessione;

(3) Aiuto finanziario particolarmente significativo nel Rinascimento, che i principi, le aristocrazie urbane e gli ordini religiosi, apportano agli artisti. Il mecenate in tale contesto sarà una delle spiegazioni della fioritura e dello sviluppo artistico dell’epoca;

(4) Il termine designa inizialmente il fenomeno ottico che fa apparire gli oggetti sempre più piccoli mano a mano che si allontanano dall’occhio che li osserva (perspectiva naturalis). La prospettiva significa ugualmente nel Rinascimento la tecnica dei pittori che imitano l’effetto (perspectiva artificialis). Alberti attribuisce a Filippo Brunelleschi (1377-1446) l’invenzione di questa tecnica di matematicizzazione dello spazio;

(5) Termine architettonico che designa un rientro della facciata che forma un vasto spazio chiuso da arcate a colonne. La loggia apparsa in Italia nel Rinascimento, si diffonde in Europa grazie alla notorietà degli artisti italiani;

(6) Nome dato nel Medioevo alle città che hanno acquisito la loro autonomia nel corso del DODICESIMO secolo;

(7) Il termine evoca una concezione del bello che esalta il primato della visione. Per Alberti o Leonardo da Vinci (1452-1519), la misura, la proporzione o l’armonia sono costitutive della bellezza.

BIBLIOGRAFIA

Brown A., The Medici in Florence, Leo Olschki, Firenze, 1992

Bucci M. e Bencini R., Palazzi di Firenze, 4 vol. Leo Olschki, Firenze, 1971-75;

Ginori Lisci L., I Palazzi di Firenze nella storia e nell’arte, 2 vol., Bemporad Marzocco, Firenze, 1972;

Vannucci, Palazzi di Firenze


 

 

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