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Una Ricerca di Massimo Iacopi

LA TRAGEDIA DEI 100 GIORNI DI NAPOLEONE BONAPARTE

Un’Epopea che finisce in tragedia e che segna la fine dell’Epoca Napoleonica


04/04/2017 - Massimo Iacopi


(Assisi PG)

LA TRAGEDIA DEI 100 GIORNI DI NAPOLEONE BONAPARTE

I 100 giorni, iniziati come un’epopea, finiscono in tragedia. Per lungo tempo, dopo Waterloo, la Francia sentirà il peso di quei 100 giorni, che hanno visto, circa due secoli fa, il ritorno di Napoleone e la sua definitiva caduta.

Lo sbarco di Napoleone Bonaparte (1769-1821) a Golfo Juan, avvenuto il 1° marzo 1815 e conosciuto a Parigi cinque giorni dopo, rimbomba come un tuono in mezzo alla corte reale, che non si attendeva nulla di tutto questo, nonostante una polizia molto preoccupata dalle crescenti attività dei bonapartisti. Luigi XVIII di Borbone (1755-1824) assume delle misure immediate per tentare di contrastare il ritorno ”dell’usurpatore”, ma Napoleone aveva già diversi giorni di vantaggio ed i giochi erano ormai fatti. La decisione assunta da Napoleone di lasciare l’isola d’Elba si basava su delle ragioni personali, in particolare, la paura di essere catturato dalle potenze alleate e deportato in un’isola più lontana. Egli si preoccupava anche dell’ostilità della Restaurazione che aveva rifiutato di riconoscere il Trattato di Fontainebleau e di versargli i due milioni annuali pattuiti. Ma le ragioni della partenza erano anche legate alla situazione della Francia che Napoleone conosceva attraverso diversi canali di informazioni, fra i quali la stampa, le lettere ricevute, i rapporti fatti da visitatori di passaggio. Egli sapeva numerosi francesi erano preoccupati per un ritorno all’Ancien Regime e della potenza ritrovata da parte della Chiesa cattolica; egli aveva capito, soprattutto, il malessere esistente nell’ambito di un esercito, che aveva perduto una gran parte dei suoi quadri, posti a mezza paga. Ed era proprio sull’esercito che l’ex imperatore contava in primo luogo per tentare una improbabile scommessa. Partita da Portoferraio il 26 febbraio 1815, la piccola flottiglia che accompagnava Napoleone contava 6 navi, sulle quali si erano ammassati più di un migliaio di uomini. Vecchi veterani della Guardia, lancieri polacchi o volontari corsi, costituivano un esercito ridotto, ma efficiente. Napoleone, il cui obiettivo era chiaramente quello di riprendere il potere in Francia, dirigendosi verso Parigi aveva scelto di sbarcare a Golfe Juan (regione che conosceva bene dopo che vi aveva prestato servizio nel 1793) e di risalire verso nord, in direzione di Grenoble, attraversando le Alpi. In questo modo, egli evitava la Provenza monarchica, ma anche le forti guarnigioni delle città della valle del Reno. Non solo egli non ha incontrato alcuna resistenza armata, ma, a partire dal 4 marzo, il sostegno popolare, che si era manifestato sin dal primo momento, cresce a dismisura, al punto tale che il suo ritorno a Parigi si trasformerà in una vera e propria marcia trionfale. A Laffrey, vicino Grenoble, il 7 marzo, Napoleone aveva giocato una partita decisiva, riuscendo a convincere un battaglione del 5° di linea, arrivato a sbarrargli la strada, e di schierarsi dalla sua parte. L’adesione del colonnello Charles Angélique François Huchet, conte de La Bedoyere (1786-1815), che gli porta in sostegno un intero reggimento, confermava in Napoleone la convinzione di un esercito pronto a ritrovare in lui il suo capo legittimo. Qualche giorno più tardi, l’incontro ad Auxerre con il maresciallo Michel Ney (1769-1815) concludeva simbolicamente l’adesione dell’esercito a Napoleone, anche se numerosi ufficiali avevano, inizialmente, esitato a seguirlo in una incerta avventura, oppure si erano prudentemente ritirati, come i marescialli Laurent de Gouvion Saint-Cyr (1764-1830) o Nicolas Charles Oudinot (1767-1847). Di fronte all’onda che si riversava sulla Francia, Luigi XVIII si era ben presto trovato impotente. Nonostante i suoi appelli rivolti all’esercito, nonostante le sue rinnovate assicurazioni nell’applicare strettamente la Carta costituzionale, che aveva concesso ai Francesi nel giugno 1814, il monarca aveva, giorno dopo giorno, dovuto constatare che le defezioni si moltiplicavano, specialmente in una amministrazione i cui quadri erano stati poco epurati. L’invio in provincia di principi della famiglia reale per mobilitare la popolazione contro Napoleone, era ugualmente fallito, nonostante i tentativi di Luigi Antonio di Borbone Artois, duca di Angouleme (1775-1844) in Provenza e quello di sua moglie a Bordeaux. Anche la Vandea, che aveva cercato di sollevare Luigi VI Enrico, il duca di Borbone Condé (1756-1830), era rimasta calma. Il re aveva, a quel punto, preso la decisione di lasciare la capitale, accompagnato dalla sua casa militare e da volontari monarchici, fra i quali il pittore Theodore Gericault (1791-1824), Alfred de Vigny (1797-1863) o Alphonse de Lamartine (1790-1869). La notte del 19 marzo, essi avevano iniziato con lui, sotto una pioggia battente, una via crucis che li aveva portati a Gand, nel corso della “Settimana Santa”, che aveva visto, al contrario, Napoleone indossare nuovamente i suoi abiti di imperatore.

I malintesi dell’Impero liberale

Napoleone era stato sempre un rimarchevole comunicatore. Egli sapeva che un messaggio deve essere conciso per essere comprensibile. Il programma che aveva presentato ai Francesi era stato conseguentemente semplice ed efficace. Di fronte al fallimento della Restaurazione, egli aveva proposto non di restaurare puramente e semplicemente l’Impero, ma di riallacciarsi allo spirito della Rivoluzione. Dai primi proclami pubblicati dopo il suo sbarco, egli aveva insistito sulla volontà di ristabilire il principio della sovranità popolare, pur facendo richiami alla Francia tradizionale. A tal fine basti ricordare uno degli slogan lanciati in quel periodo: “L’Aquila, con i colori nazionali, volerà di campanile in campanile, fino alle torri di Notre Dame”. A Lione, il 13 marzo, Napoleone aveva precisato le sue intenzioni, annunciando il ristabilimento del vessillo tricolore, l’abolizione della feudalità, in realtà mai ristabilita, e costringendo gli emigrati a riprendere il cammino dell’esilio. Soprattutto, egli aveva annunciato la dissoluzione delle Camere, la redazione di una nuova Costituzione e l’appello al popolo per approvare le riforme. Arrivato trionfalmente a Parigi il 20 marzo 1815 in serata, egli aveva immediatamente formato un governo che riuniva vecchie figure della Convenzione, Jean Jacques Regis de Cambaceres, duca di Parma (1753-1824) alla Giustizia o Joseph Fouché (1759-1820), duca d’Otranto, alla Polizia, ma anche Lazare Carnot (1753-1823), il vecchio membro del Comitato di Salute Pubblica, il vincitore dell’anno 2°, rimane repubblicano al punto da opporsi al passaggio all’Impero. Poi egli aveva ipotizzato la redazione una nuova costituzione, alla quale Benjamin Constant (1767-1830) - l’oppositore di Napoleone, che, alla vigilia del suo ritorno, lanciava ancora numerosi strali contro questo nuovo “Gengis Khan” – aveva messo a disposizione la sua opera, sedotto dalla prospettiva di un regime liberale più conforme ai suoi principi, rispetto ad una Restaurazione che l’aveva fortemente deluso. Napoleone aveva tuttavia preteso che la nuova Costituzione non rimettesse in causa il principio di continuità con l’Impero creato nel 1804. Egli aveva, per questa ragione, preso il titolo di Atto addizionale alle Costituzioni dell’Impero. Se l’Impero era stato, in tal modo, restaurato, egli aveva fatto un lago posto al dibattito parlamentare grazie all’instaurazione delle Camere, sul modello inglese (o su quello della Carta del 1814), con una Camera dei pari, i cui membri sarebbero nominati a vita dall’Imperatore ed una Camera dei Rappresentanti eletta a suffragio censita rio dagli stessi elettori che formavano i collegi elettorali sotto l’Impero. La Costituzione garantiva, inoltre, le principali libertà, compresa anche la libertà di stampa, assicurando, durante il periodo dei 100 giorni e malgrado un controllo poliziesco sempre attivo, una relativa libertà d’opinione nel paese. In tal modo veniva ad affermarsi un regime costituzionale basato sui 92 mila notabili che formavano già il fondamento del 1° Impero. Il fallimento sarà pertanto dietro l’angolo. Il plebiscito organizzato nel mese di maggio per ratificare la Costituzione mostra il debole entusiasmo dei Francesi per il nuovo regime. Il contrasto è flagrante in relazione alle manifestazioni di adesione che avevano accompagnato il ritorno di Napoleone. Appena 1,5 milioni di Francesi si spostano per andare a firmare uno dei registri messi a loro disposizione, ovvero solo il 20% dell’elettorato. Il numero dei no è molto debole (5740), segno che si ha timore ad esprimere un parere negativo. Ma l’astensione manifesta chiaramente l’indifferenza rispetto ad un regime che lascia poco spazio al popolo e soprattutto che ha impegnato nuovamente il paese nella guerra. In effetti, i Francesi sono stanchi di guerre ed i sacrifici umani e finanziari che esse impongono. Napoleone dispone indubbiamente di molti sostegni nel paese. Sono i federati che si sono organizzati in tutto il paese, con l’appoggio delle autorità, per difendere i principi della Rivoluzione. Il movimento è partito dalla Bretagna, dove i Blu hanno reagito di fronte ai Bianchi, poi si è allargato su tutto il territorio ed ha raggiunto Parigi, riunendo nella capitale più di 10 mila cittadini. Napoleone li passa in rivista e promette loro delle armi (che in effetti poi non farà distribuire per non diventare il “re della jacquerie”). Egli rifiuta, in tale contesto, di impegnarsi sulla via delle riforme, fedele al programma che aveva annunciato nel 1799, “La rivoluzione è finita”. Egli, pertanto, non vuole andare al di là di qualche riforma liberale che, del resto, ha molte difficoltà a controllare. Egli vuole anche evitare di rianimare la guerra civile in Francia, da cui una relativa tolleranza nei confronti dei sostegni della vecchia monarchia, a cominciare dal clero, che viene messo sotto sorveglianza, ma non viene costretto a prestare un nuovo giuramento. Allo stesso modo, la repressione risulta altrettanto limitata nei confronti di quelli che si sono opposti al suo ritorno, specialmente in Provenza e nell’Ovest. Egli fallisce parzialmente nella sua preoccupazione di mantenere la pace civile in Francia, poiché la prospettiva di una ripresa della guerra in Europa suscita dei nuovi sussulti in Bretagna ed in Vandea. Le elezioni legislative rappresentano ugualmente un relativa delusione per Napoleone, che contava sui notabili per consolidare il suo potere. L’astensione è stata massiccia, specialmente nelle regioni monarchiche che si erano mobilitate contro il ritorno di Napoleone in marzo. Sui circa 600 deputati, solo una sessantina gli sono francamente devoti. Il maggior numero, circa 500, possono essere catalogati come liberali. Fra di essi figura anche qualche gloria delle assemblee rivoluzionarie, come Gilbert Motier marchese de La Fayette (1757-1834), ma anche Pierre Joseph Cambon (1756-1820) e Bertrand Barére de Vieuzac (1755-1841). Napoleone fallisce anche nel fare eleggere alla presidenza della Camera dei Pari suo fratello Luciano (1775-1840), riconciliato per l’occasione con l’Imperatore e che alla fine siederà alla Camera dei Pari a fianco dei fratelli Giuseppe (1768-1844) e Girolamo (1784-1860), che ne fanno parte di diritto. Le assemblee, riunite qualche giorno prima di Waterloo, avranno un ruolo decisivo dopo la sconfitta.

L’Europa contro Napoleone

Il fallimento di Napoleone nel 1815 si spiega in gran parte con la ferma volontà espressa dalle potenze europee di impedire al corso di riprendere il potere. La notizia della partenza di Napoleone aveva costernato i rappresentanti degli Stati riuniti a Vienna, dove il congresso proseguiva, all’inizio del mese di marzo, i suoi lavori. Lo zar Alessandro I Romanov (1777-1825), che era uno dei principali fautori del suo invio sull’isola d’Elba, ne viene particolarmente toccato, allo stesso modo di Clemens von Metternich (1773-1859), convinto immediatamente che Napoleone cercherà di riconquistare Parigi. Questa è anche la convinzione di Charles Maurice de Talleyrand Perigord (1854-1838) che, tuttavia, lascia capire, per guadagnare tempo, che l’Imperatore decaduto potrebbe essere tentato di sollevare l’Italia. Passato la costernazione, la reazione degli Alleati è rapida. Il 13 marzo, essi redigono una dichiarazione che mette Napoleone fuori legge, prima di firmare un nuovo patto il 25, attraverso il quale essi si impegnano a mobilitare ciascuno 150 mila uomini per cacciare Napoleone dalla Francia. La mobilitazione inizia immediatamente. Napoleone fallisce nello stesso tempo a presentarsi come un uomo di pace. Sebbene egli abbia scelto, come ministro delle Relazioni Estere, Armand Augustin Louis, marchese di Calaincourt (1773-1827), ben noto agli Europei per i suoi sforzi in favore di una conciliazione, Napoleone non riesce a convincere le potenze europee della sua buona fede. Tutte le ambasciate straniere lasciano Parigi, mentre i diplomatici francesi si rifiutano di riconoscere il nuovo regime, rimanendo fedeli al re. I tentativi per inviare emissari a Vienna falliscono a loro volta, rendendo caduchi qualsiasi prospettive di pace. Senza attendere, Napoleone ha, del resto, deciso di riarmare, con il concorso del maresciallo Luois Nicolas Davout (1770-1823), ministro della Guerra. Egli trova, arrivando in Francia, un esercito di circa 150 mila uomini. Il suo primo obbiettivo è quello di raddoppiare gli effettivi, richiamando gli ufficiali a mezza paga, quindi i coscritti del 1814, rimandati a casa 10 mesi prima, o anche mobilitando la Guardia Nazionale, una parte della quale viene inviata sulle frontiere per la difesa delle piazze forti mente l’esercito di linea parte per il combattimento. Ma occorre anche fabbricare fucili, munizioni, polvere da sparo, uniformi e scarpe, sforzo immenso che appesantisce il bilancio dello stato e resta insufficiente nei confronti delle esigenze di questo nuovo esercito. Nel giugno 1815, di fatto, l’equipaggiamento risulterà incompleto e l’intendenza avrà pena a far fronte alle esigenze. Soprattutto, i nuovi arruolamenti di uomini, anche se Napoleone ha rinunciato alla coscrizione, suscitano molte opposizioni. L’imperatore cerca anche di sollevare la nazione, sotto la forma di una mobilitazione generale, che sfocia sull’organizzazione dei corpi Franchi come nel 1814. Ma questi sono troppo pochi per avere un ruolo decisivo contro le truppe alleate. Se diversi contingenti vengono costituiti per la copertura delle frontiere del sud e dell’est, lo sforzo principale viene rivolto verso il nord. A partire del mese di aprile, Napoleone ha, in effetti, costituito quattro corpi d’armata, comandati dai generali Jean Baptiste Drouet conte d’Erlon (1765-1844), Honoré Charles Reille (1775-1860), Dominique Joseph René Vandamme (1770-1830) e Georges Mouton conte di Lobau (1770-1838), che formano “l’esercito del Nord”. Un quinto corpo, alla guida di Etienne Maurice Gerard (1773-1852), poi maresciallo di Francia, si aggiunge nel mese di giugno, come anche la Guardia con un totale di più di 200 mila uomini. Il 3 giugno, Napoleone nomina il maresciallo Emmanuel de Grouchy (1766-1844), comandante in capo della cavalleria dell’esercito, che riunisce a Laon ed infine, egli richiama anche il maresciallo Michel Ney. Egli dispone a quel punto circa 125 mila uomini pronti al combattimento. L’obbiettivo designato è il Belgio, dove sono stazionati l’esercito anglo-olandese (95 mila uomini), comandati dal Duca di Wellington, che mantiene l’ovest del paese e l’esercito prussiano del feld maresciallo Gebhard Leberecht von Blücher (1742-1819), schierato ad est (117 mila uomini). Durante questo tempo, gli eserciti russo ed austriaco si stanno dirigendo verso il Reno. Napoleone decide di lanciare la sua offensiva prima dell’arrivo degli austro-russi. Egli spera di poter separare i due eserciti in Belgio, ottenere nei loro confronti una vittoria decisiva e costringere, in tal modo, gli Alleati alla pace. Dopo aver scosso i Prussiani a Charleroi il 15 giugno, l’esercito si divede in due, la sinistra, al comando di Ney, si dirige verso la zona di Quatre Bas, posizione chiave sulla via di Bruxelles, la destra con Napoleone e Grouchy, attacca i Prussiani a Ligny, battendoli, senza distruggerli, mentre Wellington riesce a resistere all’urto nella zona di Quatre Bras, prima di ripiegare il giorno dopo verso la zona di Monte Saint Jean. Il generale inglese aveva effettuato la ricognizione della posizione un anno prima e sa di potervi assumere una posizione difensiva. Napoleone schiera il suo quartier generale presso la fattoria di Gros-Caillou, mentre le truppe francesi prendono posizioni e bivaccano su un terreno bagnato da una pioggia battente che non vuole smettere. Al mattino del 18 giungo 1815, Napoleone dispone di circa 95 mila uomini, altri 33 mila al comando di Grouchy sono partiti all’inseguimento dei Prussiani nella zona di Wavre. IL campo di battaglia forma un quadrilatero che si estende nel territorio dei comuni di Braine l’Alleud, Lasne e Waterloo. La piana è leggermente ondulata, con la sua quota più elevata a 142 metri, percorsa da canali che costituiscono altrettanti ostacoli naturali. Nel mese di giugno il terreno è coperto da alta vegetazione di spighe di segale che coprono una parte dell’orizzonte. Sparse sul territorio alcune fattorie che gli Inglesi hanno fortificato, diventando in tal modo ulteriori ostacoli da superare. Napoleone decide di attaccare frontalmente le posizioni tenute da Wellington, assicurandosi, nel contempo, il controllo delle fattorie, in modo da non permettere all’avversario di sviluppare attacchi sul fianco del dispositivo francese. Per questo motivo Napoleone lancia l’offensiva in direzione del bosco e della fattoria d’Hougoumont, sulla sinistra del campo di battaglia, con truppe condotte dal fratello Girolamo, che si esauriranno nel corso della giornata contro un ostacolo invalicabile. Napoleone lancia in seguito la grande offensiva contro le linee inglesi. Agli inizi del pomeriggio, circa 80 pezzi d’artiglieria aprono il fuoco sul centro dello schieramento inglese. Verso le ore 14.00, le 4 divisioni di fanteria francese del 1° Corpo d’Armata di Druoet d’Erlon, muovono all’attacco; queste attaccano le linee inglesi scaglionate su quattro colonne. Quando le colonne arrivano a 450 metri dalle linee inglesi, l’artiglieria apre il fuoco. Poi i fanti inglesi, comandati dal generale sir Thomas Picton (1858-1815), escono dai loro ripari di terra e tirano a bruciapelo sui Francesi, che replicano, uccidendo lo stesso Picton. L’intervento della cavalleria inglese consente di arrestare la progressione delle colonne francesi e quindi le obbliga a ripiegare. Ma l’artiglieria francese continua a bombardare le posizioni inglesi, forzando Wellington a far ripiegare le sue truppe. Ney vuole trarre immediatamente vantaggio da questa situazione e lancia contro le linee avversarie i corazzieri del 4° Corpo del generale Jean Baptiste Milhaud (1766-1833), seguito a breve dalla cavalleria leggera della Guardia, comandata del generale Charles Lefebvre Desnouettes (1773-1822). Quasi 5 mila cavalieri si gettano all’assalto delle truppe inglesi situate ad ovest della carreggiata per Bruxelles, truppe che sono state poco toccate dai precedenti attacchi sviluppati più ad est. Gli Inglesi formano dei quadrati e riescono a respingere gli attacchi. Alle 17.00, Napoleone, che rimprovererà più tardi a Ney questa carica intempestiva, decide nondimeno di appoggiarlo e dà ordine al generale François Etienne Kellermann (1770-1835) di dargli man forte. Parallelamente i soldati francesi si impadroniscono della fattoria de la Haie Sainte, oggetto di incessanti combattimenti dagli inizi del pomeriggio. Questi successivi assalti, nonostante le gravi perdite, cominciano a scuotere seriamente le posizioni inglesi. Ma Napoleone si rifiuta di impegnare il resto della Guardia. Egli tenta riorganizzare e rinvigorire le truppe, facendo correre la voce dell’arrivo del maresciallo Emmanuel de Grouchy (1766-1847). Di fatto, saranno i Prussiani di Blücher che arriveranno sul campo di battaglia all’inizio della sera, impadronendosi del villaggio di Plancenoit e facendo cambiare radicalmente il rapporto di forze in favore degli Alleati. La resistenza degli quadrati della Guardia, reso immortale dal comportamento dall’attitudine del generale Pierre Jacques Etienne Cambronne (1770-1842), non potrà impedire la sconfitta dell’esercito francese che è costretto a ripiegare in disordine. Lo stesso Napoleone lascia il campo di battaglia verso le ore 21.00 in direzione della frontiera. La resistenza accanita e superiorità numerica provocata dall’arrivo di tre ondate successive di rinforzi prussiani, avranno ragione di tutti i piani di recupero messi successivamente in atto da Napoleone.

L’ultima abdicazione

All’indomani della battaglia di cui tira la lezione in un bollettino redatto a Laon. Napoleone spera sempre di poter ribaltare la situazione in suo favore, appoggiandosi sulle truppe che sono state riunite nel frattempo, ma anche sull’esercito quasi intatto di Grouchy. Rientrato a Parigi il 21 giugno, l’imperatore deve far fronte all’ostilità delle Camere, nel cui ambito Fouché ha giocato le sue carte convincendo numerosi rappresentanti, cominciando da La Fayette, a spingere Napoleone all’abdicazione. Nonostante un sostegno popolare espresso per la strade, Napoleone rinuncia a tentare un nuovo colpo di forza ed accetta di abdicare il 22 di giugno in favore di suo figlio. Immediatamente, la Camera dei Rappresentanti designa una commissione provvisoria di governo presieduta da Fouché che, nel frattempo, prepara la Restaurazione dei Borbone. La difesa di Parigi viene organizzata sotto la guida di Davout, impotente a far fronte alla marea anglo-prussiana. All’annuncio dell’arrivo dell’esercito prussiano sotto le porte di Parigi, Napoleone effettua un ultima offerta di servizi per riprendere il comando dell’esercito francese, ricevendo in cambio una risposta sferzante da parte di Fouché. Ritirato alla Malmaison, egli decide a quel punto di allontanarsi in direzione dell’Atlantico. Qualche giorno più tardi, il 3 luglio, Parigi capitola e l’esercito si ritira a sud della Loira. Il ritorno del re appare a quel punto ineluttabile e Luigi XVIII rientra nella sua capitale l’8 luglio. Arrivato ai bordi dell’Atlantico, Napoleone esita sulla direzione da prendere. Egli pensa di recarsi negli Stati uniti, ma si rifiuta di mettere in atto questa opzione come clandestino, mentre la marina inglese ha già ricevuto l’ordine di fare del tutto per catturarlo. Dopo un breve soggiorno sull’isola di Aix, egli decide alla fine di affidarsi agli Inglese. “Ho terminato la mia carriera politica e mi sono messo a sedere, come Temistocle (-524 -459), al focolare del popolo britannico”. Ma gli Inglesi hanno ormai deciso altrimenti. Forti del sostegno degli Alleati e poco inclini a custodire in Europa un uomo che potrebbe rappresentare un pericolo di tipo rivoluzionario, e così decidono di esiliarlo a Santa Elena. Mentre Napoleone prende la rotta dell’Atlantico, la Francia vive una pagina oscura della sua storia. La guerra civile, latente sin dal mese di marzo e che si era propagata nell’ovest, obbligando Napoleone ad inviarvi un contingente sotto il comando del generale Jean Maximilien Lamarque (1770-1832) ed estendendosi ad altre regioni, all’annuncio della sconfitta di Waterloo. Le passioni continuano ad esacerbarsi e nel Sud Est i monarchici se la prendono con i sostenitori dell’ordine napoleonico, funzionari e soldati in testa, come anche con i protestanti, accusati di aver sostenuto la Rivoluzione. Questo terrore bianco, di cui il maresciallo Guillaume Marie-Anne Brune (1763-1815) è una delle vittime più emblematiche ad Avignone, agli inizi del mese di agosto, si prolunga con una repressione di stato, seguita poi da una epurazione radicale e l’eliminazione degli ufficiali superiori legati a Napoleone, a cominciare dal maresciallo Ney, mentre molti altri preferiranno andare in esilio. Questa guerra delle due France si svolge mentre il territorio è occupato dagli eserciti della coalizione europea, ovvero circa 1,2 milioni di uomini nel settembre 1815, che occorre alloggiare, nutrire e stipendiare. Tutto questo non fa che accrescere il deficit di un bilancio già gravato dalle spese effettuate per riorganizzare l’esercito durante i 100 giorni. Infine, al termine del 2° Trattato di Parigi, la Francia deve restituire ai Piemontesi la parte della Savoia che era riuscita a conservare nel 1814 e la contea di Nizza, oltre a diverse piazze forti nel nord e ad est. Essa deve versare, inoltre, una indennità di 700 milioni di franchi, garanzia dell’occupazione di una parte del territorio francese da parte di 150 mila soldati stranieri, per una durata minima di tre anni. La Francia deve anche restituire opere d’arte, manoscritti ed archivi accumulati nei musei e nelle biblioteche dal 1792. Il ritorno di Napoleone ha, in tal modo, permesso agli Europei di saldare definitivamente il passivo di 20 anni di guerre, mentre il Trattato di Vienna, firmato nove giorni prima di Waterloo, aveva contribuito ad una riorganizzazione dell’Europa che tendeva a rinforzare il peso delle 4 principali potenze vittoriose su Napoleone e che provvedeva a circondare la Francia con una cintura di stati di medio valore, con il compito di impedire il risorgere del principio rivoluzionario.

BIBLIOGRAFIA

Boudon Jacques Olivier, “Napoleon et la derniere campagne. Les Cents-Jours, 1815”, Armand Colin editore, 2015;

Waresquiel Emanuel de, “Cent-Jours, la tentation de l’impossible”, Ed. Tallandier.


 

 

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