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Arrivano i Liberatori !...

LA SPORCA FACCENDA DI CASTELLAMMARE DEL GOLFO DEL 1° GENNAIO 1862

Testimonianze e Verbali della Camera dei Deputati


28/04/2017 - Marco Giuliani


(Roma)

LA SPORCA FACCENDA DEL 1° GENNAIO 1862 A CASTELLAMMARE DEL GOLFO

Con questa recensione di presentazione dell'opera di cui è l'Autore  Marco Giuliani inizia la sua collaborazione con graffiti-on-line.com

BIOGRAFIA DI MARCO GIULIANI

         (graffiti pubblicherà la biografia dell’Autore appena disponibile)
 
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Che nel giorno di Capodanno 1861 stesse per succedere qualcosa di grave, era nell’aria già da settimane. Non per questo la comunità di Castellammare del Golfo, paesino di circa duemila abitanti a pochi chilometri da Trapani, pensava di vivere un clima di ritorsioni e di rastrellamenti così efferato. Soprattutto, non si aspettava che ci sarebbero andati di mezzo i suoi cittadini più deboli e indifesi.

Buona parte dei Siciliani – era sotto gli occhi delle nuove autorità piemontesi, da poco costituitesi in Regno d’Italia – non consideravano affatto lo Stato sabaudo un “esportatore” di libertà e diritti garantiti, bensì una sorta di usurpatore. Cosicché, ciò che rimaneva della ormai decadente corona borbonica fuggiva o si opponeva al nuovo ordine imbracciando le armi e dando luogo a rivolte contro l’occupante. E come nel resto del sud, anche nel circondario trapanese si associarono ex soldati napoletani, renitenti alla leva, contadini, poveracci, disertori e disagiati nella speranza di ripristinare gli antichi poteri mediante una resistenza armata che però, in relazione alla disparità delle forze militari in campo, apparve sempre più un obiettivo destinato a fallire.

Tuttavia, contrariamente a quanto la storiografia risorgimentale ordinaria ha spesso raccontato, c’era anche chi era mosso da uno spirito di rivalsa politica nei confronti di coloro che, a naso, tendevano a limitare ulteriormente i diritti della povera gente più di quanto avessero fatto i Borbone: esempi lampanti furono la coscrizione obbligatoria, le nuove imposte e la requisizione di appezzamenti agricoli ai quali, in precedenza, i braccianti avevano libero accesso. In quanto, alle promesse fatte dai “liberatori venuti dal nord” circa l’abolizione delle tasse su alcuni generi di prima necessità, queste rimasero tali. E di fronte all’impossibilità di far conciliare i diritti delle classi subalterne con gli interessi dei grandi possidenti e della nobiltà siciliana, i vertici delle camicie rosse e del nuovo governo italiano scelsero di venire a patti con questi ultimi. Programmato, scientifico.

Questa mala gestione politica e sociale era seguita alla spoliazione – da parte delle autorità garibaldine prima e piemontesi poi – dei denari e dei beni rimasti nelle casse del vecchio regno napoletano, utilizzati, secondo quanto dichiarato dai vertici di governo, soprattutto per pagare gli stipendi e i viveri all’esercito regolare e ai garibaldini. In realtà, il prosciugamento dei conti delle banche del sud aveva avuto luogo già dall’arrivo dei Mille, ed era continuato anche durante la proclamazione dei nuovi governi provvisori, i quali, man mano che le truppe avanzavano, trafugavano quanto più possibile in soldi e oro appropriandosene, talvolta, in modo indebito. Al punto che una parte di quella cospicua fortuna finì nelle tasche di chi, più che battersi per gli ideali legati ai concetti di patria o all’unità, preferì arricchirsi per conto proprio.

I costi dell’unificazione si rivelarono altissimi. L’esigenza di uniformare sistemi monetari e fiscali, di rimuovere le barriere doganali e pianificare la costruzione di una efficiente rete di comunicazione stradale e ferroviaria, impose allo Stato la necessità di applicare una tassazione molto dura, ma  fuori dalla portata delle classi popolari più modeste. E buona parte della popolazione meridionale (la meno abbiente) fu sottoposta ad una politica fiscale non sostenibile : alle imposte dirette (redditi e proprietà fondiarie) si aggiunsero quelle indirette (sali, macinato, grano), che, sommate all’introduzione di nuovi bolli, ipoteche e tasse sui registri, trasformarono le proteste in aperta ribellione.[1]

Benché lo stesso Cavour avesse affermato che dalla campagna meridionale lo Stato aveva usufruito di entrate pari a circa un centinaio di milioni in lire italiane, l’esercito ed i volontari in camicia rossa entrarono in possesso di almeno il doppio della somma. Lo statista piemontese si stava convincendo che le ricchezze del sud, storicamente mal gestite, avrebbero potuto essere sfruttate meglio, specie se amministrate dal nuovo Stato. A Palermo, Garibaldi, tra casse comunali e Banco di Sicilia, si fece consegnare 2 milioni, e solo fra Catania, Messina e Napoli le giunte provvisorie ne accumularono ufficialmente almeno altri 50. In contanti. Tuttavia, c’era un piccolo particolare, e non da poco. I contabili e i funzionari del nuovo governo incaricati di rendicontare le somme raccolte tra liquidi e beni immobili, ravvisarono delle discrepanze colossali: secondo loro, tra i denari dichiarati e quelli effettivamente reperiti c’erano differenze pari ad alcune decine  milioni. Ciò significa che qualcuno aveva fatto la cresta, oppure pensò di sperperare quella differenza come meglio pensava.[2]

C’era dell’altro. Nel bel mezzo della conquista del sud operata dai rivoluzionari e dai piemontesi, il numero dei volontari e degli irregolari in camicia rossa aumentava e diminuiva a seconda dei giorni, e la gestione di questo esercito para-militare stava avvenendo in uno stato di anarchia assoluta. Di fatto, il Regno delle Due Sicilie, per il nuovo Stato italiano, funse da vero e proprio bancomat. Tra l’altro, al contrario di quanto si aspettasse il governo unitario, a livello di economia e ricchezza le regioni del sud non se la passavano affatto male : le riserve auree borboniche, al momento dell’unità, ammontavano a circa 445 milioni in lire, che corrispondevano più o meno a 15 volte più di quelle piemontesi e a più di dieci di quelle pontificie.[3]

Al caos istituzionale provocato dall’entrata al sud delle amministrazioni dittatoriali, nella piccola Castellammare si aggiunse il protrarsi di una “faida” tra i notabili locali insediati al potere da Vittorio Emanuele II e quella parte di popolazione emotivamente ostile ad un processo unitario che faceva soprattutto gli interessi della ricca borghesia agraria ed immobiliare. E come dimostrano i dispacci inviati dalle autorità sabaude del paese siciliano a Torino, già dal febbraio del 1861 vi erano i “sentori” circa l’organizzazione di imminenti e diffuse sommosse antigovernative.[4]  La povera gente non aveva bisogno di mitizzazioni ed eroi dell’unità, aveva bisogno di mangiare, e gli oppositori del nuovo sistema erano decisi ad abbatterne i simboli con le buone o con le cattive. La (poca) storiografia del tempo che dedicò qualche scritto ai particolari della violentissima guerriglia scoppiata il 1 gennaio, la definì – semplificando troppo la questione –  “la rivolta contro i Cutrara del gennaio 1862” (la cutra è una tipologia di coperta). Ma quegli spari e quelle devastazioni nascondevano una realtà ben più complessa.

Di fronte all’arrivo dei patrioti, la Sicilia si lacerò essenzialmente dal punto di vista sociale : se la mobilitazione contadina si rivolse in principio contro i Borbone, infatti, a seguito della irrisolta questione della terra cominciò a mettere pressione anche ai cosiddetti “liberatori” giunti dal nord.[5] In relazione a ciò, benché Garibaldi fosse l’unico leader capace di attirare a sé il favore popolare dei movimenti patrioti isolani, nel corso del suo passaggio venne materialmente appoggiato solo da poche centinaia di insorti, la maggior parte dei quali di estrazione medio-borghese e appartenenti alle élites intellettuali locali.[6] I Mille, dunque, non ebbero – se non in minima parte – l’appoggio delle masse.

Nel trapanese, paese per paese, collegio elettorale per collegio elettorale, erano ancora presenti i residui di vecchie ruggini tra le principali famiglie, i quali davano luogo a scontri violenti provocati da motivi privati destinati ad esplodere prima o durante le elezioni comunali. Nel caso di Castellammare, sebbene ripicche ed antipatie affondassero le loro radici nei primi decenni dell’Ottocento[7], tutto si ridusse ad uno scontro tra fazioni rivali propense, da una parte e dall’altra, ad appoggiare i liberali filo-piemontesi o i nostalgici borbonici spalleggiati da alcuni contadini vessati dalla povertà e dall’indigenza. I cospiratori, ispirati idealmente dai vari Di Blasi, Coniglio e Costamante, uomini una volta appartenenti al notabilato amministrativo del paese e passati ormai all’opposizione, alle 15 del 1° gennaio 1862, ingrossate la proprie fila con alcune decine di braccianti delle frazioni limitrofe e gruppi di volontari (alcune fonti parlano di 400-500 persone), entrarono a Castellammare e trucidarono alcuni tra i cosiddetti reggenti locali del governo unitario (probabilmente tre), fra cui una ragazza, figlia del responsabile della sicurezza locale[8]. Dopo di che, incendiarono l’ufficio e l’archivio municipale, disarmarono 4 o 5 agenti della guardia nazionale a presidio del luogo ed occuparono il comune per diverse ore[9].

Come attesta un racconto del 1862 sotto forma cronologica redatto dopo la fine degli scontri da Giuseppe Calandra, un cittadino del luogo schierato dalla parte dei Savoia, la sommossa era in preparazione da diversi giorni e da fine dicembre nel paese avevano cominciato a transitare degli estranei i quali non lasciavano presagire nulla di buono. Ai primi disordini, seguì la reazione dell’esercito regolare italiano, che fu spietata e provocò altre decine di vittime. A supporto dei piemontesi giunse la cavalleria da Alcamo e un reparto sbarcato dalla pirocannoniera Ardita, appositamente dirottata su Trapani. Contemporaneamente, la fregata militare Costituzione, attraccata su Castellammare, cannoneggiò gli insorti appostati in prossimità delle colline antistanti al paese, disperdendoli.

Sulla violenza inaudita che caratterizzò la faida di Castellammare – continuata per ore e ore – si rincorsero voci e smentite, comunicati ufficiali e bollettini dell’esercito regio. La cosa certa è che la gravità degli scontri stava richiamando l’attenzione dei vertici del governo unitario e dell’opinione pubblica dell’intera isola, ed in relazione a ciò ci fu qualcosa che le autorità, unitamente alle agenzie d’informazione, come si vedrà, non vollero fra trapelare. I successivi dispacci trasmessi agli organi di stampa diedero notizia delle perdite subite dagli italiani : 14 soldati regolari e 5 carabinieri.[10]  Riguardo agli insorti, i comandi militari del luogo, pur ribadendo la totale repressione della sommossa, non seppero o non vollero dare il numero preciso delle vittime, ma comunicarono che gli arresti furono circa 27.[11]

Anche il giornale La Civiltà Cattolica, sebbene avesse tentato di avere notizie fondate, non poté aggiungere molto a quanto dichiarato dalle fonti ufficiali governative, e cioè che la guerriglia fu provocata esclusivamente da una banda di uomini armati, i quali “in Via Garibaldi cominciarono a tirarsi parecchie fucilate al grido di “abbasso i liberali, viva la repubblica e abbasso la leva!” esponendo una bandiera rossa e colpendo gli esponenti e le sedi istituzionali del comune”. [12]

L’11 gennaio 1862 presso la Camera dei Deputati ebbe luogo una prima interpellanza tramite Francesco Crispi. Questa, di cui nelle pagine seguenti sono riportati i contenuti (comprensivi della discussione in aula e della successiva interrogazione parlamentare), sembrò inizialmente concentrata a richiedere una spiegazione al governo :

 

E’ un interpellanza che vorrei fare. Sono due giorni che desideravo pregare il signor ministro dell'interno a volerci dire qualche cosa sui casi di Sicilia. Questo desiderio è divenuto in me più ardente dopo il racconto datone dalla gazzetta ufficiale dell'altro giorno. La gazzetta ufficiale, come è solito di tutti gli organi governativi, si tiene un po' sulle generali; ma, malgrado le sue reticenze, dice abbastanza perché il fatto di Castellammare in Sicilia debba riguardarsi come un fatto della più grave entità. Nella gazzetta ufficiale, per esempio, si narra che gl'insorti furono respinti sui monti, ma non s'annunzia se furono fugati, e se l'insurrezione fu completamente spenta. La gazzetta ufficiale soggiunge che in altri luoghi circonvicini a Castellammare, in Alcamo ed in Borgetto, si erano manifestati sintomi di rivolta. Codeste notizie vengono a ricevere maggior importanza delle altre giunte di Palermo e che risultano anche dall'organo del Governo di quella città. La luogotenenza pubblicava un telegramma, il 2 gennaio, in cui parlavasi di sbarchi avvenuti in Sicilia ; all' indomani poi pubblicava un avviso della questura, che smentiva il fatto degli sbarchi, ma si limitava ad asserire che vi erano stati semplici torbidi locali. La questura di Palermo, dando quella notizia, era anche più concisa della gazzetta ufficiale del regno.” [13]

 

Che le autorità non fossero andate troppo per il sottile, fu sotto gli occhi di tutti. Ma rispetto a quello che stava realmente succedendo, il Parlamento volle convincersi e convincere – ma non era affatto così – che la stragrande maggioranza dei cittadini di quei territori avesse ardentemente desiderato di unirsi al Regno di Piemonte. Come tentò di far credere il deputato Antonio Mordini, garibaldino e già prodittatore della Sicilia, il quale in aula affermò che:

 

“Questo fatto conferma ciò che già da tutti si conosce intorno ai nobili e patriottici sentimenti della popolazione della città di Palermo (Bene!).” [14]

 

A contraddire quella effimera dichiarazione era il Mezzogiorno stesso, che al “connubio” col Piemonte dei Savoia stava in realtà rispondendo con le fucilate. Ma, evidentemente, l’esecutivo di governo e i suoi dirimpettai – come è dimostrato – erano disposti ad andare avanti a qualunque costo, anche a quello di massacrare innocenti e villani a cui del processo risorgimentale non fregava nulla.

Il quotidiano milanese Il Pungolo, di estrazione moderata, diede una versione diversa, ma solo nella forma, perché la sostanza non lasciava spazio a dubbi. Raccogliendo le testimonianze di corrispondenti dell’informazione locale, riportò che :

 

“Il 1° gennaio 1862 alle 4 p.m. un gruppo di contadini e di caprai armati, circa 60, o ladri o iniqui, riuniti nel quartiere nominato Vignazza, iniziarono il folle moto con un fuoco di gioia e con grida […] abbasso li Cutrara (pagnottisti) abbasso la leva […]. Alle sediziose grida , il sig. Francesco Saverio Borruso, Cancelliere Segretario del Sindaco e Maggiore di quella Guardia Nazionale ancor non organizzata, il Delegato D. Gaspare Fundarò, D. Bartolomeo Dadò, ed altri tre o quattro ben degni cittadini, si mossero ad incontrare quei tristi. […]. Cadevano estinti il sig. Borruso e la figlia, D. Bartolomeo e quanti altri con lui si trovavano nella casa incendiata […]. Il furto e la rapina, precipui motori di quel disordine, ebbero larga messe, ripeteronsi in ogni casa agiata, o che i buoni cittadini dalla turba furente venivano costretti a unirsi a loro, e con essi a gridare…Tre militi a cavallo venivano per caso in Castellammare: furono pure essi uccisi o massacrati. All’annunzio di tanta turbolenza, il Sotto-Prefetto di  Alcamo spediva la poca truppa, quivi di guarnigione, e datone tosto avviso in Palermo, il Luogotenente del Re ordinava partisse una fregata con truppa.” [15]

 

Il resto è ben noto, se non che, in modo abbastanza dettagliato, il giornale milanese aggiunse che otto insorti vennero fucilati sul posto e altri trenta vennero arrestati e spediti a Palermo.[16]

Come detto e come riportato da fonti locali, di fronte alla sommossa del 1 gennaio 1862 la reazione dell’esercito italiano, richiamato da Alcamo e da Trapani, fu altrettanto truce e violenta, e agli eccessi rispose con altrettanti eccessi. Ingiustificabili tuttavia da parte di chi, all’epoca, indossava una divisa per far rispettare la legge. La domanda sorge spontanea : in una condizione di anarchia e scontro totale, si poteva ancora parlare di rispetto delle leggi?

Sembra che l’ordine di intervenire a Castellammare fosse venuto dall’allora neopromosso generale Giuseppe Govone, da poche settimane coordinatore delle dislocazioni del regio esercito presso le province meridionali. Ordine eseguito materialmente da Pietro Quintini, romano, già ufficiale di fanteria e noto per i suoi metodi “spicci” circa la repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno. I 256 militari agli ordini del suddetto comandante irruppero in paese la mattina del 2 gennaio, scontrandosi ripetutamente con gli agitatori e riprendendo a breve il controllo del centro abitato. Tra le perdite accusate da entrambi gli schieramenti, un prete fucilato prima e sbudellato poi, tale Benedetto Palermo, il quale “dimentico del suo ministero d’amore e di pace, fu uno degli autori dei fatti di capo d’anno, e tirava contro la truppa, insieme ad altri cinque, tra i quali il suo cognato Giovanni Sangiorgio” [17]. Lo avevano preso – così riferì il comando regio – mentre imbracciava un trombone carico a pallettoni.

Nel corso dei successivi arresti e dei rastrellamenti operati dai militari, come accennato, successe qualcosa di raccapricciante che le ripristinate autorità nascosero, o almeno così tentarono di fare al momento.

Questa tesi, molto plausibile, è sostenuta anche da Francesco Bianco, storico locale che ha rispolverato le carte d’archivio della annessa Chiesa Madre del comune trapanese alla quale spettavano i tristi oneri di sbrigare le pratiche cimiteriali.  I documenti attestano che, “interfecta fuit a militibus Regis Italie”, tra le vittime delle ritorsioni ci furono “Antonino Corona, di anni 70, Marco Randisi, di anni 45, Angela Catalano, di anni 50, Angela Calamia, di anni 70, Marianna Crociata, di anni 30, Angela Romano, di anni otto e due mesi”.[18] Giustiziati in Contrada Villa Falconeria, in aperta campagna. Tra quei poveri cristi, dunque, una bambina, e stando alle testimonianze dell’epoca tramandate ai posteri, anche alcuni disabili.

Perché tanta ferocia? Le ipotesi e le congetture, anche da parte di chi in epoca recente ha dedicato delle pagine all’episodio, si sono moltiplicate. Fu un errore o no? Chi scrive qui non ha dubbi : fu ritorsione. E dello stesso avviso sono state, presumibilmente, anche le amministrazioni comunali di alcuni paesi del meridione che hanno espressamente chiesto ed ottenuto di togliere dalle toponomastiche stradali le vie intitolate ad Enrico Cialdini, sostituendole, in più di un caso, con il nome di Angelina.[19] Le parole, in alcune circostanze, non servono. L’atrocità, oltre ad aver giustiziato una piccola inerme di appena 8 anni, sta nel fatto che quell’elenco è stato aggiunto successivamente alle date del 1 e del 2 gennaio 1862, come se le autorità piemontesi avessero imposto di nascondere temporaneamente quel gesto infame.

 

“Fatti deplorabili sono avvenuti a Castellammare in Sicilia…vi furono cinque, se non erro, i quali, presi colle armi alla mano, furono fucilati. Signori, io non credo certo che questi cinque si vogliano considerare come degli estranei nemici. Ma, se così, ormai finito è il tempo in cui il diritto internazionale della guerra era quello di uccidere i prigionieri. Passò anco il tempo in cui i prigioni si facevano servi coi posteri loro. Oramai, una volta che si sono presi i nemici, si tengono come sacra cosa, e nelle tregue e nelle paci si restituiscono.” [20]

 

Il 15 gennaio 1862 aveva esordito così nella sua interrogazione parlamentare il deputato palermitano Vito d’Ondes Reggio, dell’opposizione, a distanza di due settimane scarse dall’eccidio. I fatti stavano venendo alla luce, ed il governo non poteva più nascondersi. Continuando, egli toccò il punto più drammatico della questione :

 

Questi adunque di Castellammare saranno stati dei ribelli; almeno credo che tali saranno stati, perchè appunto, non essendovi ancora giudizio, io non so che cosa veramente fossero...ciò non toglie che avrebbero dovuto essere condannati secondo la legge. Lo Statuto, signori, all'articolo 71: Niuno può essere distolto dai suoi giudici naturali. Non potranno perciò essere creati tribunali o Commissioni straordinarie…quelli cinque era necessario vedere chi realmente fossero stati rei o no, se questi rei fossero colpiti dalla pena dell'estremo supplizio o di pena minore. Poteva tra di loro trovarsi un minore che appunto per essere tale per il suo reato non va soggetto alla morte.” [21]

 

L’agghiacciante conferma di quello che avevano combinato gli uomini di Quintini arrivava proprio dal Parlamento, che nella persona di d’Ondes Reggio tentava – forse un po’ goffamente – di focalizzare l’attenzione su quel gesto vile senza calcare troppo la mano, pur sottolineando la rilevanza degli avvenimenti. A difesa di Quintini era già intervenuto il questore di Palermo Achille Basile, il quale, mediante un comunicato ufficiale emesso il 4 gennaio, certificava che “le truppe del Maggiore Generale Quintini si scontrarono con gli insorti, che misero in fuga – Altre forze furono spedite per accerchiare e distruggere intieramente ogni reliquia di ribellione – In Castellammare già si fece rigorosa giustizia. Continui la consueta calma e viva sicuro il popolo sulla sollecitudine ed energia del Governo. Palermo, addì 4 gennaio 1862, ora 8 a.m. Il Questore Achille Basile”.[22]  Il giorno successivo, tale dichiarazione venne rettificata da notizie contraddittorie che si rincorrevano in successione.

In Parlamento, tuttavia, più che costernazione per le decine di vittime accusate da entrambi i fronti, sembrò aleggiare un senso di inopportunità rispetto alla “grandezza imprescindibile” del processo unitario in corso, il quale, agli occhi dell’opinione pubblica, rischiava di essere macchiato da episodi che le stesse autorità, probabilmente imbeccate dai vertici di governo, avevano voluto al momento nascondere. Sulla stessa lunghezza d’onda anche i quotidiani siciliani, dove non appaiono accenni di notizie relative all’uccisione di civili inermi estranei ai combattimenti.

Neanche sui registri comunali di allora vi è traccia dell’elenco completo delle vittime degli scontri a fuoco del Capodanno 1861: strana incongruenza. Tra l’altro, sembra che il nome della piccola Angela sia stato aggiunto sul menzionato registro parrocchiale ancora dopo rispetto a quello degli altri, suffragando i sospetti di chi ha denunciato e ha continuato a trovare alquanto anomala quella sporca faccenda. Se ne deduce che, data la scarsezza dei documenti ufficiali e delle fonti accertate – eccetto i pochi nominativi trascritti dal parroco locale e gli sporadici dati diffusi dal governo – non ci fu modo di calcolare il numero esatto dei caduti e dei feriti civili della guerriglia. Giacomo Medici, allora luogotenente generale dell’esercito meridionale, riferendo al governo, parlò di “circa ottanta testimoni, di cui almeno settanta assassinati”. Govone, da parte sua, un anno dopo sostenne che sui monti di Castellammare si rifugiavano ancora una sessantina di ricercati per motivi vari, compresi quelli legati alla diserzione e alla renitenza alla leva. Sembra comunque che le vittime fossero molte di più rispetto a quelle dichiarate dal Medici. Certamente, dell’avvenuta esecuzione della fanciulla, il paese era già a conoscenza.

Per fare maggiore chiarezza, vale la pena soffermarci alcuni istanti sull’operato del già menzionato Govone. Questo personaggio, nato ad Isola d’Asti, fu tra coloro che – incaricati di combattere il brigantaggio – pose la Sicilia in uno stato di guerra con una doppia ambizione : togliere di mezzo i delinquenti comuni ostili al governo unitario e usarli per screditare gli avversari politici, nello specifico i filo-garibaldini e i democratici. Il timore dei liberali era legato alla possibilità, paventata dai vertici di governo piemontesi, che i reazionari borbonici, facendo fronte comune con i repubblicani e i democratici, potessero condizionare la politica locale provocando rivolgimenti a livello amministrativo. In tal senso, con il Govone responsabile dell’ordine pubblico di un’ampia area siciliana, emerse una cultura secondo cui i malfattori non venivano osteggiati in quanto tali, non in quanto assassini o oggetto di allarme sociale, bensì come avversari politici. Criminalizzandoli, e addirittura arrestandoli senza mandato di cattura per trasferirli a Fenestrelle, come avvenne per alcuni militanti del Partito d’Azione mazziniano.[23]

Nominato comandante della 9ª divisione attiva militare di Palermo, Govone sapeva benissimo quali erano i gravissimi problemi socio-politici della Sicilia, ma i pregiudizi di cui era schiavo lo indussero ad esercitare il suo mandato con estrema crudeltà, colpendo spesso persone estranee ai fatti delittuosi che stavano avvenendo nell’isola. Fu lui che nel 1863 – scrivendo al Ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi – sostenne la tesi per cui “metodi legali per combattere i malviventi non ce ne sono, e allora si arrestano tutti coloro che, paese per paese, hanno la giovane età per essere renitenti alla leva e hanno il viso dell’assassino”. [24] Ma così facendo, l’ufficiale non trovò neanche un cane disposto a collaborare con lui e i suoi soldati, trovandosi di fronte un muro d’omertà assoluto, anche nei casi di fermi di polizia e dei numerosi interrogatori ai quali furono sottoposti gli abitanti delle province siciliane. Condizione che determinò un inasprimento della repressione sino all’adozione di misure estreme come quella di tagliare i rifornimenti d’acqua ad alcuni paesetti del palermitano anche durante l’estate. Comportamento che diede luogo ad una durissima protesta di Crispi nei confronti del governo-Farini.

Ad ogni modo, il dibattito alla Camera sui fatti di Castellammare proseguì.

 

“Coloro, non ostante fossero stati presi colle armi alla mano, potevano essere innocenti, poiché non è questa la prima volta che de' ribaldi s'impadroniscono dì persone innocenti e le costringono a stare in mezzo a loro colle armi alla mano; quindi poteva anco ben darsi che tra que' cinque si trovasse non solo un innocente, bensì un uomo che fosse d'idee liberali, e ciò nulladimeno sia stato trucidato. Infine, potevano essere rei, eppure potevano anche meritare perdono; altrimenti non avrebbe senso il diritto di grazia che è consacrato nelle nostre leggi, e in tutte le leggi dei popoli civili…Il Governo se l'avesse potuto prevedere, avrebbe impedito quest'eccidio; e non solo il Governo di qui, ma anche il Governo locale di Sicilia. Certo è anco che volghi plebei e volghi nobili non approveranno queste parole; diranno è l'antico umanitario…(Bene! bene! dalla destra).” [25]

 

La chiosa di d’Ondes Reggio di cui sopra fu senz’altro audace, ma di fatto manifestò nuovamente quell’alone di formalità istituzionale rivolto quasi a giustificare, in un clima di “conditio sine qua non”, l’operato dell’esercito regio. Esercito che – va ricordato – nell’Italia Meridionale operò in condizioni a dir poco proibitive. A tal proposito, è opportuno fare una digressione : quei giovani e giovanissimi in divisa catapultati da un giorno all’altro nel Mezzogiorno, infatti, furono obbligati a combattere in una terra a loro completamente sconosciuta, da cui spesso avevano il dovere di stanare pericolosi assassini e fuorilegge comuni senza scrupoli che conoscevano perfettamente ogni metro quadrato di quei luoghi impervi e remoti. Soldati oltretutto privi di carte geografiche e sottoposti talvolta ad agguati ed imboscate per mano di soggetti locali spalleggiati quasi sempre dai compaesani, i quali si mostravano pronti ad aiutarli con beni di prima necessità, viveri e coperture. Oltre ai combattimenti, c’era un altro elemento in particolare che accomunava gli eserciti di entrambi i fronti, ed era terribile:  le malattie. Durante gli anni Sessanta dell’Ottocento, i soldati impegnati in guerra erano soggetti ciclicamente a epidemie di vario genere, tra cui il colera, il tifo petecchiale e febbri di varia natura sfociate spesso in polmoniti, che facevano centinaia di vittime. Sembra alquanto corretto sostenere che quella combattuta nel sud italiano nella seconda metà dell’Ottocento si trasformò in una guerra tra poveri, o in un fratricidio bello e buono.

Di certo, i vertici militari avrebbero potuto evitare, almeno al momento, cerimonie onorifiche e riconoscimenti al valore, specie a distanza di pochi giorni da quel sanguinoso massacro. Su quelle basi – come avvenuto in seguito – quanto era opportuno decorare un personaggio come Quintini, già noto per aver ucciso (più volte) a sangue freddo nella “Operazione Scurcola Marsicana” del gennaio 1861? [26] Soprattutto, chi fu l’illuminato signore che decise di rendere gli onori militari [27] a chi aveva appena fatto fucilare una bambina di 8 anni, la quale non capiva neanche in quale lingua stessero parlando (probabilmente in francese) quegli uomini con divisa e pennacchio? Una fanciulla lontana dalle “mischie” della guerriglia, che una volta riparata fuori dal paese, stava solo tentando di proteggersi ed essere protetta.

In ogni caso, era il nuovo sistema che faceva acqua da tutte le parti. La drammatica condizione della Sicilia, stretta in una “morsa a tenaglia” in cui da una parte si era vista invasa dai rivoluzionari in camicia rossa a favore dell’unione al Regno d’Italia e dall’altra sospinta dal disperato tentativo dei Borbone di riprendersi il potere, produsse ulteriori rigurgiti autonomistici e li trasformò in sommossa disordinata. Poi arrivarono i Piemontesi. E l’isola, a livello sociale, tra 1860 ed il 1861 visse il suo momento più esplosivo, il quale fu caratterizzato dalla discesa in campo di decine di fazioni popolari contrapposte: quelle contrarie all’accentramento di potere operato dai napoletani che riponevano le loro speranze in un cambiamento, e quelle che da tale cambiamento non trassero benefici e sfogarono la rabbia occupando i demani comunali e devastando i municipi. A farne le spese, erano come al solito i poveracci.

Continuando a esaminare ancora il resoconto stenografico del dibattito parlamentare inerente ai drammatici fatti di Castellammare, si può notare come l’arringa di d’Ondes Reggio si fosse fatta concettuale e ideologica, citando temi che per il paese appena unificato rappresentavano delle ferite non ancora rimarginate :

 

“…Ciò che distingue i Governi tirannici dai Governi liberi è questa : che nei Governi tirannici impunemente si violano le leggi, si commettono violenze d'ogni maniera, i soldati ammazzano innocenti o rei, la volontà dei governanti sfrenata ed iniqua sta per legge; ma nei paesi liberi queste enormità non possono commettersi, non debbono commettersi. I Borbone appunto così trattavano i Siciliani, i soldati borbonici fucilavano anche dei giovinetti che non toccavano gli anni 15, assai volte fucilarono gl'innocenti. Quando non si osservano le norme stabilite dalle leggi, non è possibile che si distinguano i rei dagl'innocenti. Ciò che principalmente concitò in Sicilia l'odio implacabile contro i Borbone furon queste uccisioni, che si facevano senza forme legali.” – [28]

 

La parola passò quindi al deputato della maggioranza Giuseppe La Farina, un massone che senza mezzi termini arrivò a legittimare le mattanze operate dall’esercito regio ai danni di civili innocenti:

 

“…In Sicilia, signori, ciò che sopratutto si desidera è un Governo forte…In Sicilia (e credo che nessuno degli onorevoli deputati che siedono in questa aula potrà smentirmi) si vuole il rispetto della legge, si vuole e si desidera il rispetto della libertà, ma nell'istesso tempo non si vuole transigere colla sedizione, di qualunque veste si ammanti, e sotto qualunque bandiera si manifesti. In Sicilia si desidera che la legge non sia violata, ma si desidera che la legge sia eseguita con quella fermezza e con quel rigore che i tempi ne' quali ci troviamo esigono.” – [29]

 

Le risposte all’interrogazione parlamentare spettarono al Ministro di Grazia e Giustizia Vincenzo Maria Miglietti, il primo dell’Italia unita :

 

Piacque all'onorevole D'Ondes di rivolgere a me un'interpellanza sui fatti di Castellammare, a me che forse meno di tutti i miei colleghi sono in condizione di dare schiarimenti riguardo a questi fatti. Io ben posso rispondere all'onorevole D'Ondes relativamente al modo col quale la giustizia sia amministrata, ma dare schiarimenti relativamente al modo col quale questi fatti sieno avvenuti, in verità non è cosa la quale mi appartenga. Io conosco questi fatti per le voci pubbliche, ma non ho avuto, al giorno d'oggi, ancora dall'autorità giudiziaria alcun riscontro positivo : seppi che in Castellammare una sommossa ebbe luogo, nella quale avvennero molti omicidii ; che vi fu ucciso il comandante dei militi, che furono parimente uccisi il maresciallo dei carabinieri, ed alcuni altri carabinieri, ed un maggiore della guardia nazionale; che fu dato il fuoco a molte case ; questi fatti io li credo veramente positivi, ma non li so, ripeto, per informazioni ufficiali. …L'onorevole D'Ondes non vorrà certamente mettere questi fatti come norma del modo col quale la giustizia si amministri in Sicilia. Se nell'impeto non hanno potuto i militi reprimere un sentimento, dirò, di giusta ira, in seguito agli immensi danni di cui erano spettatori, non è cosa questa, la quale in alcun modo possa essere addotta come argomento che la giustizia sia male amministrata. Sono questi di tali fatti che debbono essere deplorati, che è da desiderarsi che non abbiano mai a succedere, ma che può facilmente comprendersi come non siansi potuti impedire. Del resto, ben può star certo l'onorevole D'Ondes che l'amministrazione della giustizia avrà sempre di mira la legalità….” [30]  -

 

Secondo il titolare del dicastero, dunque, non vi furono colpe specifiche, ma solo gesti d’impeto. La subdola piega che stava prendendo il dibattito, impegnato da una parte a far luce – in modo sin troppo discrezionale – sulla spietata esecuzione di alcuni incolpevoli, e dall’altra a far passare l’episodio per un semplice disguido provocato dalle cattive condizioni ambientali e dall’istinto di chi aveva il dovere di impedire le sommosse, non solo era orientato a lasciare impuniti i responsabili dei delitti, ma addirittura ad adoperarsi perché fossero gratificati al valor militare.

Prese di nuovo la parola Francesco Crispi, un individuo che con il “sangue” aveva una certa dimestichezza (fu lui, da Presidente del Consiglio, a reprimere i fasci dei lavoratori siciliani nel gennaio 1894 facendo sparare sui contadini, provocando una cinquantina di morti e mandando al confino senza processo almeno 1000 persone), ma che in quel momento dimostrò indubbiamente un senso delle istituzioni più elevato rispetto al suo precedente interlocutore. Almeno a parole :

 

Da quel che pare, l'onorevole ministro della giustizia ci ha manifestate le sue intenzioni, e non altro. Il deputato D'Ondes voleva sapere come sieno stati fucilati in Castellammare quegli sciagurati, che si dicono stati presi colle armi alla mano. Se l'onorevole ministro ci avesse detto che cinque dei ribelli del 1° gennaio, presi colle armi alla mano, furono sottoposti ad un Consiglio di guerra, e che i comandanti le truppe, valendosi di taluna disposizione del Codice penale militare, in qualche modo legittimante la loro condotta, li avessero fatti fucilare, avrei capito la risposta. Ma quando sento ch'egli non conosce neppure come siffatte fucilazioni sieno avvenute, dico la verità, ciò mi stupisce e m'induce a credere che dagli agenti suoi non è messo a giorno del modo come la giustizia colà si amministra.[31]

Dopo di che, come se nulla fosse, gli onorevoli parlamentari ripresero a discutere sui permessi della pesca nel Lago di Como.

 



[1] Giardina-Sabbatucci-Vidotto, L’età contemporanea, p. 238

[2] Del Boca, Risorgimento disonorato, pp. 82-83

[3] Giordano Bruno Guerri, Il sangue del sud, Mondatori, Milano, 2017, pp. 38-39

[4] Gazzetta del Popolo del 18 febbraio 1861, in cronaca

[5] Enzo Ciconte, Borbonici, patrioti e criminali. L'altra storia del Risorgimento, Salerno Editrice, Roma, 2016, p.59

[6] Giardina-Sabbatucci-Vidotto, L’età contemporanea, p.216

[7] Giuseppe Calandra, I casi di Castellammare del Golfo colle loro prime cause, Tipografia Amenta, Palermo, 1862, pp. 4-5

[8] La Forbice-Gazzetta Popolare della Sicilia dell’8 gennaio 1862

[9] Calandra, I casi di Castellammare del Golfo colle loro prime cause, pp. 28-29

[10] La Forbice-Gazzetta Popolare della Sicilia del 7 gennaio 1862

[11] La Forbice-Gazzetta Popolare della Sicilia del 5 gennaio 1862

[12] ASCC, La Civiltà Cattolica del 1861, anno decimo terzo, parte I, serie V, pp. 366-367

[13] Camera dei Deputati, Sessione dell’ 11 gennaio 1862, Atti, p.615

[14] Ivi

[15] Il Pungolo del 10 gennaio 1862, anno III, n°9, pagina 2, in Notizie di Sicilia

[16] Ivi

[17] Ivi, p.40. Come racconta Calandra nelle sue memorie, Don Palermo venne ferito, arrestato e fucilato davanti a Quintini, autore dell’ordine di esecuzione. Alcune fonti ritengono sia stato infine sgozzato con baionetta.

[18] Pino Aprile, Carnefici, Piemme, Milano, 2016, pp. 323

[19] Ivi, p. 323

[20] Camera dei Deputati, Sessione del 15 gennaio 1862, Atti, pp. 673-674

[21] Ivi

[22] La Forbice-Gazzetta Popolare di Sicilia del 5 gennaio 1862

[23] Enzo Ciconte, Borbonici, patrioti e criminali, l’altra storia del Risorgimento, Salerno, Roma, 2016, pp. 97-98

[24] Ivi, p. 98

[25] Camera dei Deputati, Sessione del 15 gennaio 1862, Atti, p. 674

[26] Il 21, 22 e 23 gennaio del 1861, presso il comune di Scurcola Marsicana, nelle vicinanze de L’Aquila, a fronte di una rivolta antipiemontese in cui caddero decine di uomini da entrambe le parti, i militari sabaudi fucilarono circa 90 individui. Tra questi, oltre a gruppi di lealisti borbonici ed irregolari, sembra ci fossero anche alcuni sacerdoti non responsabili delle insurrezioni.

[27]Il 30/01/1862 Quintini fu nominato Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia, Fonte Presidenza della Repubblica, Scheda di Pietro Paolo Quintini

[28] Camera dei Deputati, Sessione del 15 gennaio 1862, Atti, p. 675

[29] Ivi,

[30] Ivi, pp. 675-676

[31] Ivi


 

 

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