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Storia d’Italia. Approfondimenti

TOTALITARISMO ED EMERGENZA SOCIALE NEL SUD ITALIA DOPO L’UNITA’ (1861-1863)

Risvolti sociologici di una tragedia poco conosciuta e trascurata dalla storiografia


19/12/2017 - Marco Giuliani


(Roma)

Tra il 1861 e il 1863 nel Sud Italia si ebbero fenomeni di totalitarismo ed emergenza sociale caratterizzarti da insurrezioni, repressione, torture, uccisioni,stragi.

1.1.            Leggi Speciali per il Sud : verso una catastrofe annunciata

La prima “frattura” tra gli italiani e il Risorgimento viene provocata, sostanzialmente, dall’indifferenza mostrata dalla maggior parte del popolo verso quel processo di unificazione che non risolveva i gravissimi problemi legati alla povertà e al degrado sociale vissuti da milioni di cittadini. Ad Ottocento inoltrato, c’era quella fetta di territorio che non aveva beneficiato affatto dello sviluppo industriale e tecnologico avviato presso altri luoghi e altre regioni del nord, dove le classi elitarie sentirono la necessità di idealizzare e realizzare una svolta che riunisse sotto un’unica entità politica ed amministrativa la moltitudine di realtà locali dalle quali era costituito il paese. Al momento, un piatto di minestra, specie per le gentes del centro-sud, era di gran lunga più importante del progetto statutario e costituzionale elaborato da Camillo Benso di Cavour, padre della patria. Un progetto appoggiato – come sostennero a ragione Denis Mack Smith e Luigi Salvatorelli – esclusivamente dal liberalismo borghese con l’avallo delle grandi potenze europee e dal patriottismo “illuminato” di chi confidò sinceramente nella messa a punto di un nuovo status geopolitico che liberasse le popolazioni italiche dagli assolutismi e dalle vecchie dinastie patriarcali fondate sui feudalesimi di matrice medievale.

Intorno al 1860, presso aree come la Sicilia, la Calabria e la Basilicata le vie di collegamento e le infrastrutture erano concetti pressoché sconosciuti, ragion per cui non era pensabile poter investire – semmai un imprenditore italiano o straniero, chiunque fosse, avesse voluto – neanche uno scudo (la moneta franca di allora) per erigere un polo produttivo che potesse dar lavoro a qualche migliaio di operai. Condizionate da un analfabetismo dilagante (si pensi che il tasso percentuale degli analfabeti, nel Mezzogiorno, raggiungeva all’epoca il 90% e addirittura il 100% considerando la componente femminile)[1] il quale andava a colpire direttamente anche i quadri medi dell’apparato militare e del settore impiegatizio borbonici, le fasce sociali più modeste come i contadini vissero stenti che non avevano pari nel resto della penisola. Va da sé che la dissociazione della povera gente dalla paventata e sempre più concreta unificazione dell’Italia, era totale. Non avrebbe potuto essere altrimenti. In relazione a quelle condizioni di vita, caratterizzate dalla disperazione di decine di migliaia di famiglie che chiedevano solo di mangiare per sopravvivere, come era possibile l’accettazione morale, ideale e politica di un’entità costituzionale voluta da una minoranza di aristocratici, intellettuali raziocinanti e patrioti cosmopoliti?

Così, quel sopraffino quanto grandioso programma di aggregazione ideato da brillanti diplomatici, potentati nobiliari, qualche abile massone e realizzato sul campo dall’esercito, andò a cozzare contro la parte di paese reale che era all’oscuro dei significati legati a un simile rivolgimento geodetico. Eppure, la corona dei Borbone, soprattutto nella persona del vecchio sovrano Ferdinando II, aveva dimostrato di poter supplire alle carenze ataviche di una terra abituata da secoli a frammentazioni amministrative, indipendentismi ed occupazioni straniere di varia natura. Ma lo aveva fatto nella maniera sbagliata, dedicandosi a curare più la milizia e la corte di cui si circondava che non andare incontro ai bisogni delle classi più umili dei suoi sudditi. Se alcuni luoghi – vedi Napoli e le sue province – erano stati dotati di mezzi e servizi assolutamente moderni e più o meno in linea con i paesi europei più avanzati, altre realtà territoriali (su tutte la Calabria) sembravano invece abbandonate da Dio e a sé stesse. Se in Campania alcune infrastrutture, come le ferrovie regionali e il telegrafo, erano già abbondantemente operative da anni, presso il resto del meridione non c’erano neanche le strade sterrate in grado di collegare tra loro i centri abitati più importanti.[2] E se lungo la costiera amalfitana sorsero fonderie e cantieri navali così da dare pane a migliaia di manovali e metalmeccanici, la viabilità e la logistica siciliane erano in una situazione tale da far rabbrividire anche il più ostinato dei viaggiatori del tempo. Del resto, come raccontò un frastornato Luigi Settembrini, una volta ottenuta la cattedra di docente a Catanzaro, nel 1835 per raggiungere in landò il capoluogo calabrese da Napoli, impiegò qualcosa come nove giorni e anche qualcosa di più.[3]

Inevitabilmente, a prescindere dalla volontà o meno di confidare in un cambiamento, nel Mezzogiorno proprio non c’erano i presupposti per ipotizzare una qualsiasi forma di partecipazione attiva al processo risorgimentale, che pure aveva attecchito – anche se più sotto l’aspetto sociale e molto meno sotto quello politico – nel Piemonte sabaudo, nel Lombardo-Veneto, in Emilia, nelle Romagne, in Toscana e in alcune fasce popolari presenti nel Regno della Chiesa. Così, laddove le popolazioni più disagiate e meno consapevoli non percepirono i cambiamenti in atto o mostrarono di fronte a questi una sorta di rifiuto (sia per fedeltà alla corona borbonica sia perché riluttanti ad un’occupazione che era a tutti gli effetti straniera e unilaterale), fu usato il bastone e non una campagna politica supportata da riforme mirate a sensibilizzare i cittadini circa la necessità di un mutamento concettualmente migliorativo e concretamente modernizzatore.

Al sud, dove si trovarono di fronte un esercito di piccole dimensioni (quello borbonico) e un altro almeno 4 volte più numeroso e dotato di tecniche più avanzate (quello sabaudo), lo scontro si mostrò così brutale da determinare un allarme sociale ed un’emergenza umanitaria senza precedenti. Una volta occupato il Mezzogiorno e annunciata ufficialmente la conclusione della prima fase del processo unitario (domenica 17 marzo 1861), la repressione degli alti comandi militari savoiardi nei confronti dei lealisti, dei dissidenti e dei fuorilegge che rifiutavano le leggi del nuovo Stato, fu anche peggiore della stessa guerra. Alle Commissioni d’Inchiesta istituite dal governo testé insediato per far luce sugli aspetti più drammatici che stavano riducendo il Mezzogiorno ad una “polveriera”, dove la ribellione contro gli ordini costituiti stava coinvolgendo sempre più larghi strati della popolazione, si aggiunsero dei censimenti per sondare le reazioni provocate dalla estromissione geopolitica dei Borboni.

Su richiesta del Parlamento, vennero redatte periodiche relazioni da trasmettere all’esecutivo sull’evolversi della situazione. Alcune di queste, ricolme di apprezzamenti a sfondo razziale («…I meridionali? Vaiolosi, contadiname, immondizia di plebe, ecc.…», D’Azeglio e Bixio docet), stavano mostrando l’altro lato della colonizzazione piemontese : non si trattava più di una semplice annessione, bensì della aperta manifestazione di un disprezzo antropologico verso concittadini considerati non alla pari, ma su un piano di inferiorità psico-evolutiva. E soprattutto, era la dimostrazione di una concezione umana e sociologica avversa alla cultura, alla storia e alle usanze di un popolo eterogeneo, e certamente, per vari motivi, più arretrato. Se – come hanno sostenuto emeriti studiosi – «i concetti di forma e contenuto condizionano il pensiero, il quale è riconducibile alla struttura sociale e alla realtà di appartenenza in quanto interazione tra gli individui che la compongono» (Georg Simmel), è altrettanto logico dedurre che il fenomeno depressivo delle regioni italiane meridionali sia stato prodotto dall’ordinamento istituzionale fondato sul dominio autocratico dei governi assolutisti e tirannici alternatisi nel tempo. L’accettazione e l’inglobamento all’interno di un nuovo soggetto giuridico e statutario di una società e di cittadini diversi per etnia ed erudizione, non potevano quindi realizzarsi attraverso una dittatura militare senza provocare odio e risentimento.

Nell’agosto del 1863 il governo Minghetti incaricò il giurista Giuseppe Pica di ideare e redigere una legge eccezionale che fosse in grado di prevenire le rivolte e arginasse adeguatamente il crimine e l’illegalità diffusa di cui era oggetto ormai tutto il Sud Italia. Un mandato che non fu disatteso, anzi. La Legge Pica fu approvata e resa esecutiva il giorno di Ferragosto 1863. A seguito della sua applicazione, vennero operate una serie di “purghe” nei confronti degli ex apparati politici borbonici, negata la libertà di stampa e sciolte decine di consigli comunali sospettati di tramare contro il governo piemontese. Ma il peggio del testo doveva ancora venire: tutte le province meridionali (eccetto Napoli, Terra d’Otranto, Bari e Reggio Calabria) furono dichiarate in stato di brigantaggio e venne lasciata mano libera all’esercito di avvalersi della corte marziale e procedere alla fucilazione seduta stante dietro l’accusa di banda armata. E per finire in bellezza, i tribunali civili vennero aboliti e fu decretata la carcerazione preventiva per tutti i sospettati di cospirazione e fiancheggiamento della reazione. Era la fine delle garanzie costituzionali su cui il nuovo Stato di ispirazione liberale – l’Italia – avrebbe dovuto fondare le sue stesse basi e la sua ragione di essere.

Risorgimento, dunque, non significò solamente fasto patriottico e mitologia epica (come la storiografia convenzionale ha spesso raccontato), bensì anche dolore e sofferenza. Ne pagarono le conseguenze migliaia di giovani soldati, ragazzi appena adolescenti (giustiziati perché sospettati di partecipare ad attività cospirative contro la corona e il governo piemontesi) e persino alcuni bambini, trasformatisi in vittime incolpevoli di un gioco al massacro rivelatosi molto più grande di loro. E se durante quei drammatici giorni l’esercito sabaudo – tramite alcuni alti ufficiali senza scrupoli – arrivò a punire indistintamente i poveri contadini e i criminali ricercati, vuol dire che qualcosa, a livello di sistema, si era “spezzato”, tanto da determinare tutta una serie di interrogazioni parlamentari per indagare sui metodi repressivi adottati al sud dallo Stato Maggiore unitario.[4]

Le leggi speciali vennero accompagnate anche da nuove disposizioni che contribuirono a trasformare quella grave instabilità politica in una crisi di proporzioni epocali. Di fatto, fu introdotta la leva obbligatoria e imposta una tassazione sui beni di prima necessità (come il grano macinato) alla quale i ceti più umili non erano in grado di rispondere. Prima del 1860, i contadini, che disponevano di piccoli appezzamenti di terreno, pur sfruttati come bestie da soma, avevano almeno la possibilità di portare e casa un tozzo di pane per sé e per i propri cari. Ma dopo l’arrivo dell’esercito dei Savoia e dei garibaldini, non ricevettero un trattamento migliore. Al contrario. Lo Stato pensò bene di requisire anche quei pochi ettari di terra, che una volta messi all’asta, si rivelarono fuori dalle possibilità economiche dei poveracci e finirono nelle mani dei grandi latifondisti e dei potentati nobiliari scesi a patti con le nuove istituzioni. Scientifico. E il malessere sociale, così come la paura di fronte alla militarizzazione del territorio, si diffusero in modo più marcato.

Benedetto Croce, anni dopo, sostenne che il Risorgimento rappresentò una «luminosa tappa del progresso della libertà come naturale conseguenza della Rivoluzione Francese diffusasi in tutta Europa». Allo stesso tempo, Antonio Gramsci – assertore di una rivisitazione critica del processo unitario – pur evidenziandone gli aspetti propositivi, fu dell’idea che «l’esclusione delle masse proletarie e contadine meridionali determinò l’avvento del conservatorismo ai fini del mantenimento del potere a scopi individualistici di una minoranza elitaria egemonico-borghese». Tesi di genesi hegeliana che l’intellettuale sardo avrebbe nuovamente espresso in riferimento alla delicata situazione italiana degli anni pre-bellici 1914-15.[5] Potremmo pensare che entrambi avevano ragione: ma come conciliare, spiritualmente e politicamente, due poli così differenti per percorso storico e retaggio interculturale rispetto ai quali l’incapacità di instaurare un dialogo costruttivo da una parte, e il rifiuto di recepire la transizione dei poteri da una dinastia ad uno Stato costituzionale dall’altra, determinò uno scontro tanto sanguinoso?

Il concetto di “Nazione Italia” una e indivisibile, se analizzato dalla prospettiva storica ed empirica, non può certo essere biasimato circa i suoi principi romantici e risorgimentali poiché beni comuni supremi, ma può essere riesaminato riguardo i suoi esiti sociologici e politici. Se, come i fatti testimoniano, le condizioni di vita del paese reale peggiorarono dopo l’istituzione dello Stato unitario, significa che in parte erano stati disattesi i canoni di libertà e uguaglianza di cui si fece portatrice l’età napoleonica (pur con tutti i suoi risvolti violenti), e in parte non vennero offerte alternative valide all’adozione di leggi eccezionali e totalitarie. Il fatto che alcune delle maggiori correnti di pensiero italiane ottocentesche – neoguelfismo, mazzinianesimo, liberalismo – non abbiano trovato, se non parzialmente, una efficace forma di applicazione, è stato determinato dall’incapacità (o dall’impossibilità) di cogliere diversi aspetti fondamentali per il buon fine del processo risorgimentale: informazione, equità sociale, riforme e modernizzazione.

C’era un altro elemento, e non meno importante : il credo religioso. Nella quasi totalità delle zone rurali (specie nei territori del Mezzogiorno) la Chiesa cattolica era la sola presenza organizzata e l’unico punto di riferimento formativo ed educativo, soprattutto per i ragazzi. Nella stessa scuola pubblica, sino al momento dell’Unità, erano stati i sacerdoti a fornire almeno la metà dell’intero corpo insegnante, cosa che creò difficoltà anche riguardo al reperimento di nuovi docenti idonei a svolgere le proprie mansioni mediante un indirizzo pedagogico laico. Il divieto di insegnamento del catechismo, perpetrato tramite la sua esclusione dalle materie indicate dal nuovo Ministero dell’Istruzione del Regno d’Italia, lasciò un velo di incertezza e risentimento nell’opinione pubblica legata alla Chiesa. Questo status rischiò di peggiorare le già gravi tensioni sociali accumulate dopo l’occupazione delle province pontificie. La polemica coinvolse anche il mondo intellettuale del tempo, pronto a rivendicare da un lato la necessità di mantenere saldi i principi della dottrina cattolica come antico serbatoio di educazione virtuosa, e dall’altro a dare spazio alle libertà politiche, culturali e di coscienza divulgate dalla filosofia illuministica, indiscussa paladina della scienza e della realtà immutabile.[6]

2.1. Dopo l’occupazione piemontese : diffusione del crimine e del brigantaggio

La contrapposizione violenta di una civiltà per certi versi diametralmente opposta per tradizione, concezioni e ideologie (laicità dello Stato, libera proprietà, concorrenza dei mercati) ad un’altra permeata per secoli da principi ecclesiali rigorosissimi e da forme di società feudali, non fece altro che provocare livore e ritorsione. D’altronde, il Syllabus pubblicato da Pio IX nel dicembre del 1864 non aveva fatto altro che esprimere, tra i vari concetti, il principio secondo cui la separazione di competenze tra Stato e Chiesa avrebbe costituito un’anomalia, confermando inoltre una certa diffidenza verso il tipo di cultura liberale che si stava diffondendo presso la maggior parte dei paesi d’Europa.[7] Ma, per quanto discutibili e superate le nozioni espresse dal pontefice, i cosiddetti “civilizzatori” giunti dal nord non si accontentarono di occupare il meridione, ma pensarono di escludere qualsiasi forma di dialogo optando per ulteriori azioni repressive. E lo fecero mediante una lunga serie di arresti e di esecuzioni sommarie preceduta da proclami di natura più o meno xenofoba. Dall’altra parte – sino a che si rese possibile – la reazione dei meridionali ricalcitranti all’occupazione militare del deposto regno borbonico fu altrettanto violenta, e fu messa in atto con qualsiasi mezzo a disposizione: diserzione, lealismo, crimine.

Il fenomeno del banditismo e del brigantaggio, diffusosi in modo crescente a seguito dell’Unità, era un elemento già insito nella società e nel sistema sociale del profondo sud della penisola. E l’illegalità, sempre più diffusa, era una piaga con cui i sovrani borbonici avevano convissuto senza impegnarsi troppo per arginarla. Di fatto, con l’occupazione dell’esercito piemontese, tale fenomeno si radicalizzò concentrando le sue attività proprio contro gli occupanti e tutti coloro – civili, politici e nuovi amministratori – che simpatizzavano per la causa unitaria. Il sostantivo “brigantaggio” iniziò ad essere utilizzato in maniera sempre più insistente e stereotipata dalla pubblicistica di governo, dalla classe dirigente e dagli alti comandi militari dei Savoia, i quali, affibbiando tale epiteto a chiunque facesse parte della reazione anche qualora fosse solo un dissidente politico o un sacerdote cattolico, ne fecero un cavallo di battaglia al fine di inculcarlo come modello cognitivo nell’opinione pubblica settentrionale per aizzarla contro i “cafoni” (altro vezzeggiativo usato contro i borboni) autoctoni del Mezzogiorno.

Menzionando le teorie di Max Weber, riprese successivamente da Habermas, altro non si trattò che dell’applicazione di una dimensione razionale rispetto allo scopo e ai fini del raggiungimento di un determinato obiettivo : strumentalizzare la difficile condizione sociale del nemico e le forme dei suoi comportamenti per motivi esclusivamente autoreferenziali. La congettura secondo cui la popolazione del Sud Italia fosse costituita da una pletora di barbari arretrati e da volgari criminali (possibile che da Gaeta ad Agrigento fossero tutti furfanti?) fu utilizzata come luogo comune nell’intento di suscitare odio nei confronti degli stessi, e la cosa in parte riuscì. I gesti di crudeltà reciproci che provocò quella contrapposizione furono indicibili. Così, se i militari sabaudi usavano fucilare i briganti e i fuorilegge locali per poi fotografarli ed esporli nelle pubbliche piazze, i loro nemici, una volta teso l’agguato ai soldati regolari, li uccidevano e ne recidevano gli arti a scopo esclusivamente dispregiativo.

Dopo il 1861, tutte le regioni del sud erano percorse da bande di irregolari, lealisti, sbandati e contadini incattiviti dalla fame che invasero e saccheggiarono decine di comuni passati sotto l’amministrazione unitaria. Dopo aver massacrato i reggenti delle giunte locali e i notabili legati alla nuova classe politica filo-piemontese, erano soliti occupare i centri abitati per giorni, scatenando le rappresaglie dell’esercito sardo e la conseguente distruzione di interi paesi. Rispetto ad alcune modalità, quella guerra – pur ambientata in epoca diversa – ricorda quella combattuta nella ex Jugoslavia frammentata sino ai primi anni del Duemila, dove lo scontro tra etnie diverse per storia, culto religioso e retaggio sociale, si ridusse ad un “bellum omnium contra omnes” che rappresentò la sconfitta sia delle istituzioni che delle politiche nazionaliste e secessioniste.

In Italia, le vittime cadute sul campo o giustiziate, dopo il 1860, furono tra le 15.000 e le 20.000 unità compresi entrambi i fronti. Cifre ovviamente parziali, ma che all’epoca l’esercito italiano provò a stimare : il Ministero della Guerra, il quale diffuse dati dal suo punto di vista più attendibili di quelli trasmessi dalle altre fonti, attestò che dal settembre 1860 all’agosto 1861 i sovversivi e i fuorilegge uccisi furono 8694.[8] Il cronista francese De Villafranche, in qualità di inviato della stampa estera, producendo una statistica riferita al solo anno 1861 e pubblicata nel 1877, parlò di 10.000 caduti, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 11.000 feriti, 6 paesi bruciati, 918 case arse o distrutte, 1.428 comuni insorti contro i piemontesi, 12 chiese predate o sfregiate e 13.700 arresti.[9] Cifre da pulizia etnica. E a queste vanno sommati i dispersi. In merito all’esercito dei Savoia, gli alti comandi militari non fornirono dati complessivi, ma si limitarono a riportare alcune stime solo a seguito di singoli scontri militari. Tuttavia, durante la transizione dei poteri, anche sul fronte opposto i caduti furono non meno di 1000 – 1200, ai quali vanno aggiunti gli altri 500 circa appartenuti ai Mille (e cento) in camicia rossa guidati da Giuseppe Garibaldi durante la risalita dal sud della penisola.[10]

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Roma, Piazza Farnese, 1861 : una rara immagine del reclutamento di volontari e fuorilegge da parte del comando militare borbonico in esilio (Ritratto dal vero, Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma)

 

3.1. L’alba di Pontelandolfo e Casalduni

Se nel corso della travagliata epopea del Risorgimento alcuni scontri tra esercito del Regno di Sardegna e gruppi di insorti scossero le coscienze dell’opinione pubblica per via della loro crudeltà ed efferatezza, uno di questi fu sicuramente legato alla vicenda accaduta il 14 agosto 1861 presso i comuni di Pontelandolfo e Casalduni, province di Benevento. Durante la guerra senza esclusione di colpi tra italiani andata avanti per almeno un decennio, in quell’episodio può essere racchiuso in maniera esemplificativa quanto emblematica il grado di tensione raggiunto tra gli occupanti dei territori centro-meridionali giunti dal nord e la popolazione di quei luoghi.

Ma analizziamo i fatti. Mentre la propaganda pubblicistica filo-unitaria si impegnava – mediante petizioni, interrogazioni parlamentari e donazioni pubbliche di vario genere – ad elargire vitalizi ed encomi onorifici per i generali spediti al sud che si stavano rendendo protagonisti di una serie impressionante di fucilazioni ed esecuzioni sommarie, sul conto del loro operato continuarono a trapelare notizie agghiaccianti. In particolare, nel già menzionato 14 agosto 1861, a seguito di un agguato compiuto nel beneventano da un gruppo di insorti ai danni di un reparto militare italiano in cui persero la vita circa 40 soldati (di cui alcuni giovanissimi), come ritorsione, il comandante in capo dell’esercito sardo nelle province del sud, generale Enrico Cialdini, impartì l’ordine di massacrare indistintamente gli abitanti di Pontelandolfo e Casalduni e dare fuoco ai due paesi. Si trattò di un vero e proprio eccidio (benché i libri parrocchiali del luogo e le pochissime testimonianze scritte avessero registrato pochi caduti, le vittime furono almeno tra le 400 e le 1.000 unità, di cui molte bruciate vive).[11] Su questo avvenimento, uno dei più cruenti e tragici della guerra risorgimentale combattuta tra militari italiani e ribelli, tornò alcune settimane dopo l’onorevole Giuseppe Ferrari, il quale, in relazione al viaggio intrapreso al sud dalla commissione parlamentare incaricata di informare il governo sulla situazione del Mezzogiorno, riferì di «aver visto [in Campania] 12 villaggi incendiati, le rovine di Pontelandolfo, città di cinquemila anime e di Casalduni, città di settemila…a Pontelandolfo, trenta infelici donne che si erano rifugiate a’ piè d’una croce, furono senza pietà trucidate».[12]

In realtà, da entrambe le parti, la violenza esercitata non si limitò all’uccisione del nemico di turno della parte avversa, bensì a successivi gesti che diedero luogo a sevizie inaudite e reiterate. Così, se gli insorti usarono mutilare i corpi dei poveri soldati abbattuti, i militari sopraggiunti a fare giustizia, dopo aver trucidato colpevoli e presunti tali, violentarono e maltrattarono per ore decine di donne dei 2 villaggi.

Su quelle stragi occorre fare alcune osservazioni. Innanzitutto, come abbiamo constatato, Risorgimento significò non solo progetto politico e patriottismo, ma anche sopruso e coercizione in quanto elementi regolatori del conflitto militare, sociale ed istituzionale. Potremmo definire suddetti elementi come modelli funzionali ai fini del controllo del territorio e del potere di cooptazione assunto dall’esercito regolare per imporre la sua sovranità presso l’intera penisola. In tal senso, è opportuno richiamare alcuni concetti espressi in passato da Max Weber in Economia e Società sulla violenza istituzionalizzata insita nelle società occidentali contemporanee : non sono bastati secoli, malgrado i concetti di Stato e di legalità siano andati diffondendosi progressivamente, per fare in modo che i contrasti di natura politica, giuridica e amministrativa venissero mediati da avanzate forme di democrazia e diplomazia. E’ Intervenuta quindi la dinamica gerarchica del conflitto, che lo stesso Weber definisce “verticale”: laddove c’è un comandante (il Regno d’Italia nella persona del sovrano) che impartisce gli ordini e i suoi sottoposti lo eseguono (i capi delle forze armate e l’esercito), si forma un gruppo di potere collettivo il quale agisce contro un'altra comunità, costituita dalla reazione e dai fuorilegge di cui si circonda (in questo caso i lealisti borbonici e le migliaia di delinquenti che li affiancarono).

Oggi sappiamo che la “primavera dei popoli” dell’Ottocento determinò entusiasmi, ma allo stesso tempo anche una stagione di malcontento e conflitti epocali. E quando il trentenne Cavour abbandonò i suoi progetti da uomo di viaggi e d’affari per dare avvio ad una brillante carriera politica e diplomatica, non si aspettò certo che le conflittualità – non solo quelle interregionali – fossero così prolungate e complesse da affrontare.[13] L’aspetto sociologico della terribile guerra combattuta in Italia tra il 1860 e il 1870 sussiste in relazione ai cambiamenti della società e ai riflessi che questi hanno avuto nella evoluzione del conflitto e nel modo in cui è stato condotto. E se in virtù dei contrasti più duri del passato, «la guerra altro non è che la continuazione della politica con altri mezzi» (Marx), anche nel caso del Risorgimento lo scontro fratricida tra piemontesi e meridionali si perpetrò a causa di disaccordi di natura geopolitica. Persino un intellettuale della statura di Engels, nei suoi scritti, esaltò la portata dell’impresa italiana, le gesta di Garibaldi e il progetto riuscito di unificare la nazione, d’accordo. Ma forse non conosceva i dettagli. E certamente, sembra abbastanza improbabile che lo stesso Garibaldi – guida carismatica e icona simbolica dell’Unità – fosse d’accordo nell’uccidere a sangue freddo contadini e poveracci a cui del processo risorgimentale non fregava nulla.

Esplodeva dunque con tutta la sua veemenza e drammaticità un fenomeno dalle radici antiche : la cosiddetta “questione meridionale”, locuzione divenuta luogo comune sino ai nostri giorni, laddove l’incapacità di porre un controllo politico su una terra povera e afflitta divenne un problema collettivo. La eterogenea società italiana ottocentesca, una volta realizzata l’Unità, mostrò tutte le sue fragilità e le sue differenze; quelle relative ad un tessuto sociale costituito da una borghesia pressoché dominante e affine all’influente aristocrazia, le quali risultavano in netta antitesi con una comunità contadina e popolare che aveva un grado di sviluppo nettamente inferiore rispetto a quello dei coevi paesi moderni. E se l’idea nazionale prendeva slancio dall’esempio delle “illuminate” forme costituzionali europee, c’era una parte di paese rimasta assolutamente estranea all’impresa capitalistica di alcune regioni settentrionali come la Lombardia, il Piemonte e l’Emilia. Sicché, la manifesta incapacità degli schieramenti politici – la Destra conservatrice e la Sinistra riformista – di pianificare un progetto innovativo fondato su sincere alleanze sociali, rese gli insorti e le migliaia di fuorilegge che svernavano al centro-sud sullo stesso piano degli eroi popolari. Quindi, per risolvere le controversie politiche, venne dato spazio esclusivamente al piombo dei fucili e alle palle dei cannoni.

Una tragedia – quella delle guerre risorgimentali – i cui strascichi aleggiarono a lungo e si sarebbe tramandata, sotto varie forme, sino a questo Terzo Millennio. Un secolo e mezzo dopo quei fatti, il 14 agosto 2011, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, commemorò la strage di Pontelandolfo e Casalduni porgendo agli abitanti del luogo le scuse a nome dell’Italia.

2.1. La vicenda del sordomuto Antonio Cappello, renitente alla leva

Tendenzialmente, alcuni metodi usati, per così dire, dai medici militari delegati dagli alti comandi piemontesi di svolgere accertamenti e fare chiarezza su una serie di soggetti renitenti alla leva obbligatoria per motivi di salute, prevaricarono i semplici esami clinici per dare spazio a pratiche più o meno “sperimentali”. Il tutto a danno dei pazienti che marcavano visita e manifestavano sintomi di presunte malattie tali da essere riformati. E come si sa, la scienza medica di un secolo e mezzo fa non era certo evoluta come quella attuale. Tutt’altro.

Così, il sordomuto Antonio Cappello, classe 1840, nullatenente, residente a Palermo e affetto da algidismo (da algidus, sindrome così denominata all’epoca, ovvero forma di ipotermia caratterizzata da attacchi di febbri alte e collassi cardio-circolatori), chiamato alle armi, dovette confrontarsi con gli esperti dell’esercito sardo per provare che fosse realmente inabile e non in grado di sentire e parlare.[14] Accusato di renitenza e rinchiuso nella fortezza siciliana di Castellammare del Golfo dal 23 settembre del 1863, dopo pochi giorni fu trasferito presso il presidio militare di Petralia, località di Palermo, per controlli.[15] Solo la disperazione della madre – una vedova a servizio da una famiglia borghese del tempo – supportata dal suo padrone e datore di lavoro, esortò un legale a denunciare il fatto che il ragazzo, da diverse settimane, fosse prigioniero e tenuto sotto sorveglianza presso l’ospedale militare palermitano.

Presa a cuore la vicenda della donna e fatte le dovute indagini, l’avvocato diede avvio alle pratiche per dare modo al malato tenuto sotto chiave di ricevere visite, cosa che sino al momento gli era stata impedita. Avuto accesso alla cella, quella che si presentò agli occhi del legale fu una bruttissima scena: il giovane presentava decine di piaghe e sevizie lungo tutto il corpo, dalle braccia alla schiena, dai fianchi ai glutei, di cui alcune ancora sanguinanti. Sembravano bruciature. Ne aveva circa centocinquanta. Partì immediatamente una denuncia nei confronti dello staff sanitario che aveva in cura Cappello. La battaglia legale che seguì tra gli avvocati del poveraccio e il comando militare di Palermo durò poco più di 6 mesi, trascinandosi tra accuse, perizie, controperizie, denunce e controdenunce. La cosa finì sui giornali, e il 4 dicembre 1863 approdò in Parlamento, dove per l’occasione fu ridiscussa la legge che dall’agosto precedente rendeva la leva obbligatoria e puniva severamente disertori e renitenti.

Rispetto alle tesi sostenute dai medici responsabili del presidio militare – ovvero che il ragazzo era stato sottoposto ad accertamenti clinici “al tatto” per capire se stava recitando o era veramente sordomuto – e ai periti di parte, la cosa certa e provata fu che il giovane aveva effettivamente subito sevizie di varia natura. “Bruciature da tizzi incandescenti o sigaretta o simili”: questa fu la diagnosi iniziale dell’equipe dei medici legali designati dagli avvocati di Cappello. Giuseppe Govone, già responsabile delle forze armate di stanza a Palermo e poi deputato, fu tra coloro i quali fecero visita al sordo-muto per sincerarsi delle sue condizioni fisiche. Visto il recluso, lo stesso Govone dichiarava per iscritto “di aver vedute e contate quelle cicatrici in poco meno di trenta macchiette di acqua scaldata”.

Era come un cane che si mordeva la coda. Da una parte l’accusa tacciava i medici militari di lesioni e tortura reiterata, dall’altra gli alti comandi dell’esercito, per mezzo dei loro avvocati, insistevano nel sostenere che erano state compiute delle “prove cliniche” con materiale caustico per constatare l’effettivo sordomutismo del ventitreenne e curarne – eventualmente – i sintomi. Ovviamente, lo facevano difendendo ad oltranza il buon nome della divisa e del corpo militare TUTTO. I magistrati, nella persona del giudice istruttore Magarotti, richiesero alla direzione ospedaliera di Petralia cartelle e referti di tutti coloro i quali, unitamente al Cappello, erano ricoverati nella stessa struttura in quanto affetti da patologia simile a quella dello sfortunato soggetto in stato di prigionia da settimane. Il 22 novembre 1863 seguì la relazione scritta del direttore medico Secondo Fogliarini:[16]

[…] “Stato nominativo degl’individui stati inviati in osservazione in questo Spedale durante il corrente anno [1863] per sordità e mutolezza, munito eziandio di tutte quelle indicazioni chieste col citato foglio”.

Inscritto – Falco Giuseppe – sordità

Ciancimino Calogero – Idem

Pumiglia Michele – Idem

Filicicchia Mariano – Idem Mutolezza

Barcellona Giuseppe – Sordità

Tarantino Rosario – Idem

Renitente – Nuccio Antonio – Idem

Gioja Matteo – Idem

Soldato – Polaja Antonio – Idem Mutolezza

E Antonio Cappello? Semplice : omissis, come d’altra parte il registro di carico e scarico dei medicinali usati al reparto nei giorni immediatamente successivi – altre carte richieste dagli inquirenti – a quello in cui Cappello entrò in ospedale e fu sottoposto, in quel lasso di tempo, al “trattamento” contestato. Per i medici, come da cartella clinica, era tutto normale. Il ragazzo palermitano con il corpo ricoperto da ustioni la cui origine era ancora da appurare, veniva considerato un paziente come gli altri. Gli alti comandi militari piemontesi, come fu logico attendersi, si chiusero a riccio, inibendo qualsiasi notizia alla stampa o la diffusione di dettagli che potessero inficiare il prestigio e l’onore dell’esercito della corona sabauda. Cosa poteva un semplice avvocato di fronte all’atteggiamento voluto dai “piani alti” di uno Stato che stava operando un’occupazione militare con tanto di corte marziale, lo stato di guerra e la galera preventiva per i dissidenti?

Meraviglia il fatto che la difesa degli accusati si sia appellata alla facoltà dei medici, compresa in un regolamento approvato con Decreto Reale del 31 marzo 1855 riguardante la sospetta simulazione di malattia, di sottoporre i soggetti renitenti ad alcuni accertamenti “clinici” mediante somministrazione di sostanze sulla superficie del corpo. Metodi usati allora – come affermò la Corte – sugli epilettici. Si provi a pensare a cosa abbia avvertito Antonio Cappello a seguito delle ripetute e già menzionate “applicazioni al tatto” con punte incandescenti operate dai medici : dalla sua testimonianza, ricavata tramite l’aiuto di un interprete, si dedusse che il giovane avesse emesso dei suoni gutturali misti ad urla terribili. La difesa, di fronte alle accuse, tentò di opporre la dichiarazione di uno degli infermieri militari di stanza presso il presidio medico palermitano durante la detenzione dei malati, secondo il quale, sembrò che Cappello in un’occasione avesse pronunciato la locuzione “bedda matri” pensando di non essere udito.[17]

La vicenda, dopo i primi articoli apparsi su alcuni quotidiani, approdò alla Camera, dove il 4 dicembre 1863 ebbe luogo una discussione sull’episodio. Discussione che sul singolo caso fu abbastanza evanescente, ma in un secondo tempo determinò la riesamina della Legge Pica e mise in serio dubbio i comportamenti usati dall’esercito nei confronti della popolazione meridionale in conditio di Legge Marziale. Così si rivolse all’aula D’Ondes Reggio: [18]

 

“[A settembre 1863] …Si arresta a Palermo un sordomuto come renitente alla leva; la povera madre chiedeva di vederlo, le era proibito; ma l'amore di madre, e di madre siciliana, sa vincere ogni barriera”.

Una voce: «Ohi ohi». Un’altra voce in aula: «Le altre mandano i figli all’armata!»

D’Ondes : “…Il figlio si getta in braccio alla madre, mostrando le piaghe fatte con ferro infuocato (sussurro); la madre intinge il suo fazzoletto nel sangue del figlio, e gli dà un pane, perché egli era anco affamato. La nuova dell'orrendo martirio si sparge per tutta la città, vi fu chi la rese pubblica nei giornali; allora rispettabili deputati e senatori, appunto per verificare il fatto e per calmare la concitata popolazione, chiesero al generale Govone di andare a vedere quell'infelice. Or si dice, non posso più nulla asseverare di certo, che andò il sostituto procuratore del Re con un interprete, e verificò che era un sordo-muto; Si dice che si fece una perizia, e che da questa perizia risultò che aveva avuto delle sevizie, e che non era punto vero che avesse per una malattia bisogno di questa sorta di cura, di 150 rivulsivi superficiali volanti, come ormai si è espresso il medico maggiore dell'ospedale militare, ormai in Sicilia sono famosi presso il popolo i rivulsivi superficiali volanti. Il medico medesimo in una sua relazione stampata asseriva tra le altre cose che la prima perizia affermava che non si erano usate sevizie, ma di rimedi a malattia grave, ma i periti subitosi sono affrettati a smentirlo […].

«Nel numero 247 del Giornale di Sicilia colla data del 6 novembre alla categoria Notizie interne si legge una lettera dell'egregio signor Restelli medico divisionale di questo spedale militare all'indirizzo del comandante militare della città e circondario di Palermo,nella quale si dà conto di un affare che riguarda untale col nome di Antonio Cappello renitente della leva del 1840. «Fra quanto in essa si assevera sono le seguenti parole: Non si sa da chi fu sporta querela al signor procuratore del Re per sevizie che si osavano sugli ammalati nell'ospedale ed in ispecie sul renitente arrestato Antonio Cappello. Il distinto integerrimo magistrato faceva domandare in ufficio il Cappello e lo faceva visitare da due egregi periti medici del paese, i quali, stabilito che non si trattava di sevizie, ma di applicazione di sistema di cura nei casi difficili domandati dalla scienza. Nella querela sporta al signor procuratore si parlava anche di ferita al capo ; sono tutte falsità, prette invenzioni, i periti stessi esclusero il fatto» […] .

Ma di più, o signori, nella relazione citata dal signor Restelli sta scritto che «esclusa la sordità del Capello,la mutolezza n'era alquanto dubbiosa». Ora il giorno 24 novembre, per ordine del prefetto, ed a premura dell'autorità giudiziaria, quegli è stato tradotto nello ospedale dei sordo-muti di Palermo. E questo fatto atroce, e quasi incredibile, è dell'evo medio più tenebroso. L'inchiesta parlamentare dovrà chiarirlo; v'ha un cumulo di circostanze che pur troppo indica la sua realtà; il modo stesso come pria si seppe,e poi e più lo stesso modo come il medico maggiore difende, una improvvisa malattia di tanta algida natura che richiede a tanto numero l'applicazione del rimedio ferro rovente!”

Durante il processo, distribuito in più fasi, venne stabilito che : alcune perizie calligrafiche accertarono l’avvenuta manomissione (nonché correzione) degli scritti nella cartella medica di Cappello; dell’avvenuto tentativo – mediante ferro rovente – di appurare se il querelante era effettivamente sordomuto o reso temporaneamente tale mediante la volontaria ingestione di “stranomio”; dell’avvenuta applicazione di pomate o simili (denominate “moxa”) al fine di accertare suddetto sordomutismo; che il querelante, all’atto della somministrazione dei vari metodi al tatto (punta rovente, liquidi caustici), emetteva grida e versi monosillabi lamentando dolore ma senza per questo convincere gli esperti sul suo effettivo sordomutismo;

Tempo dopo, scriveva nelle sue memorie Antonio Morvillo, uno dei legali di Antonio Cappello:

“Affidare alla stampa tutti gli atti che si contengono nel processo per la tortura del sordo-mutolo Cappello, è opera non che importante, utile e opportuna […]. Fu singolare dopo la tortura del Cappello che due sordo-muti coscritti, i quali, per mandato del Consiglio di leva, dovevano andare in osservazione in un ospedale militare, scelsero quello di Genova dichiarando che in quello di Palermo temevano la pruova [sic] del fuoco”.[19]

Dopo aver patito sofferenze psico-fisiche inenarrabili, il 31 dicembre 1863 Antonio Cappello fu scagionato dal reato di renitenza alla leva e riformato. Il Tribunale Militare ne dispose il ricovero presso un centro specializzato per sordomuti, dal quale dopo pochi giorni fu dimesso per essere restituito alle cure della madre. Ma soprattutto, alla libertà.

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Ritratto di Antonio Cappello con i segni delle ustioni praticate ai suoi danni presso il presidio militare di Petralia (Immagine tratta da Antonio Morvillo, Storia e processo della tortura del sordo-muto Antonio Cappello)



[1]Rosario Villari, Storia Contemporanea, Bari, Laterza, 1984, p. 241

[2] Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud, Milano, Mondadori, 2015, pp. 40-41

[3] Ivi, p. 42

[4]AA.VV., La convenzione del 15 settembre e l’enciclica dell’8 dicembre per Monsignor Vescovo d’Orleans dell’Accademia Francese, Firenze, Squilloni, 1865, p. 23

[5] Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Roma, Laterza, 1966, pp. 123-124

[6] Benedetto Croce, Storia d’Europa del secolo decimonono, Milano, Adelphi, 1999, pp. 33-34-35-444-445. Lo scrittore espresse più volte il concetto del rapporto tra etica e politica come dimensione tematica centrale della storia. Allo stesso modo, le conflittuali relazioni tra Stato e Chiesa sarebbero anticamente sorte dall’impossibilità – a suo parere – di far coesistere entrambi i soggetti in un sistema di reciproca libertà che definisce metaforicamente “storico-religiosa”.

[7] Ermanno Genre, L’insegnamento della religione in Cristiani d’Italia, Roma, Treccani, 2011, pp. 6-7

[8] Massimo Lunardelli, Guardie e ladri, Torino, Blu, 2011, p.22

[9] Carlo Alianello, La conquista del Sud, RSM, Il Cerchio, 2010, p. 91

[10]A.A.V.V., Uno per uno nomi e cognomi dei Mille che partirono con Garibaldi per la Sicilia, in 150° dell’Unità d’Italia, Patria Indipendente, 10 aprile 2011, Anno LVIII, pp. 1-2

[11] Marco Giuliani, L’Unità d’Italia e la repressione del banditismo. Dalla guerra contro le nuove istituzioni ai processi sommari legalizzati. Le spedizioni di Cialdini (1861-1863), estratto da Il Domani d’Italia del 15 gennaio 2017, p. 1

[12]AA.VV., La convenzione del 15 settembre e l’enciclica dell’8 dicembre per Monsignor Vescovo d’Orleans dell’Accademia Francese, Firenze, Squilloni, 1865, p. 23

 

[13] AA.VV., La Storia. Risorgimento e rivoluzioni nazionali, Novara, De Agostini, 2004, pp. 231-232

[14]Antonio Morvillo, Storia e processo della tortura del sordo-muto Antonio Cappello, Palermo, Lorsnaider,1864,                pp. 16-17

[15]Castello-fortezza eretto da Carlo D’Angiò nel XIII secolo, in epoca risorgimentale venne usato dai piemontesi per rinchiudervi i detenuti durante la guerra contro l’esercito borbonico.

[16] Morvillo, Storia e processo della tortura del sordo-muto Antonio Cappello, cit., pp. 110-111-112

[17] Ivi,. P. 247

[18] Verbale Camera dei Deputati della seduta del 4 dicembre 1863, resoconto stenografico

[19] Morvillo, Storia e processo della tortura del sordo-muto Antonio Cappello, p. 7-14


 

 

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