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LA GRANDE SORELLASTRA Implicazioni sulla diffusione di un programma televisivo apparentemente innocuo... Jan 26 2003 12:00AM - Cammello Saraceno (Rieti) L’onda di piena del Grande Fratello si ingrossa sempre di più. Pare che ne stia arrivando una terza edizione. Il successo è assicurato; c’è una grossa parte di Italiani che ama seguire questo tipo di rotocalchi mediatici, costruiti sul pettegolezzo (va di moda dire “gossip”) e basati principalmente su estemporaneità e volgarità, a proprio modo convenzionali, delle quali si compiace e nelle quali si riconosce.
Questa particolare specie di spettacolo è caratterizzata da estemporaneità, improvvisazioni e variazioni repentine di umore dei contemporanei che vi partecipano e non è sostenuta da altro che dalla voglia sfrenata di protagonismo, finalizzata all’arricchimento dei propri titoli, ossia del curriculum che, tra l’altro, già contiene una vasta gamma di trasgressioni. Un siffatto spettacolo è pertanto allineato, per convenzione generalmente accettata, alle abitudini comportamentali di quella specifica fascia di soggetti, il bacino d’utenza di siffatte creazioni, che è purtroppo costituita da un’elevata maggioranza di individui. Ciò che era definito convenzionale fino a 20, 30 anni fa, oggi non lo è più perché é rimasto confinato nelle abitudini di una ristretta minoranza e risulta sgradito e fortemente criticato dal nuovo conformismo emergente che è andato accreditandosi nella pratica quotidiana delle masse; infatti i parametri di valutazione di ciò che costituiva il patrimonio delle convenzioni generalmente accettate dalle passate generazioni sono radicalmente mutati.
Tutto comincia intorno al 1964, quando si va preparando quel rivolgimento storico-sociale che va sotto il nome di Sessantotto.
I genitori, gli insegnanti, i capi ufficio, i capi squadra e in genere chiunque possa essere identificato con l’autorità o con il potere, diventano elementi di sopraffazione e perciò stesso meritevoli di gogna e quindi contestati radicalmente. La gogna mediatica, che avrà il suo momento di grazia circa trent’anni dopo, quando scoppierà il Caso Manipulite, è ancora una giovane ed inesperta creatura che comincia però timidamente a fare capolino tra le pagine di qualche quotidiano.
Erano tempi in cui l’appellativo “fascista” era diventato di uso corrente e si respirava il clima che nell’immediato dopoguerra aveva caratterizzato le vendette partigiane, cioè la cosiddetta Liberazione.
Il più delle volte l’appellativo non aveva alcun riferimento alle idee politiche della persona, ma voleva stigmatizzare i suoi comportamenti, classificati come inaccettabili da una parte degli interessati, questa sì, parte politica. La famiglia e la scuola, di riflesso, vennero coinvolte da protagoniste in questo fenomeno.
Il termine “fascista” aveva assunto il ruolo di un contrassegno che, come una specie di griffe discriminatoria, veniva affibbiato a qualcuno per delegittimarlo davanti all’opinione pubblica.
Le simpatie per la gogna hanno radici antiche e profonde e si avvalgono di numerosi espedienti per raggiungere il loro scopo.
Chiunque avesse preteso, anche solo accennandovi, di voler stabilire la legalità o di voler far rispettare le regole contrattuali o le più elementari norme di educazione civica e di convivenza civile era considerato nemico del popolo e come tale messo alla gogna. Il capo ufficio che si era permesso di guardare l’orologio per far rilevare al dipendente il ritardo con cui si era presentato al posto di lavoro veniva etichettato come “fascista” e spubblicato nei comunicati sindacali, nelle bacheche, nei volantini e nelle assemblee che si svolgevano con riti per quanto possibile simili a quelle revisioniste della rivoluzione cinese. Il lavoro delle organizzazioni sindacali veniva fiancheggiato da quello dei soliti ignoti, mediante l’affissione di manifesti pirata dal tenore offensivo e l’esecuzione, con vernice rigorosamente rossa, di scritte di analogo tenore sui muri del quartiere.
Parallelamente allo sport delle scritte murali, andava prendendo piede il graffito, stretto parente del “ta-ze-bao” cinese e del “murale” latino-americano. Il termine graffito in questo caso è improprio perché rubato ad una specifica forma espressiva risalente alla preistoria che consiste nel più antico tentativo di rappresentazione grafica e di comunicazione umana; umanità selvaggia, s’intende, la quale essendo all’epoca del tutto illetterata e praticante un idioma con ogni probabilità costituito da grugniti, non aveva altro mezzo per esprimersi che quello di imbrattare le pareti delle caverne in cui trovava rifugio. Ma questa è una digressione culturale. Torniamo alla Grande Sorellastra.
Le abitudini, i comportamenti e le aspirazioni che possiamo definire convenzionali perché accettati ed adottati da una maggioranza di soggetti facenti parte di una medesima società, riguardano una fascia di età compresa tra i dieci ed i cinquant’anni.
È incredibile come in un tempo relativamente breve e nel volgere di un paio di generazioni, le distanze tra età così estreme, cioè tra genitori e figli, si siano accorciate fino a sparire. Oggi tra genitori e figli non ci sono più distanze ed il turpiloquio è diventato una delle abitudini più diffuse ed è entrato a far parte della lingua parlata al punto che molti non sanno più i termini corretti da usare per trasmettere il proprio pensiero. Intendiamoci, la maggior parte dei termini scurrili è sempre esistita; ma era riservata principalmente agli adulti uomini, in certi ambienti e in certe situazioni; e comunque veniva classificata come linguaggio da maneggio o da bordello. Tanti della mia età, da ragazzi, sono stati espulsi dalla scuola con tanto di ammonizione e di nota sul registro per una sola “parolaccia”. Una cosa del genere oggi farebbe notizia e diventerebbe fatto di cronaca, e classificherebbe il malcapitato addetto di turno all’istruzione scolastica come novello “fascista” o come unba sorta di prevaricatore che vive fuori dalla realtà. Al fianco delle scurrilità, ci sono poi le barzellette; e qui il discorso diventa più interessante, perché non esistono più limiti alla decenza ed anzi quelle che raccontano i figli ai genitori sono molto più trasgressive.
Potrei continuare, ma mi allontanerei dalla conclusione.
In questo quadro, è divenuto impossibile esercitare il compito di educatori; l’educare è divenuta una pratica negativa; alcuni soggetti che si intestardiscono a farlo scadono in esibizioni isteriche diseducative e asociali. Altro che incomunicabilità; al confronto, i silenzi di Antonioni erano alta espressione educativa e formativa e forse il silenzio sarebbe più accettabile di un florilegio di parolacce.
Nel sentire comune si tende ormai a delegare al Governo la soluzione delle cose irrisolvibili; a sua volta il Governo delega la Scuola, la quale delega i rappresentanti dei genitori, i quali infine scaricano sugli interessati “perché sono maturi e perché… finiamola col protezionismo ad oltranza”.
Non ci rimane che fare un bilancio parziale e provvisorio e chiederci a chi accollare le responsabilità di questo madornale deterioramento dei costumi che ancora molti si ostinano a definire occidentali e ad attribuire quando alla civiltà cristiana che caratterizzerebbe tutto l’Occidente, quando agli Stati Uniti ritenuti principali responsabili della cosiddetta globalizzazione.
Non svelo alcun mistero se addosso al mezzo televisivo le maggiori responsabilità della grave situazione in cui versa oggi la società; con prospettive per il futuro che appaiono davvero devastanti, specie se si considerino i danni procurati dagli altri mezzi mediatici che integrano il lavoro negativo della televisione: il cosiddetto telefonino che da segno distintivo di classe si è trasformato, per effetto della funzione dei messaggini che con esso vengono inviati e ricevuti, in mezzo di incomunicabilità e diseducazione, peraltro promosso di recente al rango di televisore portatile individuale. Così, dopo la gente che guida col telefono incollato all’orecchio, la gente che per strada parla “da sola” e quelli che sditazzano sulla tastiera per ore ed ore nei posti più impensati, presto vedremo folle di telespettatori ambulanti, motorizzati, o assisi dovunque che seguono estasiati i programmi “telefonicovisivi” impipandosene di ciò che accade intorno. Non è difficile prevedere che si registrerà una sensibile riduzione del PIL ed un aumento degli incidenti, dei problemi sociali e delle malattie.
Last, but not least, Internet, principe dell’incomunicabilità e attivo collaboratore della diseducazione.
Parafrasando il titolo della nota trasmissione televisiva Grande Fratello, chiamerei Grande Sorellastra l’associazione (a delinquere) dei tre “media” sopra menzionati.
Tra questi la televisione assurge certamente al ruolo di precursore diseducativo specifico e di guida altamente infiltrata ed infiltrabile, visto che si è diffusa l’abitudine di collocare televisori persino nel bagno.
Grande Sorellastra è comunque e soprattutto la televisione, quasi una matrigna di leopardiana memoria, “perché di tanto inganna i figli suoi”, perché è femmina e perché riunisce in sé tutte le qualità negative delle parentele spurie con cui si è costretti a volte, nostro malgrado, a convivere per l’intera vita, non desiderando altro alla fine che di disfarsene, talvolta anche in modo cruento. La televisione è una mezza parente che non ti ama affatto, tal come una sorellastra o, appunto, una matrigna; che con determinazione assai più devastante di quella attuata dal Grande Fratello di cui in premessa, ti trasmette messaggi subliminali, controlla i tuoi comportamenti ed indirizza i tuoi desideri, cercando nel contempo di emarginarti, di offenderti, di umiliarti, di evidenziare le tue bruttezze, le tue povertà, la tua ignoranza, la tua solitudine e che ti stimola, senza fartene accorgere, ad emulare gesta proibite, a desiderare a dismisura cose impossibili, a fuggire verso terre da sogno e, nel caso specifico, ti predispone ad affrontare con ineffabile leggerezza tradimenti, separazioni, incidenti, sparatorie, morti, aborti, sesso libero, turpiloquio e “quant’altro” (come direbbe un mio giovane conoscente progressista), senza ripensamenti, senza rimorsi, senza speranza, senza dolore, senza pietà; senza insomma quell’ “attimino” (altra abusata accezione neo-progressista) di riflessione che nel passato della nostra civiltà ha risparmiato tante vite ed ha salvato tante persone da tanti mali che oggi invece sono diventati epilogo annunciato.
L’epilogo prefigurabile? Lo stiamo già in parte vivendo. Ha i nomi ed i volti di tali Ciatti, Erika, Omar, ecc. ed ha come sfondo, indifferentemente, ridenti colline e ville, o squallide periferie e tuguri, o gli stupendi paesaggi di Cogne. Perché, tanto, la televisione arriva dovunque. In proposito esiste ormai tutta una letteratura, rigorosamente mediatica. E non si trascuri l’ampio repertorio della pubblicità che è una colonna portante della televisione, soprattutto il modo di fare pubblicità, insieme ai cosiddetti programmi di intrattenimento e di evasione, nonché alle notizie diffuse dai telegiornali, ad alcune specie di cartoons, alle promesse improbabili di maghi e maghesse ed infine ai disperati inviti a “chiamare, chiamare…” delle vittime di quelle macellerie umane catalogate come Hot Lines.
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