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La Storia che ci interessa

SPLENDORI E MISERIE DELL’IMPERO OTTOMANO

Nel XV secolo si impone nel Mediterraneo e in Medio Oriente, poi il declino, fino al XVIII secolo.


30/07/2019 - Massimo Iacopi


(Bardonecchia)

Dai Balcani all’Africa del Nord, passando per il Vicino Oriente, la Sublime Porta di Felicità ha imposto la sua potenza a partire dal XV secolo. Ma l’impero che ne deriva avrà grandi difficoltà a modernizzarsi e non sopravvivrà alla crescita dei nazionalismi.

Semplice principato turco (beylicat) alla sua fondazione, nel 1299, l’Impero Ottomano si espande e muore in molteplici paradossi: incarnando la grandezza dell’islam, egli viene fondato nell’Anatolia occidentale e nei Balcani e si presenta come il continuatore di Bisanzio, prima di conquistare Damasco, Bagdad ed il Cairo nel 1516-17. Tre figure illustrano la sua magnificenza, ma anche la sua miseria: Mehemet o Maometto II (sultano dal 1444 al 1446 e quindi dal 1451 al 1481), conquistatore di Constantinopoli, che mette fine alla supremazia dei Turchi nel Palazzo per instaurare il regno dei servitori, giovani cristiani islamizzati provenienti dai Balcani; Selim I, detto il “Bravo” o il “Crudele” (sultano dal 1512 al 1520), che realizza la sua espansione verso la Siria e l’Irak attuali, come anche verso l’Egitto; Solimano il Magnifico, detto il “Legiferatore” (sultano dal 1520 al 1566), che dà all’Impero una configurazione più compiuta. I loro regni sono turbolenti, la trasformazione del Beylicato in impero, l’emarginazione della sua aristocrazia turca e l’instaurazione di un controllo statale sullo spazio religioso da parte di Maometto II, sultano tanto arrogante quanto empio, provocano rabbia e scontento. Il regno di Selim I é segnato da rivolte di ispirazione sciita scatenate dalle tribù turkmene, che saranno represse in occasione della guerra contro la Persia dei Sefevidi, dinastia di origine turca. L’era di Solimano, infine, si conclude con rivolte scatenate in parte alla crisi monetaria dell’Impero. L’instabilità, accompagnata dal crollo economico di numerose città dell’Asia minore, perdurerà per diversi decenni dopo la scomparsa del “Legiferatore”.

Il garante dell’ordine universale

Questo impero che ha durevolmente marcato lo spazio ed il tempo europeo, mediorientale e nord africano, si presta, ad un primo approccio, a numerosi paragoni con altre entità imperiali. Esso è, prima di tutto, sinonimo del dominio di una classe, detta impropriamente “militare” (askeri), che raggruppa la burocrazia, i giannizzeri, i detentori dei feudi e gli ulema, che, guarda un po’, non pagano le imposte. Esso è un organismo centralizzato e può proiettare le sue forze nel tempo e nello spazio, da Tripoli di Libia fino alle porte di Vienna, ma dispone appena di un modesto apparato burocratico e, di fatto, accorda una autonomia a numerose entità nel mondo arabo, nel Kurdistan e nei suoi territori vassalli (Crimea). Esso è ossessionato dall’armonia. In particolare, esso si percepisce come il nizam al alem (l’ordine dell’Universo) e tenta di fissare uomini e comunità in complesse gerarchie sociali, ma, per poter durare, si vede costretto, in permanenza, a venir meno ai suoi principi. Conformemente alla dottrina di Stato dell’islam, esso vieta ai non mussulmani di portare le armi, ma è obbligato a ricorrere al loro servizio per farsi obbedire nei Balcani; esso considera come una abominazione l’abbandono della terra da parte dei suoi contadini, ma deve assicurare la loro mobilità a grande scala sotto forma di deportazione, per ragioni che non sempre derivano da una razionalità economica o di sicurezza. Anche se esso pone la giustizia e l’equità al centro della sua dottrina, esso si trova nondimeno costretto, sotto l’esemplare regno di Solimano, ad ufficializzare ovvero a “fissare” l’entità delle mance (bakshish) a tutti i livelli dello Stato. Se esso sacralizza la persona del sultano, al punto da autorizzare l’assassinio dei suoi fratelli o dei suoi figli, esso non li mette più a morte, allorché non è più in condizione di assicurare la perennità “dell’ordine del mondo”. Tuttavia, la Casa del “Gran Turco” costituisce un’eccezione nella famiglia degli Imperi del Vecchio Continente. Essa è multietnica e multi confessionale dalle origini (l’Austria Ungheria e la Russia, i suoi avversari, lo diventano solo nel corso del XVIII secolo). Sebbene “europeo” alla sua nascita, esso fronteggia una Europa di cui non riesce più a comprendere le dinamiche e non risulta neanche in condizioni di capire e scongiurare la dissidenza delle sue popolazioni cristiane, le cui classi elevate, occidentalizzate, vengono conquistate dalle idee di emancipazione nazionale ed universale. La sconfitta che l’Impero subisce davanti alle porte di Vienna nel 1683 dimostra che il suo motto, “vittorioso sempre”, non corrisponde più alla sua realtà. Un secolo più tardi, si impone la necessità di passare dall’antico “ordine universale” ad un più modesto “nuovo ordine”. Da Selim III detto il Riformatore (sultano dal 1789 al 1807) a Habdul Hamid II (sultano dal 1876 al 1909), passando per il periodo dei Tanzimat (riorganizzazione, 1839-1876), l’Impero diventa un cantiere di riforme giuridiche ed amministrative. In tal modo, mentre i poteri del sultano vengono limitati a vantaggio di quelli della burocrazia, appaiono, nel panorama politico, il Consiglio dei ministri ed assemblee consultive, sia nella capitale, come anche nelle province. Nel 1856, quando le “stalle” iniziano a svuotarsi, un rescritto imperiale riconosce anche la libertà di culto e l’uguaglianza giuridica fra mussulmani e non mussulmani.

Una continua perdita di territori

L’Impero si modernizza, ma inizia a dissolversi ai suoi margini. Esso è costretto ad abbandonare una gran parte del Caucaso e la Crimea alla Russia (1826-29, 1853-56, 1877-78) e batte in ritirata davanti alla Francia in Algeria (1830) e Tunisia (1881). Lo slancio secessionista dei uno dei suoi governatori, l’albanese Mehemet Alì (che si impone come sovrano a pieno titolo fra il 1805 ed il 1848), gli fa perdere l’Egitto, il suo antico granaio. Il conflitto confessionale nel Libano (1860), l’espansione wahabita in Arabia o la conversione dei sunniti del sud dell’Irak attuale allo Sciismo, mostrano chiaramente che incontra grandi difficoltà ad imporsi anche nelle sue province meridionali. Ma i principali fattori della disintegrazione dell’Impero sono legate alla questione delle nazionalità, di cui le rivolte serbe (1806-12) e greche (1821-29) costituiscono le prime manifestazioni. Nel 1877 la guerra con la Russia riduce la sua presenza nei Balcani: la Bulgaria diventa un regno autonomo e la Bosnia-Erzegovina passa sotto amministrazione asburgica. Il regno autocratico di Abdul Hamid II, che viene dopo un regicidio ed una rivoluzione di palazzo nel 1876, risulta una restaurazione del vecchio ordine. Egli riesce a conseguire una certa stabilità, al prezzo della messa sotto tutela internazionale delle sue dogane nel 1881, ma, contemporaneamente, la messa in opera di uno “Stato parallelo” dipendente dal Sultano, il massacro degli Armeni (1894-96), la sanguinosa repressione di S. Elia in Macedonia (1903), la “biologizzazione” del discorso ufficiale, che vede i Cristiani come “microbi” e delle “sanguisughe”, contribuiscono alla accelerazione del progresso della “brutalizzazione” della società ottomana.

Verso un nazionalismo turco aggressivo

Il regno di Abdul Hamid II termina il 24 luglio 1906 con il pronunciamento del “Comitato di Unione e Progresso” , che raggruppa, in particolare, giovani militari dei Balcani, influenzati dal mito di Napoleone, dal darwinismo sociale e dalla teoria della “guerra totale”, secondo i precetti del loro formatore, il maresciallo prussiano Colmar von der Goltz Pashà (1843-1916). Il giuramento di unità ottomana e la triade rivoluzionaria (libertà, uguaglianza, fraternità) accompagna la loro presa di potere, ribattezzata come “Proclamazione della libertà” o la “Rivoluzione francese in Oriente”. Tuttavia, dopo la dichiarazione di indipendenza formale della Bulgaria, separata, di fatto, dall’Impero dal 1878 e l’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte di Vienna, percepita da Istanbul come una umiliazione, l’ideale della fraternità ottomana lascia il posto ad un nazionalismo turco aggressivo. La “Nuova Via”, propugnata da Mehemed Ziya Golkap (1876-1924), ideologo del Comitato, viene posta sotto il segno di “ordine e disciplina” e mira a realizzare la fusione dello stato “maschio” con la nazione “donna”. La prima guerra balcanica (1912-13), che gli unionisti del Comitato – provvisoriamente scacciati dal potere da un comitato militare contrario - desiderano ardentemente, far suonare i rintocchi funebri per la Turchia europea. La vittoriosa Lega Balcanica (Serbia, Grecia, Bulgaria, Montenegro), si spartisce una buona fetta dei territori europei dell’Impero. Salonicco, culla del Comitato dei Giovani Turchi, cade senza la minima resistenza ed Edirne/Adrianopoli, una delle capitali imperiali, verrà riconquistata solo a seguito di una seconda guerra balcanica (1913), che vede opposti, fra di loro, i vecchi alleati balcanici della 1^ guerra. Nel 1914, l’Impero rimane multi etnico e multi confessionale e comprende vasti territori arabi, ma risulta già radicalmente diverso da un impero classico: diretto da un “triumvirato”, composto da Cemal Pashà (1972-1922), Ismail Enver Pashà (1881-1922) e Talat Pashà (1874-1921), che instaura una dittatura di un partito stato, la nuova struttura dispone di una ideologia ufficiale, il “turchismo”. Se il Comitato è perfettamente conscio che non potrà più riconquistare i Balcani, esso ha anche un nuovo orizzonte imperiale: il Turan, ovvero l’Asia centrale, luogo mitico di nascita dell’identità turca. La 1^ Guerra Mondiale verrà considerata come il momento della rivincita sulla Storia e di questa nuova costruzione imperiale. Istambul scatena le ostilità contro la Russia, ma le sue forze si spezzano sull’inverno caucasico del 1914-1915, dove 80 mila soldati del generale Enver Pashà muoiono prima di essere impegnati in battaglia. Questa sconfitta sarà uno dei fattori scatenanti del genocidio armeno e degli altri cristiani orientali. I massacri dei Greci, l’esecuzione di intellettuali arabi e l’inizio delle deportazioni degli Ebrei dalla Palestina e dei Kurdi dall’Asia minore non impediranno la caduta finale, resa più rapida dalla rivolta araba del 1916. La notte fra il 1° ed il 2 novembre 1918, Cemal, Enver e Talat ed altri responsabili del Comitato prendono la fuga su una nave militare tedesca. Parigi e Londra impongono un governo mandatario sulle province arabe ed il Trattato di Sevres (1920) contempla la spartizione di quello che resta dell’Impero. Ma l’esercito del Caucaso, l’organizzazione speciale del Comitato che aveva pianificato il genocidio, la burocrazia unionista ed i notabili locali, principali beneficiari dei saccheggi a seguito dei genocidi, dispongono ancora di forze per organizzare una “guerra d’indipendenza” sotto il comando di un vecchio unionista, Mustaka Kemal Pashà (1881-1938). Questi, vittorioso, deciderà di sopprimere il sultanato degli Ottomani (1922), prima di proclamare la Repubblica di Turchia (1923) e di assumere il nome di Ataturk (“Padre dei Turchi”), nel 1934. Ancora oggi a distanza di oltre 80 anni la Turchia moderna post kemalista si trova ad un bivio della sua storia: fra un nazionalismo pan turco (panturanesimo) ed un panislamismo a guida turca (neo ottomanismo), incarnato dal suo attuale leader Recep Erdogan.


 

 

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